Non si sa se Metternich abbia detto davvero che Italia è solo un’espressione geografica (la frase fu all’epoca probabilmente distorta). A volte sembra, però, che siano gli italiani stessi a pensarlo: tentazioni secessioniste, recriminazioni neoborboniche, senso di inferiorità verso le altre nazioni.
Non tutti, per carità, e sicuramente non l’archeologo e scrittore Valerio Massimo Manfredi. Ha appena dato alle stampe per Sem Sentimento italiano (pagg. 158, euro 15). Il libro, che ha molti passaggi autobiografici, è un inno a quello che nel sottotitolo è definito come «un popolo inimitabile», un popolo che però a torto «pensa di meritare qualunque disprezzo». Ne abbiamo parlato con lui.
Cos’è il sentimento italiano?
«Per me è un sentimento naturale, l’insieme dei valori con cui sono cresciuto e mi sono formato. È un insieme di cultura e di esperienza che è stato possibile acquisire solo crescendo e vivendo in un territorio che vanta trenta secoli ininterrotti di storia. C’è un filo rosso di civiltà che non si è mai spezzato dall’ottavo secolo avanti Cristo. È una cosa unica. Certo ci sono altre civiltà antichissime. Ma guardi la Cina: lì la continuità è stata spezzata dalla rivoluzione culturale di Mao… Il comunismo ha portato un oblio forzato; da noi invece la fiaccola non si è mai spenta. A volte ha vacillato ma spenta mai».
Eppure non abbiamo molto orgoglio nazionale. Come mai?
«La territorialità è tipica di tutti gli animali evoluti. Bello il canto dell’usignolo vero? Sta solo segnalando agli altri usignoli che quel territorio è il suo. Il senso della territorialità negli umani è organizzato, basta a pensare al concetto di limen dei romani, per intenderci. Gli italiani hanno lottato a lungo per essere una nazione. Poi è arrivato il trauma prodotto dal fascismo. Mussolini ha illuso gli italiani di essere una superpotenza militare. Il trauma della sconfitta li ha piegati. Hanno iniziato a percepire la parola Patria come fosse un tradimento o un inganno. Come scrive Corrado Alvaro, hanno iniziato a tifare per Radio Londra, a tifare contro i loro figli in guerra. È stato un trauma tremendo che ha lasciato tracce profonde. Fortunatamente l’Italia si è rialzata, ma il trauma è rimasto».
Questioni ideologiche hanno pesato?
«Indubbiamente c’è stato un pezzo di sinistra che, a colpi di ideologia marxista, ha trasformato la Patria soltanto in una proiezione dei poteri del capitale cattivo che manda in guerra i poveracci. Ci sono voluti anni e anni per rivedere il Tricolore fatto sventolare sistematicamente. Questo grazie anche ad alcuni presidenti della Repubblica che hanno particolarmente insistito sul tema… Ma siamo sinceri: anche un pezzo di destra ha coltivato idee secessioniste. C’era chi si permetteva di dire che col Tricolore ci si puliva il culo. Per me è intollerabile, i miei nonni hanno combattuto nella Grande guerra».
Ma il sentimento di italianità c’è?
«Spesso è nascosto ma poi viene fuori. Conosco colleghi che hanno avuto carriere sfolgoranti all’estero ma che rientrerebbero subito in Italia se ne avessero la possibilità. Mi hanno spesso chiesto di parlare di Italia a scuola, nei convegni e anche a Mantova al Festivaletteratura. Lì ho iniziato citando Augusto e le Res Gestae: Iuravit in mea verba tota Italia sponte sua. È da prima di Augusto che esiste l’idea dell’Italia. È stato Giulio Cesare a inventare l’idea di Occidente. Noi abbiamo tutto questo alle spalle e non possiamo perderlo. Il grande rogo della civiltà romana si è trasformato in una fiammella ma la fiammella non si è mai spenta. L’hanno tenuta viva Dante, Petrarca, Machiavelli. È arrivata al Risorgimento e lì ha consentito di ritrovare un’unità che, per secoli, a colpi di divisioni e di invasioni ci è stata negata».
Nel libro insiste molto sul valore del Risorgimento. Ma negli ultimi anni è nata tutta una pubblicistica neoborbonica che trasforma parte dell’epopea risorgimentale in una mera invasione…
«Il Risorgimento è stato un momento fondamentale, dopo secoli di oppressione e spoliazione gli italiani hanno ritrovato la loro dignità. Era pensabile che un fenomeno del genere avvenisse senza violenza? Ci sono stati episodi terribili, come quello di Bronte, ma non si può ridurre l’impresa di Garibaldi a un’invasione. È arrivato in Sicilia con mille uomini ed è sbarcato sul continente con trentamila: qualcosa vorrà dire no? E poi tutto questo rimpianto dei Borbone a sud e degli austriaci a nord… I Borbone avevano uno stato stagnante e di polizia, gli austriaci fucilavano i volontari tredicenni accorsi a difendere Venezia, non so cosa ci sia da rimpiangere…».
Eppure per molti Garibaldi…
«Fermo lì. Lasci stare Garibaldi. C’erano 500mila persone a Londra a festeggiare Garibaldi quando arrivò nel 1864. Ha dimostrato al mondo che gli italiani sapevano battersi e fare da soli. Aveva un Paese ai suoi piedi e non si è mai arricchito. C’è un solo posto in cui si parla male di Garibaldi ed è l’Italia, persino Lincoln, durante la guerra di Secessione, lo voleva negli Usa per dargli il comando delle truppe dell’Unione, anche se non sapeva una parola di inglese. Si può riflettere sulla storia, ma non stravolgerla».
Che differenza c’è tra patriottismo e nazionalismo?
«Il secondo è la degenerazione del primo, il primo è amore per la patria, il secondo si trasforma in odio per il prossimo. Lo capisco è difficile ormai parlare di patriottismo però io tifo per noi! Lo trovo normale. Posso raccontarle una cosa?»
Prego.
«Quando ho finito il romanzo sulla disfatta della selva di Teutoburgo ho deciso di andare là a deporre un fiore per un centurione nato a Bologna e morto durante la battaglia, durante la strage delle legioni di Varo. Si chiamava Marco Celio e aveva 53 anni ed era di Bologna, quasi un concittadino per me, gli dedicò una stele suo fratello, è per questo che conosciamo il suo nome. Ho scelto un punto degli scavi archeologici dove un cartello segnalava che erano stati ritrovati i sandali di un ufficiale romano appartenuto alla XVIII legione. Ho deposto lì il mio fiore. C’era una scolaresca tedesca un po’ rumorosa. Vedendo il gesto si sono fatti più silenziosi, l’insegnante mi ha chiesto perché stessi mettendo un fiore lì e ho risposto: Because I’m italian. Lo ripeto, io tifo per noi».
Come può la piccola Italia sopravvivere in un mondo globale?
«La risposta è l’Europa. Avere l’Europa unita è un sogno e non un fatto solo economico. E quel sogno è nato anche grazie all’Italia che è tra i fondatori. Unire popoli che si sono fatti la guerra per secoli è il più grande esperimento politico che ci sia in circolazione».