È notorio, e solo dei solenni idioti potrebbero negarlo, che esista una connection altolocata, visibile, penalmente inafferrabile: da qualunque parte colino – delitto incluso – denaro e potenza psicagogica influiscono sugli alambicchi dei poteri costituiti, venendo utili, ad esempio, nelle partite elettorali. Meno condivisa è, invece, l’opinione che se qualcuno voglia colpire i nodi perversi, dovrà individuare i punti in cui il metabolismo collettivo li alimenta. Mosse simili esigono una perfetta analisi del groviglio, fantasia intellettuale, norme idonee, mani pulite e abili, ossia complesse condizioni tecniche, più una costosa volontà politica. Il che non è affatto compatibile con il furore punitivo che pervade vasti settori della società, ma lo è ancor meno con i rigurgiti inquisitori del processo penale. La ruota inquisitoria, mossa da un vizio fabulante-deduttivo, gira, infatti, nel senso opposto ed è un’illusione che sia mai stata utile alla crime-detection: per un verso, l’introspettore non esce quasi mai a testa nitida dall’immersione psichica, per l’altro, stimola confuso verbiage. E se non è paradosso che tutto cominci dall’igiene linguistica, certo non giovano le troppe parole equivocamente adoperabili, che circolano.
Una di queste, ed eccoci al punto, la parola «massomafia», di cui fanno largamente uso, ma soprattutto abuso, una certa aristocrazia togata rampante e molti campioni dell’Antimafia blaterante, inconcludente e parassitaria, in via di progressiva e inarrestabile espansione. Si tratta di neologismo coniato, agli inizi degli anni Ottanta dello scorso secolo, da Giuseppe D’Urso, Presidente dell’Istituto Nazionale di Urbanistica per la Sicilia e docente di pianificazione urbanistica e territoriale all’Università di Catania, per indicare il ruolo centrale della massoneria quale collante della serie di rapporti di dipendenza personali all’interno della società e nelle istituzioni, soprattutto nella magistratura, delle organizzazioni mafiose, in particolare di Cosa Nostra. Dal suo privilegiato punto di stazione, il D’Urso aveva notato, infatti, l’esistenza di una serie di interconnessioni tra i vari poteri, le istituzioni, l’imprenditoria, la stampa, la cultura e così via, il cui la massoneria sarebbe stato il collante torbido.
L’idea che le Logge, a cui aderiscono molti personaggi eccellenti, costituirebbero il tramite più frequente e sicuro tra organizzazioni mafiose, esponenti della società civile e istituzioni, non era certamente nuova quando, anche sull’onda dello scandalo della Loggia «Propaganda 2», venne enunciata, ammantata di rigore scientifico, da Giuseppe D’Urso: senza usare il termine «massomafia» oggi tanto in voga, era già stata esplicitata nell’Hortulus Mysterii, sorta di zibaldone, nel quale il napoletano Francesco Gaeta, strano ed esuberante esponente della cultura del primo Novecento, annotava, copiava, riportava i più svariati argomenti.
Costui, fra il 30 giugno 1911, quando lo accolse la Loggia «Losanna» all’Oriente di Napoli, e il 23 aprile del 1914, allorché ne vennero accettate, evento affatto inusuale, le dimissioni, era stato membro della massoneria, senza andare oltre il grado di Apprendista; una breve parentesi, a suo dire, servitagli per verificare «quanto quei crani massonici conoscono punto l’arte di Hermete Trismegisto, non sanno distillare l’Oro dei Filosofi bensì solo l’aureo denaro che ha preso il posto della materia grigia. Le loro teste sono salvadanai, il loro “genio” ignora l’oro potabile e le loro bocche gracidano il Talmud, trappola ignobile dei Giudei, così come la circoncisione è lo schifoso rito fallico in cui la ferocia s’accoppia all’oscenità».
Questa intuizione traeva spunto dal fatto che Alexandre Dumas, il quale aveva seguito da entusiasta la spedizione militare garibaldina nel Meridione, partecipato attivamente alla stessa con spedizione d’armi e raccontato al suo pubblico gli avvenimenti dal fronte, era entrato a Napoli sotto le insegne del Grande Architetto dell’Universo, nella Loggia «Fede Italica», su invito dei «fratelli» Giovanni Pantaleo, cappellano dei Mille, Luigi Zuppetta, penalista di gran fama, oltre che dell’amico e massone Giuseppe Garibaldi: «Garibaldi, Pantaleo, Bixio, Bertani (…) con le armi di Dumas!», scrisse Francesco Gaeta, «Ma che salomonica compagnia: non all’insegna d’Israel, bensì della Maffia!». Potrebbe sembrare che l’intellettuale napoletano esibisse la sua «dietrologia» di stampo antimuratorio marcatamente antisemitico, per le cose del mondo: di fronte ai fatti che i nomi citati appartenevano a eroi ed esponenti carismatici delle Camice Rosse e dei «grembiulini e guanti bianchi» e che il rifornimento di armi, da parte di Dumas, fu sia pure parzialmente rimborsato da Agostino Depretis, futuro 33° del Supremo Consiglio, Francesco Gaeta non avrebbe avuto torto a definire, quella dei Mille, una missione armata dei Figli della Vedova. Ma proprio l’accenno alla mafia dimostra come così non fosse: a foglio 512 dell’Hortulus, si trova l’annotazione: «Maffia = Massoneria (sincope) = MaSSia»; dov’è chiaro il riferimento all’abbreviazione della parola «Massoneria», in cui la doppia «s», all’epoca veniva scritta come una doppia «f», e quindi per tale letta erroneamente; e, in effetti, non si rinviene traccia del vocabolo «mafia» (o «maffia») prima della spedizione garibaldina e di cui è ancor oggi incerta l’etimologia. Certamente suggestiva quella offerta dall’intellettuale partenopeo che, secondo il ragionamento a lui proprio, finiva per congiungere così tutti gli elementi: il Fratello Garibaldi, appoggiato, dopo lo sbarco, dai massoni meridionali, tutta «gente di rispetto» ossia i notabili del regno; costoro, temporibus illis, sfruttando l’organizzazione muratoria, davano vita alle prime consorterie dell’«onorata società».
Più recenti studi sulle organizzazioni complesse hanno evidenziato, peraltro, come per capire adeguatamente il funzionamento di un’impresa non ci si possa limitare alla sola analisi degli interna corporis, dentro i suoi confini giuridico-organizzativi formali, occorrendo invece analizzare il network di società e di individui impegnati in azioni mutualmente cooperative, attraverso il quale si realizza principalmente l’allocazione delle risorse. Poiché questo accade pure per le imprese criminali, quali le mafie, agli onesti raziocinanti non sfugge come sia semplicistico e riduttivo focalizzarsi soltanto sui trasgressori primari senza analizzare l’ambiente nel quale agiscono e il network operativo di riferimento, composto di imprenditori, colletti bianchi, politici, agenti delle forze dell’ordine, persone delle istituzioni e delle pubbliche amministrazioni, senza il quale l’azione dei mafiosi sarebbe fortemente limitata. Né, del resto, sfugge agli osservatori attenti delle vicissitudini criminal-giudiziarie, almeno degli ultimi decenni, come la suggestiva parola «massomafia» venga usata fin troppo spesso ad pompam nelle conferenze stampa promozionali di mirabolanti «operazioni» poliziesche da parte di esponenti apicali dell’aristocrazia togata con cui viene identificato l’intero ordinegiudiziario, mentre trovi altrettanto spesso smentita nei successivi provvedimenti giurisdizionali, tanto endoprocessuali quanto «definitivi». Non vorrei, allora, apparire blasfemo, ma da onesto raziocinante, attento osservatore di quel che accade, vedo nell’enfatica evocazione della «massomafia», qualcosa di analogo al far perno sulla parola «Dio» per fornire la prova dell’esistenza dell’Ente supremo che essa designa.
Nel Proslogion, Sant’Anselmo, citando i Salmi (14, 1 e 53, 1 – «Lo stolto ha detto in cuor suo: Dio non c’è»), aveva, infatti, avanzato una dimostrazione razionale dell’esistenza di Dio, di fronte alla quale nemmeno uno stolto avrebbe potuto continuare a negare Dio, così argomentava: «Signore, tu non solo sei ciò di cui non si può pensare nulla di più grande (non solum es quo maius cogitari nequit), ma sei più grande di tutto ciò che si possa pensare (quiddam maius quam cogitari possit) […]. Se tu non fossi tale, si potrebbe pensare qualcosa più grande di te, ma questo è impossibile» (Proemio e nn. 1.15: 226; 235). Il frate francese Gaunilone, giunto tardi al convento e poco avvezzo a speculazioni filosofiche, nel suo Pro insipiente (Difesa dello stolto), demolì questa «prova ontologica», contestando in linea generale che non tutto quanto abbiamo nell’intelletto deve esistere necessariamente nella realtà; anche le cose false, infatti, sono presenti e comprese dall’intelletto, e tuttavia certamente nella realtà non esistono.
Sarò magari uno stolto, ma nel constatare che, per chi spende la relativa idea, «massomafia» è non solum quo maius cogitari nequit ma anche quiddam maius quam cogitari possit, debbo tuttavia ribadire con Gaunilone che non tutto quanto s’abbia in testa esiste necessariamente nella realtà. Insomma, servono prove che partano dall’osservazione del mondo per risalire all’oggetto da provare ed è questo che deve entrare in testa a taluni campioni rampanti dell’Aristocrazia togata e dell’Antimafia blaterante.