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Sassi nello Stagno

Apologia di un ministro della Giustizia: Giovanni Conso

Impossibile prescindere da talune notazioni biografiche per illustrare la figura di colui che, con Leopoldo Elia, è stato uno dei pilastri della cultura giuridica progressista cattolica, ma che, a differenza di Leopoldo Elia, vero ponte tra il mondo del diritto e quello della politica, rimase sempre un giurista che forniva alla politica la sua esperienza e il suo lavoro, senza mai diventare neppure occasionalmente un politico.

Nato a Torino il 23 marzo 1922, dove si laureò, nel luglio del 1945, Giovanni Conso divenne ben presto assistente presso quella Università e Professore incaricato di procedura penale nell’Università di Urbino dal 1953, vinse, quindi, nel dicembre del 1955, il concorso alla cattedra di diritto processuale penale, materia insegnata come professore straordinario nell’Università di Genova dal 1956 al 1959. Una volta ordinario, era stato chiamato nel 1960 dall’Università di Torino e nel 1973 dall’Università di Roma «La Sapienza», per ritornare poi all’Università di Torino, nel 1977, per insegnarvi diritto processuale civile. Successivamente, insegnò, come professore a contratto, Diritti umani prima a Urbino, dal 1995 al 2003, quindi nell’Università Lumsa di Roma, fino alla morte. Imponente e di altissimo livello, peraltro, la sua produzione scientifica. Ma non solo: impegnato, tra il 1965 e il 1974, nell’esercizio della professione forense e componente del Consiglio dell’Ordine di Torino; eletto per due volte, dal 1969 al 1982, al Consiglio Superiore della Pubblica Istruzione; prima consigliere e poi vicepresidente del Csm, dal 1976 al 1981; nominato Giudice costituzionale il 25 gennaio 1982, ha prestato giuramento 3 febbraio 1982, vicepresidente della Corte costituzionale il 27 ottobre 1987, l’aveva presieduta dal 22 ottobre 1990 al 3 febbraio 1991. Ministro di Grazia e Giustizia nel I Governo Amato e nel Governo Ciampi dal 14 febbraio 1993 all’11 maggio 1994; 
presidente, altresì, dal 15 giugno al 17 luglio 1998 della Commissione dei plenipotenziari dell’Onu che approvò lo Statuto istitutivo della Corte Criminale mondiale permanente. Sia prima che dopo tale evento dedicò particolare attenzione alle tematiche dei diritti umani, contribuendo a diffonderne la conoscenza con molteplici iniziative, fra l’altro presiedendo il Comitato per i diritti umani della Società italiana per l’Organizzazione internazionale.

Vicepresidente della Commissione istituita nel 1974 presso il ministero della Giustizia, presieduta da Giandomenico Pisapia, per redigere la riforma del Codice di procedura penale, Giovanni Conso illustrò il senso di quel lavoro, in un lungo articolo pubblicato nel 1978 dalla «Stampa», la cui attualità, a tanti anni di distanza, è sconcertante. In materia di «carcerazione preventiva», ad esempio, scriveva che «il margine di discrezionalità a disposizione del magistrato resta così lato da aprire continuamente la porta a mandati di cattura tanto “leggeri” nella motivazione quanto “pesanti” negli effetti». Nel nuovo codice la «custodia cautelare» avrebbe dovuto «collocarsi come ultima spiaggia cui fare ricorso solo quando gli altri strumenti apparissero non adeguati». Il «principio di adeguatezza» doveva rappresentare, insomma, «la chiave di volta del nuovo sistema». Col tempo, peraltro, dopo un’iniziale opposizione, si era anche convinto della necessità di separare le carriere dei magistrati, e, nel 2009, per spiegare il suo ripensamento, aveva affermato: «Ritengo che sia ineluttabile: il processo deve essere accusatorio e non più inquisitorio, parità di parti, terzietà del giudice. E terzietà del giudice ha convinto anche me».


Trovatosi a guidare il ministero di via Arenula in piena «tangentopoli», di fronte allo smantellamento dell’intero sistema politico, figlio della Guerra fredda, da parte della Procura di Milano decise una mossa drastica: la depenalizzazione del finanziamento illecito dei partiti, i cui effetti retroattivi, avrebbero sì salvato molti dei coinvolti nelle inchieste, ma anche l’edificio istituzionale della Repubblica: il Pds, almeno in un primo momento d’accordo, cambiato il vento a seguito dell’insorgere della procura di Milano invertì la rotta; così, per la prima volta nella storia della Repubblica, il Capo dello Stato, Oscar Luigi Scalfaro scelse di non controfirmare il decreto, facendolo decadere. In quell’occasione, Giovanni Conso scelse di non assecondare la furia giustizialista, vendicativa e superficiale che con i complessi equilibri della vera giustizia aveva ben poco a che vedere, e la sua sconfitta fu anche quella dell’intera concezione del diritto e della giustizia che era stata sino a quel momento patrimonio della cultura laica e cattolica.

Fatto più grave, il tentativo di coinvolgerlo nello scandalo relativo alla trattativa tra pezzi dello Stato e capi della mafia, durante la «stagione delle stragi», il biennio 1992-1993, così da avvelenare gli ultimi anni di uno dei giuristi più raffinati e colti della sua epoca, esponendolo al rischio di essere probabilmente ricordato da molti soprattutto per una bufala infamante come quella favola nera raccontata tante volte da diventare vera che distorse il senso di una riflessione e di un operato politico spesi sempre con l’obiettivo di correggere le storture che rendono o possono spesso rendere la giustizia ingiusta». Certo è che, nell’ascoltare la Grande Narrazione della Trattativa Stato-Mafia, non si poteva restare indifferenti, essendo difficile resistere all’effetto di suggestione trasmesso da quel racconto, insinuante e seducente, specialmente in Italia, dove le teorie del complotto sono proiezioni paranoiche di una materia reale e fattuale più spessa e torbida di quanto lo sia in altri Paesi, poiché dietro l’ideologia e la favolistica della macchinazione c’è la materialità di mille intrighi veri, effettivamente tentati, raramente riusciti, ma spesso comunque pericolosi. Chi, come Paolo Cirino Pomicino (v. «Il Foglio», 27 giugno 2012), già uomo di punta della corrente andreottiana, riteneva vergognosamente certa quella trattativa, fece notare che dall’inizio del 1994 improvvisamente erano finite le bombe, tanto che lo stesso Walter Veltroni moltissimi anni dopo si domandava perché era finita la stagione delle stragi e poneva una domanda inquietante, inoculando atroci sospetti: «Era una curiosità a scoppio ritardato o un avvertimento a qualche compagno di partito? » e lanciare un affondo micidiale al governo Ciampi, «voluto e sostenuto dal Pci di Occhetto e Violante che nel marzo 1993 mandarono a casa il governo Amato». Non solo questo, ma dopo aver sottolineato che «Tutti (sapevano) che Conso aveva paura della propria ombra», Cirino Pomicino descrive Carlo Azeglio Ciampi come null’altro che «un signore garante di equilibri voluti da quella borghesia azionista che ideò e spalleggiò la destabilizzazione degli assetti democratici italiani dal 1991 al 1993, con la doppia tenaglia della criminalizzazione dei finanziamenti elettorali non dichiarati e delle presunte contiguità mafiose», per muovere l’accusa che il governo da lui presieduto «fu solo l’esecutore di una volontà che non poteva che appartenere al suo vero azionista, quel Pci di Occhetto e Violante che misero a tacere molti loro compagni, tra cui D’Alema, Chiaromonte e lo stesso Napolitano, che non volevano praticare quella scorciatoia per arrivare al potere, come confidò, impressionato, lo stesso Gerardo Chiaromonte, a Giuliano Amato, a Renato Altissimo e al sottoscritto in separata sede».

Per quanto mi concerne,  è fuori discussione l’umana simpatia e la profonda riconoscenza che mi legavano al professor Giovanni Conso, Maestro severo e rigoroso alla cui alta scuola ho affinato la mia formazione e al quale debbo, almeno in parte, quel che oggi sono. Ho, dunque, ottime ragioni di rammaricarmi e  indignarmi per i sospetti, che ho sempre saputo affatto infondati, che hanno tentato di infangarne l’integerrima figura morale e professionale sino alla Sua iscrizione nel registro degli indagati della procura della Repubblica di Palermo. E potrei portare argomenti inoppugnabili per dimostrare quanto sia falsa l’accusa di pavidità mossagli da chi meglio avrebbe fatto a cogliere l’occasione per starsene dignitosamente in silenzio. Tradirei, tuttavia, il Suo insegnamento se, lasciandomi trascinare dai sentimenti personali, abbandonassi lo Standpunkt dello scienziato, neutrale sino alla spietatezza, e dimenticassi che magis amica veritas. Mi limito, allora, a ricordare quanto asseverato da Luciano Violante nel processo d’appello all’ex ministro Calogero Mannino, assolto già in primo grado dall’accusa di minaccia a Corpo politico dello Stato: «Le revoche dei 41 bis ai mafiosi disposte dal ministro Conso nel 1993, furono conseguenza di una sentenza della Corte costituzionale che impose valutazioni individuali per ciascun provvedimento di carcere duro a differenza di quanto era avvenuto in precedenza e in passato per i terroristi». La sentenza n. 349 del 28 Luglio del 1993 con cui la Corte costituzionale, pur non negando la costituzionalità del regime duro, aveva indicato, tuttavia, che la modalità di esecuzione del regime rispettasse il diritto di libertà senza reprimerlo in modo assoluto; proprio per garantire, tra gli altri, il rispetto dell’art. 27 della Costituzione, la stessa Consulta, con le osservazioni sopra riportate, impose di personalizzare la valutazione nel caso di applicazione del regime del carcere duro, anche in ragione dell’obbligatorietà della motivazione, che avrebbe cosi reso effettivo il diritto del detenuto di richiedere una valutazione dell’autorità giudiziaria. Con buona pace dei vari, Ingroia, Di Matteo e Ardita, non potendo, dunque, la finalità rieducativa della detenzione essere derogata, soppressa o sospesa nemmeno per esigenze di ordine e sicurezza, l’allora ministro e uomo di diritto Giovanni Conso, non avrebbe potuto disattendere le indicazioni dei giudici della Consulta.

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