da CulturaIdentità del 14 marzo 2025
“Noi italiani non siamo capaci a fare la guerra. Facciamo cagarissimo”. Con la consueta signorilità Luciana Littizzetto ha letto una letterina alla Von der Leyen, nel suo siparietto a “Che tempo che fa” di domenica scorsa. Non aveva il solito smalto, va detto: evidentemente anche per i suoi standard stavolta gli autori che hanno scritto il testo hanno esagerato. Una letterina offensiva, volgare, auto-razzista, infarcita di errori e pressappochismi (“sono più le volte che abbiamo perso di quelle che abbiamo vinto”, la campagna di Grecia e di Russia messe a parte rispetto alla Seconda guerra mondiale, della quale confonde anche il numero di morti – 400 e non 600 mila), che si attacca ai vecchi luoghi comuni da film goliardico anni Ottanta, con gli italiani buoni solo per organizzare il torneo di calcetto in caserma. Incidentalmente, va detto, luoghi comuni che ricalcano la propaganda anti-italiana degli inglesi: gli italiani servili camerieri con il canovaccio sul braccio o cantanti virtuosi. Pizza e mandolino, insomma.
Però stavolta l’umorismo ha travalicato il buon gusto. Già il tenente colonnello Gianfranco Paglia, grande invalido e decorato di Medaglia d’Oro per il suo valore durante la missione di pace italiana in Somalia, nel 1993, ha chiesto alla Litizzetto di offrire le sue scuse agli italiani in uniforme, ai vivi e ai caduti.
Già, perché la nostra storia, al contrario di quanto scritto nella sua letterina, non è per nulla quella sfilza di sconfitte che a troppi piace elencare soprattutto ai nostri “amici” d’oltralpe e ai tanti, troppi esterofili di casa nostra. La realtà storica, a partire dalle ultime imprese sotto le bandiere ONU, è molto differente. Ripercorrerla a ritroso non farebbe male alla Litizzetto, agli autori del programma e a quelli che hanno trovato divertente quello spirito di patata, per evidente ignoranza.
Se la professionalità e l’umanità dei nostri soldati in missione di pace è unanimemente apprezzata in tutto il mondo, iniziando dalla missione in Libano nel 1982, quando vennero inviati non gli attuali soldati di professione ma i ragazzi di leva, è andando indietro che la Storia sbatte in faccia ai denigratori delle nostre vicende militari tutto il peso della realtà. Sì, è vero, la Seconda guerra mondiale l’abbiamo perduta. Ma, a differenza della Francia, visto che la Littizzetto si è compiaciuta di citare Macron come esempio di “virtù guerriera”, noi abbiamo tenuto botta contro la Gran Bretagna (e poi tutti gli Alleati) per la bellezza di 39 mesi. La Francia è durata 45 giorni contro la Germania. E noi eravamo reduci da dieci anni di guerre (Libia, Etiopia, Spagna, Albania) che avevano svuotato i nostri magazzini. Durante la guerra – e bene ha fatto il colonnello Paglia a ricordarlo – abbiamo scritto pagine di gloria, come quella di El Alamein.
Là, i nostri soldati che “fanno cagarissimo” hanno retto contro un nemico soverchiante. L’ultima frase del marconista della Ariete, «Carri armati nemici fatto irruzione sud Divisione Ariete. Con ciò Ariete accerchiata, trovasi 5 km nord-ovest Bir-el-Abd. Carri Ariete combattono», il 5 novembre 1942 è degna di Leonida alle Termopili. E basta citare a memoria altri esempi: l’anno prima sempre in Libia un pugno di volontari dei Giovani Fascisti (sì, avete letto bene) assieme a dei bersaglieri e una decina di “scatolette di latta”, i carri leggeri L3, avevano retto l’urto di un intero corpo corazzato inglese, il XXX, composto da una brigata indiana, una divisione corazzata e una brigata guardie, tenendo le posizioni a Bir el Gobi fino all’arrivo dei rinforzi inviati da Rommel: 1.500 mal contati italiani contro più di 20 mila britannici. Sei mesi prima all’Amba Alagi la resistenza dei nostri soldati guidati dal Duca d’Aosta aveva ottenuto dai vincitori l’onore delle armi nel maggio 1941. Ma fra i difensori dell’AOI ci fu pure chi riuscì a non deporre le armi, come Amedeo Guillet, detto “il comandante diavolo”, incubo degli occupanti britannici, idolo dei suoi soldati indigeni e perfino degli ex nemici abissini, che non accettarono mai la taglia di 1.000 sterline d’oro messa sulla sua testa dagli inglesi. Vaglielo a dire a Guillet che i nostri soldati “fanno cagarissimo”…
E ancora prima, in Spagna, dove i soldati italiani hanno combattuto con entrambi gli schieramenti. A Guadalajara nel marzo 1937 gli italiani antifascisti combatterono contro i volontari in camicia nera: fu “una guerra civile nella guerra civile” ma entrambi si batterono con coraggio. E due anni prima era stata l’Africa Orientale il teatro in cui i soldati italiani si imposero all’ammirazione del mondo, combattendo contro gli etiopi ma soprattutto contro un ambiente ostile che fu domato con la costruzione di strade man mano che i nostri eserciti avanzavano in profondità nell’impero coloniale di Hailé Selassié.
Viene quindi la Grande Guerra, coi suoi seicentosettantamila caduti e 127.500 ricompense al valore. Tre anni di passione in cui il popolo italiano seppe dare il meglio di sé, dall’entusiasmo patriottico degli interventisti e dei giovani volontari e studenti alla sorprendente capacità di sopportazione del popolo richiamato alle armi. I film come “Uomini contro” hanno cercato di infangare quell’epopea ingigantendo degli episodi crudi e drammatici, ma la realtà, che invece emerge dai diari, dalle lettere, dalle corrispondenze dal fronte, era molto diversa. E quegli “italiani che fanno cagarissimo” tennero botta contro gli austro-tedeschi prima sempre all’offensiva, poi nell’impresa gigantesca di tenere il fronte sul Piave e sul Montello. Perché sì, cara Littizzetto, c’è stata Caporetto, ma subito dopo la ritirata ordinata di due armate intere, l’assestamento sul Fiume Sacro e il re Vittorio Emanuele III che, prese in mano le redini della situazione, rifiutò agli anglofrancesi (già pronti a invadere Piemonte e Lombardia, i cari alleati…) ogni ingerenza nella conduzione della guerra. Gli italiani erano sul Piave e ci sarebbero rimasti. E da là sarebbero balzati di nuovo avanti per chiudere una volta e per sempre i conti con l’Austria. Altro che “facciamo cagarissimo”… come dimostrarono gli Arditi – fegatacci spesso poco raccomandabili – ma anche i ragazzi del ’99, cresciuti a pane e Salgari, che a diciott’anni fecero il loro dovere e vinsero la guerra anche per quegli ingrati che sarebbero venuti anni dopo, come la Littizzetto.
Quei giovani erano cresciuti a pane e Salgari, e non solo. La loro formazione non prevedeva mestatori che andassero a dirgli “fate cagarissimo”, ma educatori che gli ricordavano di chi fossero figli: degli eroi sfortunati dell’Amba Alagi e di Adua (sì, perché si può essere un grande soldato anche nella sconfitta), di quelli delle guerre d’Indipendenza, dei garibaldini dell’Eroe dei Due Mondi e dei patrioti che tennero le mura del Gianicolo contro un nemico soverchiante e infido: Mameli, Manara, Bixio, Anita Garibaldi e Colomba Antonietti… E gli studenti universitari di Curtatone e Montanara, i volontari vittoriosi a Bezzecca e sconfitti a Mentana, i regolari vittoriosi a San Martino e Solferino e sconfitti a Custoza (ancorché quella fosse più un pareggio che una disfatta…).
E se vogliamo dirla tutta, italiani erano anche i briganti, che diedero filo da torcere all’esercito unitario per quasi un decennio nel Mezzogiorno. Guerrieri anche loro, e di prim’ordine, spesso.
Ma continuiamo la carrellata, anche se a volo d’uccello: dai reggimenti italiani di Napoleone (a ben vedere, italiano lui stesso, tanto per mettere un puntino sulle “i” coi cugini d’oltralpe), così come italiani furono i due più grandi e geniali condottieri del Sei-settecento, il principe Eugenio di Savoia e Raimondo Montecuccoli, entrambi al servizio dell’Impero asburgico contro gli ottomani. Col ramo spagnolo invece basta citare due nomi: Ambrogio Spinola e Alessandro Farnese, pilastri della grandezza iberica e dell’Europa cattolica. E ancora contro gli ottomani non possiamo non ricordare quel pugno d’eroi veneziani, e non solo, che a Famagosta nel 1571 inchiodarono un esercito ottomano forte di 200 mila uomini. Il loro comandante, Marc’Antonio Bragadin, fu torturato per giorni e poi scuoiato vivo, ma non rinnegò la fede in Cristo. E meno male che gli italiani “fanno cagarissimo”… Per tacer poi della grandissima parte dei combattenti di Lepanto nel 1574, che tardivamente vendicarono Bragadin, e che erano italiani, così come lo erano stati metà abbondante dei difensori di Malta nel 1565. Per contro, il più grande ammiraglio ottomano di quel tempo – Uccialì – era calabrese, e fu l’unico a riportare a casa le sue navi da Lepanto (un derby fra italiani, insomma…).
A ritroso nel XVI secolo facciamo l’ultima tappa a Barletta, dove finì 13 a 0 per gli italiani la disfida coi boriosi, ampollosi, pomposi francesi di monsieur Guy de la Motte che avevano osato dire in faccia ai nostri che “gli italiani fanno cagarissimo”. Potremmo andare ancora indietro nel tempo, all’età dei condottieri – termine talmente italiano che è entrato in inglese tal quale come sinonimo di “comandante di ventura” – sulle navi delle Repubbliche Marinare o fra i cavalieri delle Crociate. Ma anche fra i semplici fanti delle milizie comunali, che aspettavano picca al piede le cariche di cavalleria pesante di nobili e imperiali… E in questo elenco frettoloso abbiamo dimenticato mille e mille esempi, eroi, strateghi, umili o celebrati: Pietro Micca che si fa saltare in aria per bloccare l’accesso a Torino ai francesi, Giovanni delle Bande Nere, la dinastia dei Doria e quella dei Malatesta, Enrico Toti, in guerra senza una gamba e Raimondo Scintu della Brigata Sassari, che assaltò con un pugno di compagni una trincea e ne tornò con un buco di pallottola nei polmoni portando a calci 50 prigionieri austroungarici. Luigi Rizzo, l’Affondatore (che aveva condotto sui suoi MAS anche Gabriele d’Annunzio), e i suoi eredi della Decima, che durante la Seconda guerra mondiale a cavallo dei siluri, con barchini suicidi o portando bombe magnetiche a nuoto riuscirono a umiliare la Mediterranean Fleet inglese.
Dunque, cara Luciana Littizzetto, quelli che tu credi “facciano cagarissimo” non sono gli italiani veri. Sono quelli sognati, quelli immaginati dalla propaganda straniera e antinazionale. Molti si sono applicati anima e corpo perché quegli stereotipi si trasformassero in realtà e probabilmente oggi avrebbero di che essere orgogliosi del loro lavoro. Ma i suoi risultati sono un’altra storia, sono qualcosa di ben diverso dagli italiani che hanno fatto questo paese e le cui vite e imprese, evidentemente sono totalmente ignote agli autori di quella letterina, a te che ti sei prestata a leggerla e chi a ti ha applaudito, Un po’ di rispetto, per favore, dunque. E meno confidenza con gli italiani, gente che non conoscete…
Le forze speciali di tutto il Mondo si ispirano a quelle italiane. Quello che fece la X Mas a Alessandria d’Egitto viene ancora studiato nelle scuole miolitari inglesio americano. Benini, un trentino naturalizzato americano, ha fondato i combat controller dell’aeronautica AMERICANA, NEGLI ANNI cINQUANTA ED è CONSIDERATO UN EROE NAZIONALE DAGLI USA…PER GLI ANALFABETI QUESTO è OSTROGOTO….