Fra 1945 e 1949 si completa lo spopolamento della componente italiana in Istria e Dalmazia. Un processo iniziato secoli prima, con le invasioni barbariche del VI e VII secolo e poi lo stanziamento delle prime comunità slave nell’entroterra della Dalmazia-Illiria. Da quel momento storico le comunità latine si trovarono a essere isole urbane in un mare rurale slavo. A contrastare il progressivo dissolvimento di queste realtà urbane (che dal Medioevo iniziarono sempre più a identificarsi come “italiane” con la progressiva sostituzione della lingua di Dante al latino e l’affiancarsi di questa ai dialetti\lingue locali neolatine: istrioto, istro-veneto, dalmatico…) fu la potenza culturale di queste che fungeva da vera e propria calamita nei confronti delle comunità slave. Diventare “italiani” era una forma di promozione sociale poiché voleva dire affacciarsi a un mondo più sofisticato, a commerci, cultura, arte. La superiore vitalità demografica delle campagne veniva così compensata da una continua osmosi di elementi slavi che si italianizzavano.
Per secoli dunque le regioni orientali d’Italia furono un’area mista, in cui l’elemento latino costituiva la classe dirigente e quello slavo la manodopera contadina. Con la nascita della coscienza nazionale italiana, nell’età napoleonica, le due comunità iniziarono a separarsi. Negli anni Quaranta del XIX secolo anche a divenire rivali poiché gli embrioni di nazionalismo slavo che presero a sorgere (imitando quello italiano) all’interno dell’Impero asburgico non potevano che vedere come minaccia le aspirazioni italiane. E in quel senso vennero anche abilmente indirizzati e coltivati dai dominatori asburgici.
Nel XIX secolo la più orientale delle terre italiane, la Dalmazia, vide il tracollo totale dell’elemento latino. La maggiore dinamicità degli slavi condusse gli italiani – maggioranza in quasi tutte le città (tranne a Ragusa, dove l’elemento italiano era già divenuto minoritario dopo gli sconvolgimenti dei secoli passati: terremoti ed epidemie) a ridursi sempre più. Inolre quell’osmosi da campagne a città si era quasi arrestata poiché la cultura italiana aveva cessato d’essere un elemento d’attrazione e di promozione sociale per gli slavi. Nel breve volgere di qualche decennio quella che era un terzo della popolazione – la classe dirigente e l’elemento urbano – si ridusse al 3-5% del totale. Gli asburgici avevano anche esercitato a partire dagli anni Sessanta un forte mobbing perché gli italiani emigrassero, attraverso provvedimenti che progressivamente cancellavano l’italiano come lingua ufficiale in Dalmazia, chiudevano scuole e in generale tendevano a favorire i croati, più fedeli alla corona. A fine Ottocento, oramai, la popolazione italiana in Dalmazia si era ridotta a meno di 50 mila unità. Con le vicende della Grande Guerra, una parte di questi emigrerà definitivamente, la maggior parte si stabilirà a Zara (unica città dalmata a riunirsi alla madrepatria) e una minoranza resterà in Dalmazia, ma solo per essere distrutta a fine Seconda guerra mondiale e costretta all’esilio definitivo (e non senza aver subito sanguinose perdite).
In Istria, guerre e pestilenze nel 1500 avevano spopolato completamente l’entroterra. L’arrivo dai Balcani di profughi in fuga davanti alle armate ottomane aveva spinto Venezia ad accoglierli come coloni per ripopolare le campagne: si trattava di slavi (serbocroati), albanesi, valacchi (rumeni)… Gli elementi borghesi e urbanizzati si italianizzarono, mentre quelli che rimasero nelle campagne vennero per lo più assimilati ai croati, con l’eccezione di alcune comunità istrorumene (tutt’ora esistenti). Anche qui, fino all’emergere dei nazionalismi rivali nell’Ottocento, la convivenza fu pacifica. Inoltre il bilinguismo (o – per meglio dire – il multilinguismo) faceva dell’italiano o dei dialetti locali vere e proprie lingue franche. L’elemento latino parlava correntemente il dialetto locale (istrioto o istro-veneto) e conosceva l’italiano, che era lingua ufficiale. L’elemento slavo a sua volta si esprimeva in diversi dialetti ma conosceva anche gli idiomi latini. Inoltre alcuni di questi dialetti – come il ciacavo – erano lingue meticcie con grammatica slava ma dizionario largamente latinizzato. Solo con l’Ottocento e la nascita della consapevolezza nazionale croata il ciacavo venne depurato dei termini d’origine neolatina per divenire una lingua pura slava.
Fra gli irredentisti italiani questa situazione consentiva ancora di sperare in una futura possibile italianizzazione degli slavi, obbiettivo che venne perseguito sia con mezzi coercitivi che con la scolarizzazione delle masse contadine slave nel primo dopoguerra.
Con la sconfitta nella Seconda guerra mondiale le comunità italiane furono costrette invece a scegliere fra una nuova sottomissione a un potere straniero, quello jugoslavo, che aveva sostituito gli Asburgo, o l’emigrazione. Non ebbero dubbi. Le isole di latinità sulla costa est dell’Adriatico vennero così definitivamente sommerse e il processo di espansione verso il mare degli slavi, iniziato 15 secoli prima, fu completo.