L’Italia dopo essersi impegnata per cinque miliardi di euro con la sua ex colonia continua a scusarsi, col cappello in mano. Numerose perplessità hanno suscitato le scuse di Berlusconi a Gheddafi, il 3 marzo 2009, nella tenda del leader libico. Un gesto che ha evidenti motivazioni economiche ma che mette con eccessiva disinvoltura in secondo piano la dignità nazionale italiana. Cosa del resto sentita molto dai cittadini visto che un sondaggio lanciato da SkyTg24 il 3 marzo e a cui hanno risposto migliaia e migliaia di persone, alla domanda «Secondo te è giusto che l’Italia chieda scusa e risarcisca la Libia per il proprio passato coloniale?» i NO sono risultati ben il 74% contro un 26% di SI’. Evidentemente molti ricordano che negli scorsi decenni l’Italia ha già pagato cifre ingenti – e accettato gravi umiliazioni – per tenere a bada il dittatore di Tripoli, che poi scorda tutto quello (a cominciare dal nome) che la Libia deve all’Italia, mentre la cacciata di italiani ed ebrei dalla Libia, ormai 38 anni fa, è stata messa nel dimenticatoio non dal regime di Tripoli (che la festeggia ogni anno e che si è macchiato negli anni di numerosi crimini contro l’umanità e le opposizioni interne) ma gran parte della classe politica, imprenditoriale e intellettuale italiana.
Per dare un’informazione completa su questo argomento, riportiamo due dichiarazioni rilasciate a ridosso del summit tra Berlusconi e Gheddafi. La prima di Giovanna Ortu, presidente dell’associazione degli esuli della Libia; la seconda dello storico Angelo Del Boca, storico del colonialismo, da sempre “comprensivo” con il regime libico, che in controtendenza, giudica le scuse italiane “insufficienti”. Infine il lungo servizio di Emanuele Mastrangelo che «Storia In Rete» ha pubblicato lo scorso settembre 2008 e che fornisce alcune importanti precisazioni e notizie storiche sulla vicenda Italia-Libia.
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ITALIA-LIBIA: ORTU, NON MI ASPETTAVO TANTA ENFASI
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Roma, 3 mar. – (Adnkronos) – “Non mi aspettavo un’enfatizzazione tale della notizia, in particolare dopo la ratifica avvenuta in maniera cosi’ veloce, del trattato di agosto: entrato infatti in vigore il giorno successivo della pubblicazione sulla gazzetta ufficiale, il 18 febbraio scorso e’ stata pubblicata il 19 e’ entrata in vigore”. Lo ha affermato all’ADNKRONOS Giovanna Ortu, presidente dell’Associazione Italiani Rimpatriati dalla Libia all’indomani dell’incontro tra il presidente del Consiglio Silvio Berlusconi e il leader libico Muammar Gheddafi. “Cio’ che mi ha fatto molto piacere – ha sottolineato Ortu – e’ stato che membri di tutti i partiti hanno presentato o hanno aderito a emendamenti a favore del nostro indennizzo e alla fine grazie alla disponibilita’ e all’impegno del ministro La Russa abbiamo incassato un significativo anticipo di indennizzo per i beni confiscati”. “Anche se la cifra stanziata e’ molto piccola -prosegue Ortu – possiamo dire di aver ottenuto un poco di soddisfazione, vuol dire che ognuno di noi incassera’ una cifra simbolica come indennizzo per i beni confiscati. Comunque, come anche la ratifica del trattato, ci restituisce una dignita’ e cosi’ ci sentiamo piu’ vicini al nostro Paese”. La presidente dell’Associaizone ha poi voluto far notare “la differenza di stile e maturita’ del nostro paese che ha chiesto scusa, rispondendo ai danni storici, mentre Gheddafi ha calpestato impunemente tutto cio’ che era stato fatto dalla Libia democratica: ha fatto carta straccia del trattato che ci proteggeva e ha ragione il deputato della Lega che ha detto che farebbe bene lui a scusarsi con noi”.
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DEL BOCA: “SUI MASSACRI NEPPURE UNA PAROLA”
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«Ancora e formalmente accuso il nostro passato di prevaricazione sul vostro popolo e vi chiedo perdono». Lo ha affermato il presidente del Consiglio, Silvio Berlusconi, intervenendo ieri al Congresso generale del popolo libico a Sirte nella giornata in cui il Parlamento libico ha ratificato l’Accordo di amicizia e cooperazione tra Italia e Libia, siglato l’estate scorsa a Bengasi. Berlusconi ha parlato al Congresso generale, alla presenza del colonnello Muammar Gheddafi, in occasione della cerimonia dello ’scambio degli strumenti di ratifica’. «Il passato che con questo Trattato vogliamo mettere alla spalle – ha sottolineato il presidente del Consiglio – è un passato di cui noi, figli dei figli, sentiamo una colpa di cui chiedervi perdono». Berlusconi ha aggiunto: «Nessun popolo può avere il diritto di sottomettere e governare un altro popolo, sottraendogli la propria cultura e le proprie tradizioni». Il massimo storico del colonialismo italiano, Angelo Del Boca, intervistato da ‘La Repubblica’, sostiene di aver studiato molto bene il Trattato siglato tra Italia e Libia e spiega: «Non discuto la parte economica, né quella politica, discuto quella storica. Ho scoperto che c’è appena un accenno di sfuggita al passato. Insomma, l’Italia versa 5 miliardi di dollari, sostanzialmente come indennizzo per i crimini compiuti in 30 anni di presenza in Libia e per i 100 mila morti provocati, ma nel trattato non se ne fa riferimento». «Non so – continua Del Boca – se sia stata una specifica richiesta di Berlusconi o di chi ha discusso la formulazione del trattato, o piuttosto una dimenticanza… Berlusconi non festeggia il 25 aprile, parla della condanna al confino per i dissidenti come di una vacanza… Non mi meraviglia questa assenza». Per quel che riguarda i centri di detenzione in territorio libico, criticati dai difensori dei diritti umani, dice che «da quanto si riesce a sapere sono in realtà campi di concentramento”. Come fa, conclude, l’Italia, a partecipare alla costruzione di opere del genere?».
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IL LIBRO NERO DI GHEDDAFI
Da “Storia in Rete” numero 35, settembre 2008
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Pagheremo tutto e pagheremo caro? Caro senz’altro lo stiamo già pagando. E’ sul «tutto» che Roma e Tripoli non riescono ad accordarsi da quando il primo settembre del 1969 nella nostra ex colonia è salito al potere l’allora ventisettenne neo-colonnello Muhammar Gheddafi. Perché questo «tutto» sembra esser diventato una specie di cappello del prestigiatore, da cui sempre nuovi conigli escono fuori, magicamente.
E’ quasi un secolo, oramai, che l’Italia è andata ad impantanarsi in quello scatolone di sabbia che è la Quarta Sponda che, fino all’arrivo del Tricolore, era meno che una mera «espressione geografica»: infatti l’ex vilayet (provincia) turco di Tripolitania, comprendente il sangiaccato di Cirenaica, conquistato all’Impero Ottomano nel 1911-1912 è stata chiamato proprio dagli italiani col nome classicheggiante di «Libia». Mal ne incolse, poiché l’ingrata (sotto ogni significato della parola) colonia non è costata altro che soldati caduti, sudore mal ripagato dei coloni e spese immani. Con in più la beffa che il petrolio, di cui è impregnato – unica ricchezza – il sottosuolo libico, è stato sfruttato solo dopo che il Tricolore era stato ammainato a Tripoli, Bengasi e Tobruk. E per soprammercato l’ex colonia è diventata una specie di cambiale in perpetuo protesto per l’Italia, da quando – con reiterate e mai sazie pretese – il dittatore Gheddafi si è dato alla facile arte di taglieggiare Roma, quasi fosse l’erede dei pirati saraceni e barbareschi che, fino a due secoli fa, da Tripoli salpavano per far bottino sulle nostre coste.
Ma dopo nove secoli di taglieggiamenti dei pirati, nel 1911 l’Italia a sua volta salpava da Napoli e Palermo per andare a conquistarsi anch’essa un pezzo d’Africa, la Quarta Sponda. Le nostre navi partivano al suono di «Tripoli bel suol d’amore» e marinai e bersaglieri strappavano ai turchi l’ultimo lembo dei loro domini africani. Guerra combattuta secondo i crismi del diritto internazionale d’allora, che ci vide vittoriosi su Costantinopoli dopo belle prove d’armi come il forzamento dei Dardanelli. Che avessimo più o meno diritto degli occupanti turchi su quelle terre è questione da dibattere, e tutt’altro che chiusa come pretenderebbero gli anticolonialisti e masochisti. Giacché se Cirenaica e Tripolitania erano terre appartenenti al Dar-al-Islam [la Terra dell’Islam, contrapposta a quella degli «infedeli» o Dar-al-harb, Terra della Guerra NdR], giova comunque ricordare che fino al 700 d. C. (vedi cartina a pag. 24) quelle erano province dell’Impero Romano, e prima ancora erano state colonizzate da dori e cartaginesi. E se i primi avevano seguito Roma di buon grado nel 96 a.C., dei secondi non restano eredi a pretendere diritti di sovranità Terre dunque su cui l’Italia poteva vantare diritti non minori di quelli dell’Impero Ottomano, del resto «padrone» in terra tripolina solo dal 1836: un discorso sul quale si dovrà tornare quando parleremo ( in un prossimo numero) dell’assurda forca caudina del Comunicato Congiunto italo-libico del 4 luglio 1998 sulla «restituzione» di opere d’arte «trafugate» in epoca coloniale.
Con la Libia le cose sarebbero potute andar bene se nel 1969 un colpo di Stato non avesse portato il colonnello Muhammar al-Gheddafi (nato nel 1942) al potere. Con il re Idris I (1890-1983), messo sul trono dagli inglesi nel 1951, i rapporti con Roma erano buoni. E questo nonostante Idris appartenesse alla Senussia, una setta mussulmana fieramente avversa all’Italia durante le guerre per il controllo della Cirenaica e la Seconda guerra mondiale. Idris amministrò bene il Paese e richiamò indietro i coloni italiani che erano fuggiti nel 1943 per niente ansiosi di essere «liberati» dagli inglesi di Montgomery. Di questi qualche migliaia accolsero l’invito del sovrano e tornarono sulla Quarta Sponda, unendosi ai pochi superstiti di una comunità che nel periodo del suo massimo splendore superava i centomila abitanti (per la precisione 108.419, pari al 12,37% degli abitanti censiti nel 1939). I trentacinquemila italiani che, a guerra finita, rimasero o tornarono in Libia, soprattutto nella capitale Tripoli, continuarono a svolgere il loro ruolo di spina dorsale della società urbanizzata costiera. In particolare costituivano l’ossatura dell’amministrazione, rappresentavano una notevole percentuale dei docenti scolastici e soprattutto continuavano a gestire il sistema bancario locale. I rapporti fra essi e le popolazioni locali erano buoni, né parevano esserci segni di rancore da parte di queste ultime verso l’ex potenza coloniale. «Che i rapporti fra la popolazione italiana e quella araba fossero buoni – dice Giovanna Ortu, presidentessa dell’Associazione Italiani Rimpatriati dalla Libia (AIRL) – è un fatto provato dalle molte manifestazioni di simpatia ed amicizia che io ho potuto riscontrare nei miei due viaggi recenti in Libia, nel 2002 e nel 2004. Gheddafi dice che noi non ci eravamo voluti integrare, e nemmeno avevamo imparato l’arabo, ma è falso: a scuola tutti avevamo studiato questa lingua, e c’erano tante ore di italiano quante di arabo. Inoltre anche dal punto di vista culturale e dei costumi, per quello che fu possibile vi furono numerosi scambi: gli arabi mangiavano i nostri spaghetti e noi il loro cus-cus, una tradizione che fra noi esuli è tuttora mantenuta ogni venerdì sera. Certo, non dobbiamo dimenticare che per la particolare condizione della donna nel mondo islamico l’integrazione fra noi e loro era necessariamente limitata. C’era infatti metà della popolazione che viveva pressoché segregata e non poteva avere contatti con noi».
Le cose cambiarono drammaticamente con il colpo di Stato del 1969, fra l’altro ordito da personalità libiche in Italia e attuato dal capitano (promosso «sul campo» colonnello) Gheddafi, anch’esso addestrato in Italia (vedi «Il contesto delle stragi. Una cronologia 1968-1975», elaborato redatto dal senatore Alfredo Mantica e dal deputato Vincenzo Fragalà, 26 giugno 2000. Commissione parlamentare d’inchiesta sul terrorismo in italia e sulle cause della mancata individuazione dei responsabili delle stragi, XIII Legislatura, 2001). Approfittando dell’assenza di Idris, all’estero per curare i suoi gravi problemi di salute, i militari filo-nasseriani condotti da Gheddafi si impadronirono del potere senza colpo ferire, fra 26 agosto e primo settembre 1970. Agli iniziali segnali di distensione verso la minoranza italiana, Gheddafi fece seguire un repentino voltafaccia. Nel giro di poche settimane, nemmeno un anno dopo essere asceso al potere, il neo dittatore iniziò una serie di provvedimenti vessatori contro gli italiani, culminati nella legge di esproprio del 21 luglio 1970, che colpiva italiani ed ebrei. «Ricordo ancora chiaramente quando arrivò a casa mia la notizia della legge sull’esproprio: – racconta Giovanna Ortu – era il mio trentunesimo compleanno, e la torta era già sul tavolo. Avevamo anche due bottiglie di champagne, rigorosamente di contrabbando, perché Gheddafi aveva messo fuorilegge l’alcool. Giunse un amico, poi una telefonata a confermare la notizia. Rimanemmo tutti così scossi che torta e champagne finirono nella pattumiera. Fu il compleanno più amaro della mia vita. E dai giorni successivi iniziò una vera via crucis fatta di file, burocrazia e vessazioni. Persi 13 chili in due settimane. Eravamo infatti obbligati a consegnare noi stessi i nostri beni alle autorità libiche, con una trafila umiliante e spossante. Tanto che quando riuscimmo a metter piede sull’aeroplano che ci avrebbe portato in Italia, oramai ridotti in miseria, brindammo per la ritrovata libertà».
Storie struggenti quelle degli italiani di Libia che hanno faticato e faticano ad avere il giusto peso nella memoria nazionale. E’ interessante notare come il molto indulgente biografo italiano di Gheddafi – Angelo Del Boca – identifichi il motivo di questo voltafaccia nel mancato riconoscimento da parte di Aldo Moro (allora ministro degli Esteri del governo Rumor III, in carica dal 27 marzo 1970 al 6 agosto 1970) dei «crimini» commessi dall’Italia in Libia. Scrive infatti Del Boca (su «Gheddafi, una sfida dal deserto», Laterza, 1998) che Gheddafi il 9 luglio 1970 nonostante un violento discorso contro il colonialismo italiano «non vuol rompere con l’Italia» e «intende aprire delle trattative e cercare una soluzione che soddisfi le esigenze di entrambi i paesi». Il ministro degli Esteri italiano Aldo Moro – secondo Del Boca – non coglie questa… velata «mano tesa», e mancando di andare a Tripoli ad incontrare il dittatore (perché il governo cade il 6 agosto 1970) lo lascia «libero di agire». Peccato che se il governo cadde il 6 agosto, le leggi contro gli italiani invece furono promulgate quasi tre settimane prima, e presumibilmente dovevano esser già pronte da un bel pezzo. La scusa per giustificare la rapina e l’espulsione di migliaia di italiani è questa grottesca caricatura del trentennio coloniale italiano fatta dall’allora ministro degli Esteri libico Salah Bouissir: «L’Italia ha compiuto ogni possibile atto inumano. Per avere un’idea delle atrocità commesse dagli italiani basti ricordare che mentre la popolazione della Libia nel 1911 ammontava a due milioni, nel 1955 era scesa a un milione e 250 mila. Vi erano campi di concentramento circondati da filo spinato che racchiudevano centomila persone. Dappertutto vi erano patiboli. Nel paese regnavano la miseria e le malattie. Le nostre terre erano state prese e la popolazione araba deportata nel deserto. Ci era persino vietato l’ingresso nelle città. Per 32 anni l’Italia ci ha privato dell’istruzione. Durante questo periodo non è uscito da noi né un medico né un ingegnere. La politica italiana di quell’epoca tendeva addirittura all’annientamento della natura arabo-islamica della Libia. I famosi lager nazisti non sono per noi cose estranee, perché ne avevamo di ben peggiori in Libia». Un passo citato integralmente da Del Boca a pagina 48 del suo libro in cui prende apertamente le distanze solo dal discorso del preteso sterminio di 750 mila libici. In realtà i provvedimenti dell’estate 1970 contro la comunità italiana erano una violazione non solo delle norme generali di diritto internazionale, ma anche delle disposizioni della Risoluzione 388 dell’ONU del 1950 sulla Libia e del Trattato italo-libico del 2 ottobre 1956.
Del Boca sembra trascurare un fatto fondamentale. Ovvero che «la Libia, come la gran parte dei Paesi arabi, era e resta una nazione tribale» come spiega Claudio Lanti, oggi direttore de «La Velina Azzurra» e già direttore dell’Ufficio Stampa dell’AIRL. «La dittatura di Gheddafi – continua Lanti – si mantiene senz’altro sul terrore e sulla polizia, oltre che sul consenso demagogico, ma anche e soprattutto grazie all’abilità del colonnello nella mediazione con gli altri ufficiali golpisti, tutti in qualche maniera rappresentanti delle varie tribù e clan libici. Nel dover gestire i rapporti di forza interni con gli altri capi, Gheddafi sceglie di usare la carta dell’odio anti-italiano» per galvanizzare le energie e i rancori all’esterno, e trovare un collante che puntelli il suo potere. «L’ostilità verso l’Italia – osserva infine Lanti – è una caratteristica di base del regime libico, la bandiera dell’indipendenza nazionale con la quale Gheddafi andò al potere nel 1969 e vi è rimasto sino ad ora. Una bandiera che il colonnello dovrebbe adesso ammainare turbando gli equilibri interni con i clan politici ed etnici rivali».
E’ quindi la presenza di un «nemico» esterno a fornire il cemento per unire tribù secolarmente ostili fra di loro, per i più vari motivi. Quando – infatti – Del Boca scrive (a pagina 4) che la guerra in Libia «era durata più di trent’anni», praticamente da quando erano sbarcati gli italiani nel 1911 omette di ricordare che tribù e clan erano da secoli in guerra fra loro e contro i precedenti padroni ottomani. E continuarono a lottare fra loro – oltreché contro gli italiani – anche dopo l’occupazione tricolore della Quarta Sponda. Insomma, inizialmente almeno, gli italiani non furono altro che l’ennesima «tribù» che (alleandosi con alcune delle realtà locali) si inserì nel gioco tribale tripolino e cirenaico, fin quando l’evoluzione culturale dei berberi e degli arabi di Libia non arrivò a concepire una unità proprio grazie al contrasto con gli italiani e soprattutto grazie agli italiani che – come ha spiegato bene Sergio Romano sul «Corriere della Sera» del 20 novembre 2007 – trasformano «le tribù di pastori, i pochi contadini che coltivavano la terra delle oasi, gli artigiani di Tripoli e Bengasi, le comunità ebraiche della costa, i mercanti di schiavi» in una comunità unitaria attraverso «l’amministrazione italiana che durante il fascismo soppresse i governatorati di Tripoli e Bengasi», eredità del vilayet ottomano, e «creò una pubblica amministrazione, una rete di tribunali, molti villaggi agricoli, piccole zone industriali e qualche infrastruttura, come la Via Balbia che correva lungo la costa dalla Tunisia all’Egitto». La ricostruzione di Del Boca lascia quindi diverse perplessità: «Del Boca è un mio amico-nemico –confessa Giovanna Ortu – con il quale ho avuto modo di dibattere pubblicamente ed alla radio molte volte. Purtroppo come storico lavora più «a tesi» che non sui fatti, e così mischia la verità con ciò che serve a far quadrare i suoi conti. Per esempio sulla nostra colonizzazione in Libia, Del Boca non ha voluto fare un lavoro di contestualizzazione, che ne presenti tanto le ombre quanto le luci. E, al contrario, nei confronti di Gheddafi, ha minimizzato gli aspetti dittatoriali di questo personaggio, che si è macchiato di crimini quali gli assassinii dei dissidenti libici in pieno centro di Roma, nella famosa via Veneto. Ma Del Boca non è l’unico storico a comportarsi poco da storico. Penso ad Eric Salerno [autore di libri-denuncia sulle atrocità commesse dagli italiani, NdR], per esempio, che scrive di Gheddafi come fosse un santo. A volte prima di leggere lui o Del Boca non posso fare a meno di prendere due scatole di Tavor…»
Gheddafi fa leva sul contrasto con gli italiani – creatori involontari del patriottismo libico – per sostenersi, ma tiene un occhio anche alla questione venale: grazie agli espropri massicci di proprietà, beni e liquidità degli italiani (secondo Del Boca vennero confiscate 352 fattorie per 37 mila ettari, 500 negozi, 1.750 case e 1.200 autoveicoli, aerei e trattori), e degli ebrei ha potuto mettere in cassa qualcosa come 400 miliardi di lire dell’epoca (tre miliardi d’euro equivalenti d’oggi): una mezza manovra economica per un paese come il nostro; un vero pozzo di san Patrizio per una piccola nazione come la Libia, che allora aveva meno di due milioni d’abitanti (oggi ne ha 5,6 e un PIL pari a poco più del 4% di quello italiano, secondo i dati del Fondo Monetario Internazionale). Spiega ancora Giovanna Ortu: «In 38 anni abbiamo ricevuto, e in lunghissime rate, nemmeno il 25% di quanto ci è stato tolto. Noi chiaramente non pretendiamo la restituzione di tutto, oramai, ma almeno un gesto riparatorio da parte del nostro governo, quello sì. Non si deve dimenticare che i beni sottratti agli italiani, da soli, valgono quanto oggi preteso da Gheddafi per la costruzione della famosa autostrada costiera. Se il governo italiano riuscisse a restituirci almeno un 10% di quanto ci è stato preso, ma con una formula di riparazione e risarcimento ufficiale, noi considereremmo la partita chiusa».
Negli anni Settanta Inizia così il lungo contenzioso fra il nostro Paese e l’ex colonia, che chiede risarcimenti e atti di contrizione all’Italia per poter «normalizzare» le relazioni. Ma nonostante ogni passo in avanti fatto da Roma (forse anche nella consapevolezza che irrigidire le relazioni non farebbe altro che il gioco di Gheddafi, rafforzandone il potere interno), la storia sembra continuare infinita. Nessun gesto dell’Italia (di suo restia – fino al masochismo – a far pesare il proprio peso politico, economico e militare) sembra sufficiente a far cessare le richieste libiche. Gheddafi sa di poter contare sulla formidabile arma di ricatto del petrolio, con la quale lega il nostro Paese mani e piedi (l’Italia oggi rappresenta il maggior partner commerciale della Libia, con il 37,2% delle esportazioni libiche e il 25,2% delle importazioni), e – da consumato politico qual è – gioca su più tavoli, compreso quello dell’appoggio al terrorismo e – da qualche anno a questa parte – sulla gestione dei flussi di immigrazione che – passando per le sue carovaniere e i suoi approdi, lasciano denaro in Libia e scaricano disperati e problemi sull’Italia.
L’Italia aveva infatti già chiuso i conti con il passato coloniale fra 1950 e 1957 con un trattato derivante dalla risoluzione 388 V dall’ONU. Un trattato firmato da quello stesso Idris della Senussia, che per vent’anni era stato acerrimo nemico del nostro Paese e che trovò equo porre fine alle sue lotte con quell’accordo, «e la consegna di cinque milioni di sterline d’allora, più tutti i beni demaniali dello Stato italiano» puntualizza Giovanna Ortu. Più nel dettaglio si trattava di 4.812.500.000 lire italiane, la proprietà degli enti agricoli di colonizzazione con oltre 40 mila ettari di terreno bonificato e reso fertile. L’accordo trasferiva anche i contributi previdenziali versati degli Italiani con la promessa da parte dell’omologo ente libico di assicurazione di erogare le prestazioni. Ma, 13 anni dopo, Gheddafi non poteva accettare la chiusura della partita. Tanto più in un periodo storico in cui tutto l’Occidente era sotto offensiva da parte dei paesi ex coloniali. Indebolita all’interno dal terrorismo e dalla contestazione, dipendente dal petrolio, l’Italia era la preda giusta per poter mostrare i muscoli: è sempre stato facile per Gheddafi tirare di boxe su questo avversario ammanettato, fra il plauso della sua claque. Una preda talmente debole che contro di essa ogni anno viene celebrata una «festa della vendetta» (nel giorno che ricorda l’espulsione di ventimila nostri connazionali), una festa che doveva essere tramutata in «festa della riconciliazione» dal 2004, e che invece è rimasta tale e quale a prima. E, come se niente fosse, invece quando si celebra l’anniversario della presa di potere da parte di Gheddafi, i politici (di destra e sinistra indifferentemente) accettano l’invito dell’ambasciatore libico in Italia per il rituale ricevimento in ambasciata… «Quello che dispiace a noi della comunità italiana espulsa – dice Giovanna Ortu – è che comprendendo pure l’importanza commerciale, petrolifera e strategica della Libia, non sembra che la politica perseguita dal nostro Paese abbia poi dato il minimo frutto. I beni e la storia degli italiani di Libia sono stati sacrificati sull’altare dei buoni rapporti fra le due sponde del Mediterraneo: bene, ma questi «buoni rapporti» ora dove sono? E pur avendo sacrificato i nostri beni – grazie ai quali oggi Gheddafi deve comunque pretendere molto meno da Roma – possibile che non si riesca a dare un riconoscimento, anche solo simbolico, alla comunità italiana espulsa? La mia paura è che oggi, un governo di destra che si dice «nazionale» sia molto più pronto a sacrificarci di nuovo sull’altare delle relazioni italo-libiche che non il precedente governo di sinistra».
Una preda così debole, l’Italia, che sui suoi affari interni il clan Gheddafi si sente in diritto d’ingerire – come nel caso della possibile nomina del leghista Roberto Calderoli (protagonista, nel 2006, di un discutibile show a proposito delle vignette presunte anti Islam) come ministro del nuovo governo Berlusconi la scorsa primavera – e nella quale i suoi rampolli si sentono perfino in diritto di scorrazzare vilipendendo e percuotendo i nostri agenti di polizia (meno fortuna ha avuto uno dei figli di Gheddafi in Svizzera, finito in galera per le sue violente intemperanze da ragazzone viziato). Un capitolo – quello dei tracotanti figli di papà Muhammar – che meriterebbe un intero capitolo, e che ci limitiamo a riassumere tramite un trafiletto del settimanale «Tempi» dell’8 maggio scorso, nel quale si rileva come Said el Islam Gheddafi – colui il quale aveva minacciato e millantato «catastrofiche ripercussioni» in caso di inserimento di Roberto Calderoli nella compagine di governo attuale a causa dello scivolone dell’esponente leghista circa le note vignette su Maometto – si era già divertito in passato a fare delle sue illustrazioni ingiuriose contro la religione cattolica, mostrando abiti monacali e croci cristiane à la Ku Klux Klan (vedi http://www.tempi.it/interni/001056-gheddafi-il-blasfemo). Bene ha fatto «Tempi» ad intitolare il pezzo «Da che pulpito.». Ma i figli non fanno che imitare, anche in blasfemia, l’inarrivabile padre (vedi box a pag. 16).
Così i rapporti fra Italia e Libia si sono trascinati per anni fra ufficiali muro-contro-muro e ufficiosi rapporti di reciproco interesse: l’Italia verso il petrolio, Gheddafi verso un nemico (e i suoi soldi…) con il quale far la voce grossa e sostenere la propria immagine interna. E per l’oro nero, l’Italia è sempre rimasta… «a novanta gradi»: dal mancato pagamento delle imprese italiane chiamate dal dittatore a lavorare in Libia dopo l’espulsione della nostra comunità, all’empio trattamento riservato al cimitero italiano di Tripoli – l’Hammangi – con 20.492 salme di soldati caduti (fra cui Italo Balbo) frettolosamente rimpatriate dopo il 1970, e la beffa del 2006, con il governo libico che riesce ad estorcere all’ultimo governo Prodi ben 647 mila euro (e una sua riduzione da dieci ettari di estensione a uno), quale ennesimo riscatto nella miglior tradizione barbaresca: soldi in cambio dei restauri e della «protezione» delle restanti 8.600 sepolture (o ciò che ne resta) dal vandalismo, dai tombaroli, dalla minaccia di trasformarlo nuovamente in una discarica. Poi c’è lo scandalo di un Mare Nostrum periodicamente preda di un surrogato della pirateria saracena: da un lato i pescherecci siciliani arrembati e internati nei porti libici (l’ultimo caso questo stesso agosto, con il Valeria I arrestato fraudolentemente in acque internazionali), e dall’altro il Mediterraneo usato come corsia preferenziale per il traffico di esseri umani, col quale la Libia ricatta l’Italia ormai da anni.
Così, mentre il nostro Paese – tanto per motivi di rispettabilità quanto di comprensibile pietà umana – non può permettersi di abbandonare al loro destino le decine di migliaia (sessantamila dal 2005 al 2007, secondo «Il Giornale» del 10 maggio scorso) di disperati che vengono a spiaggiarsi sulle nostre coste, con spietato cinismo la Libia consente loro di imbarcarsi nei propri lidi (soprattutto a Zuara) aprendo e chiudendo il rubinetto dei flussi migratori in perfetta corrispondenza con la pressione da mantenere sul governo di Roma. Magari – come ha rilevato Guido Ruotolo su «La Stampa» del 17 giugno scorso – per riuscire ad estorcerci la famigerata autostrada che dovrebbe rappresentare il «raddoppio» della Via Balbia costruita negli anni Trenta, oppure («Il Corriere della Sera» del 9 maggio 2008) come mezzo di ritorsione per la nomina di Roberto Calderoli, «responsabile» secondo Saif al Islam Gheddafi, degli incidenti anti-italiani di Bengasi che furono scatenati nel 2006 con la scusa della maglietta «irriverente» di Calderoli. Con la nomina di Calderoli a ministro per la Delegificazione, «la Libia non è più responsabile della protezione delle coste italiane degli immigrati illegali».
Risultato, il Canale di Sicilia è trasformato in una enorme tomba, nella quale si perdono migliaia di disgraziati, la cui orrenda fine ricade sulla testa – sono parole di Magdi Cristiano Allam sul «Corriere» del 18 giugno – del «Grande burattinaio che dall’altra sponda del Mediterraneo usa gli stranieri come carne da cannone per sottometterci al suo arbitrio». Un burattinaio col quale l’Italia rischia di essere correa, se non proprio complice – continua Allam – «perché non vogliamo sanzionare il principale responsabile di questa tragedia, il dittatore libico Gheddafi». E così, mentre Bossi oltre alle scemenze sull’Inno Nazionale dice anche dure verità sul turpe mercato umano fatto dalla Libia ai danni dell’Italia, ecco arrivare pronta la smentita della Farnesina: il 10 maggio «La Stampa» può evidenziare «La battuta del Senatùr: «sono loro che ci mandano i clandestini». E immediatamente dopo l’intervento del ministro degli Esteri Frattini: «No, è un Paese amico». E intanto l’amico, da quando è riuscito a rinsaldare i rapporti con gli ex nemici Stati Uniti (oggi alla ricerca di consensi fra i regimi arabi non integralisti e possibilmente detentori di notevoli riserve petrolifere) si preoccupa sempre meno di mantenere una parvenza di legalità nei rapporti con l’Italia. Un atteggiamento spregiudicato, quello di Tripoli, che saltuariamente si esercita anche in altre direzioni: pochi mesi or sono si è chiusa, ad esempio, la lunghissima vertenza tra Libia e Bulgaria. Sul piatto – salvate poi dall’intervento della Francia di Sarkozy – un medico palestinese e cinque infermiere bulgare condannate a morte dalla Libia perché accusate di aver volontariamente infettato di aids malati di alcuni ospedali libici. Dopo aver strillato al complotto occidentale, Gheddafi si è «accontentato» di uno sconto sui debiti libici nei confronti della Bulgaria. Ovviamente, il contagio di massa era frutto di una carenza della sanità locale. Per coprire la magagna c’era bisogno, come vuole la tradizione gheddafiana, di un capro espiatorio internazionale…
Un «salto della quaglia», quello della Libia, da qualche tempo particolarmente affamata di legittimazione internazionale, che riuscendo a buttare a mare le sue lune di miele col terrorismo internazionale e assolutamente bipartizan (vedi box a pag. 18) ha ottenuto una nuova verginità politica (potenza del petrolio, ovviamente, e della minaccia di gettare nelle braccia dei fondamentalisti l’ennesimo paese arabo). Una verginità che permette di scoprire qualche altro altarino vergognoso: tutti lo sapevano, ma finalmente ci sono anche le prove inconfutabili – perché c’è chi le ha tirate fuori, come «scopre» il «Corriere della Sera» del 15 aprile scorso – che fin dagli anni Settanta Gheddafi (mentre da una parte entrava nel capitale sociale della FIAT) sosteneva ed addestrava i terroristi di mezzo mondo e in cambio otteneva trattamenti di favore e «lezioni private» per i suoi agenti segreti nella Germania Federale, mentre – ben peggio – in Italia addirittura i sicari del governo libico venivano indisturbati ad ammazzare i nemici del dittatore, come ha denunciato non ieri, ma vent’anni fa, su «La Repubblica» del 15 agosto 1986 Magdi – non ancora Cristiano – Allam. Una serie di casi liquidata dall’ambasciatore libico come «regolamenti di conti personali» perché «la vendetta è una consuetudine diffusa nel mondo arabo». La citata Commissione parlamentare scrive infatti che «mentre le diplomazie occidentali si arrovellano davanti all’osso agitato da Gheddafi, le autorità italiane si legano a doppio filo al regime del Colonnello. La parola “prudenza” diventa un leitmotiv negli ambienti governativi ogni qual volta si accenna al caso Libia. Nel contempo, le autorità libiche iniziano a foraggiare, addestrare e controllare una serie di gruppi terroristici operanti in Europa, fra cui l’IRA, l’ETA, la banda Baader-Meinhof e le Brigate rosse».
Ma torniamo al problema energetico, vero tallone d’Achille italiano. E’ grazie al petrolio libico che Gheddafi riesce ad tenere l’Italia supina ai propri capricci: l’ENI, che ha contratti in Libia dai tempi di re Idris, è una delle poche aziende italiane a non essere stata cacciata o completamente nazionalizzata da Gheddafi nel 1970: venne colpita di striscio solo la Asseil, una società petrolifera italo-libica per metà dell’AGIP. Fin dall’estate 1970, a Roma, si comprende che attuare misure economiche di rappresaglia per l’espulsione degli italiani significa danneggiare l’ENI. La Libia forniva il 28% del fabbisogno petrolifero italiano nel 1969, e all’epoca della chiusura del Canale di Suez per le guerre arabo-israeliane, le fonti d’approvvigionamento alternative sarebbero risultate troppo onerose. Intanto già nel 1972, mentre sono ancora ospiti nelle baracche dei campi profughi i 20 mila italiani espulsi, l’ENI riesce ad ottenere un contratto per 50 milioni di barili di petrolio (la fonte è sempre la citata relazione della Commissione parlamentare d’inchiesta del 2001). Lo stesso anno vendiamo sottobanco alla Libia armi per 25,5 miliardi di lire d’allora. Un sottobanco scoperto subito dagli americani (ancora furibondi per l’espulsione dalle loro basi militari e petrolifere dalla Libia nel 1970) che ci obbligano in cambio ad acquistare da loro armi per 45 miliardi e cedere basi a Lampedusa e La Maddalena (un vero affare!). Poco dopo parte una joint venture con l’ENI, e la SNAM inizia l’edificazione della prima raffineria libica, a Tripoli: un crescendo di concessioni e contratti, che si configura come una vera «guerra del petrolio» con gli inglesi, e che – veduta in prospettiva – getta un’inquietante luce su chi negli anni ha forse stilato l’agenda politica del nostro Paese. Infatti, mentre la British Petroleum viene nazionalizzata da Gheddafi proprio mentre sta cacciando via (dopo averli rapinati) i ventimila italiani, è l’ENI che di lì a poco subentra ai britannici nello sfruttamento dell’oro nero libico. Il ritorno economico per il dittatore è così buono che nel 1976 può – auspice l’URSS – acquistare il 9,1% delle azioni della FIAT. E tutt’oggi la presenza dell’ENI è in continua crescita e proprio il giugno scorso il mega gruppo italiano è riuscito a ricontrattare con la dittatura libica un accordo che prevede altri decenni di collaborazione fra l’Ente e Tripoli per lo sfruttamento degli idrocarburi. Il tutto ad un prezzo salato – il «Corriere della Sera» del 13 giugno scorso parlava di un miliardo di dollari – ma tutto sommato accettabile, considerando il fatto che – con gli aumenti del prezzo a barile – a pagarlo saranno i consumatori italiani. E intanto, mentre da noi ci si interroga ancora sul nucleare, qualche genio (nella fattispecie la società Techint, secondo «La Repubblica» del 12 agosto scorso) sta pensando di andare ad aprire centrali eliotermiche nel Fezzan, così da consentire alla Libia di risparmiare petrolio per venderne in maggior quantità all’estero. Così, l’Italia resta sempre più dipendente dalle importazioni, mentre la Libia dell’«affidabile» Gheddafi acquisisce da un lato infrastrutture e know-how per rendersi autosufficiente e dall’altro mantiene il coltello dalla parte del manico perché il flusso verso Italia ed Europa dell’energia elio-prodotta nel deserto libico potrà essere bloccato in qualunque momento.
E il governo di Roma che fa? Si incontra con Gheddafi. L’unica volta che la nostra diplomazia, negli ultimi anni, ha realmente alzato la voce con Tripoli è stato, incredibilmente lo scorso 24 aprile, non per difendere concretamente i propri interessi nazionali ma per difendere un altro Paese, quando per richiesta dell’ambasciatore italiano, Marcello Spatafora, si è sospesa la riunione del Consiglio di Sicurezza dell’ONU dopo che il rappresentante della Libia, Ibrahim Dabbashi, accusando Israele aveva paragonato la condizione di Gaza a quella nei campi di concentramento nazisti. Per il resto è la politica del cus-cus sotto la tenda (corazzata) del colonnello a tenere banco. Destra o sinistra che comandi, si tratta solo di incontri, strette di mano, cordialità di facciata – «l’accordo è vicino» – ma in pratica non se ne fa nulla. E fra il lusco e il brusco il solo Berlusconi ha incontrato Gheddafi ben sei volte (in sei anni e due governi): nonostante i due anni all’opposizione più che con il presidente del nostro principale alleato, gli USA (d’altronde circolava fin dagli anni Settanta la battuta «moglie americana, amante libica»…). E tra fine agosto e primi di settembre gli incontri son saliti a sette visto che c’è l’accordo «definitivo» da firmare. Al solito, Gheddafi in questi incontri sciorina la storia della sua infanzia: povero, con il padre combattente e gli zii caduti nella «guerra patriottica» contro gli italiani (un po’ sotto tono invece le storie degli altri suoi parenti morti nelle guerre tribali fra beduini). Chissà come commenterebbe invece quei due «Gheddafi» e «Gheddafi» che compaiono al numero 6960 e 8927 della lista dei soldati coloniali del Regio Esercito cui lo Stato italiano ha pagato spettanze ed indennità negli anni Cinquanta… Infine la storia della cicatrice lasciatagli sul braccio dall’esplosione di un residuato bellico (italiano, dice lui: chissà, ma potrebbe essere stato anche forse inglese o tedesco, ma siccome l’Italia da quelle parti è «il Male Assoluto»…), esplosione che gli ha ucciso anche due cugini. Storie con le quali cerca di mettere a disagio gli interlocutori italiani, e ci riesce grazie alla tipica remissività dei suoi ospiti. Come al solito, se i nostri governanti conoscessero un po’ più la Storia del nostro Paese, avrebbero qualche freccia in più al loro arco. Ma, a lezione di Storia (e dignità) sono tradizionalmente sempre assenti.
Emanuele Mastrangelo
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