di Nathan Greppi, da Atlantico Quotidiano, del 19 marzo 2022
Quando, negli ultimi anni, negli Stati Uniti si è iniziato ad abbattere le statue di personaggi storici, la scusa maggiormente utilizzata era che si trattava di figure legate al colonialismo e allo schiavismo; ciò però ha portato a prendere di mira persino Cristoforo Colombo, che tra l’altro è visto come un simbolo dell’emancipazione della comunità italoamericana. Il tutto rientra in uno schema più ampio di riscrittura della storia americana, vista solamente come un susseguirsi di discriminazioni dei bianchi nei confronti delle minoranze. Una tendenza che ha ricevuto sostegni considerevoli, come quello del New York Times che tramite il Progetto 1619 vorrebbe far risalire l’origine del Paese non al 1492, anno della scoperta del continente, ma al 1619, quando arrivarono in Virginia i primi schiavi dall’Africa.
Eppure, vi è una minoranza il cui percorso dimostra come la storia americana non sia solo fatta di ingiustizie ma, al contrario, di conquiste per coloro che aspiravano ad ottenere libertà e diritti: quella ebraica. Infatti, sebbene gli stessi americani ne siano poco consapevoli, sin dalla scoperta del Nuovo Mondo i primi ebrei che vi emigrarono dall’Europa lo fecero soprattutto per sfuggire all’Inquisizione spagnola, che anche dopo la loro espulsione dalla penisola iberica nel 1492 continuava a braccarli.
Come ha raccontato lo storico americano Edward Kritzler nel suo libro del 2008 “Jewish Pirates of the Caribbean”, molti marrani, ossia ebrei che avevano finto di convertirsi al cristianesimo per evitare rappresaglie, si arruolarono tra i marinai di Colombo, e dopo che questi divenne governatore delle Indie occidentali, trovarono nelle isole dei Caraibi un rifugio sicuro. Altri emigrarono in Sudamerica al seguito di conquistadores come Cortez i quali, pur venendo oggi dipinti come spietati invasori, secondo Kritzler erano più tolleranti verso gli ebrei rispetto a tanti loro connazionali. Nel corso dei secoli, alcuni discendenti di questi marrani divennero corsari e attaccarono le navi spagnole per conto dell’Olanda e dell’Inghilterra.
Ma è durante la Guerra d’Indipendenza americana che molti ebrei si batterono con coraggio per vedere riconosciuti i propri diritti: come spiegava Giuliana Iurlano nel 2018, già docente di storia delle relazioni internazionali all’Università del Salento, la piccola comunità presente nelle colonie britanniche in Nordamerica si inserì bene, dedicandosi al commercio, alla viticoltura, alla costruzione e al noleggio di navi mercantili. Al pari degli altri coloni, gli ebrei partecipavano con grande dedizione alla politica locale, anche perché lì l’antisemitismo era molto meno diffuso che in qualsiasi altro territorio sotto il dominio inglese. A New York, in particolare, sin dal 1729 avevano diritto ad ottenere incarichi pubblici senza essere obbligati a prestare giuramento sulla Bibbia cristiana.
Al momento dell’adozione della Dichiarazione d’Indipendenza nel 1776, nelle colonie vivevano tra i 2.000 e i 2.500 ebrei. Tutti loro avevano vissuto con grande apprensione le vicende del Paese: la maggior parte era dalla parte dei patrioti, anche perché erano imprenditori che mal sopportavano le tasse e altre restrizioni economiche imposte dalla corona inglese, mentre una minoranza, formata da famiglie benestanti che in parte fornivano gli approvvigionamenti all’esercito, era con i lealisti; altri ancora volevano restare neutrali di fronte al precipitare degli eventi. Ci furono intere famiglie che giuravano fedeltà ad una delle due parti in causa, e altre che invece si ritrovarono divise al loro interno. Quelli che scelsero di schierarsi con i patrioti lasciarono le città sotto controllo inglese, quali New York e Savannah, per trasferirsi a Philadelphia.
Molti di loro si arruolarono come volontari nell’esercito continentale; così fece Francis Salvador, un proprietario terriero nato a Londra e che nel 1774 divenne il primo ebreo eletto ad una carica pubblica nelle colonie. Quando l’esercito britannico attaccò la Carolina del Sud, nella notte tra il 31 luglio e il 1 agosto 1776, venne colpito mortalmente, e un indiano cherokee alleato degli inglesi gli tagliò lo scalpo. Probabilmente Salvador fu il primo ebreo caduto nella rivoluzione americana, e a lui è dedicata una stele nel Hall Park di Charleston City, che recita: “Nato aristocratico, divenne un democratico. Inglese, ha incrociato il suo destino con l’America; fedele alla sua antica fede, ha dato la vita per nuove speranze di libertà e comprensione umana.”
Furono almeno un centinaio gli ebrei che si arruolarono negli eserciti di entrambe le fazioni; un numero che può sembrare esiguo, ma bisogna considerare che i maschi adulti in età da servizio militare nella comunità erano circa 500 in tutto e, dunque, furono il 20 per cento del totale a prendere parte al conflitto. Ricoprirono diversi ruoli, dal semplice soldato di fanteria all’alto ufficiale.
Un aspetto importante della vicenda è che, quando in precedenza venivano arruolati nell’esercito britannico, nessuno di loro poteva aspirare a diventare un ufficiale, a meno che non si convertisse al protestantesimo (lo stesso valeva anche per i cattolici irlandesi). Al contrario, nell’esercito continentale almeno tre di loro ottennero incarichi di prestigio: Mordecai Sheftall, arruolatosi come furiere nella milizia della Georgia, divenne colonnello, mentre David S. Franks e Solomon Bush, ufficiali di stato maggiore, diventarono tenenti colonnello.
Ci fu anche chi si batté per l’indipendenza delle colonie senza prendere parte direttamente agli scontri, ma tramite il sostegno economico e attività di spionaggio: il più importante fu Haym Salomon (alla sinistra di George Washington nelle statue in foto), un imprenditore nato in Polonia e discendente di ebrei cacciati dalla Spagna e dal Portogallo nel 1492. Dopo essere emigrato prima a New York e poi a Philadelphia, si schierò con i patrioti, tanto che tra il 1781 e il 1784 finanziò le campagne di George Washington con 650.000 dollari di allora (che equivalgono a oltre 16 milioni dei giorni nostri). Alla vita di Salomon sono dedicati il cortometraggio “Sons of Liberty”, prodotto nel 1939 dalla Warner Bros che non a caso venne fondata da figli di immigrati ebrei polacchi, e il romanzo storico “Haym Salomon, Son of Liberty”, scritto nel 1941 da Howard Fast.
La rivoluzione americana significò per la minoranza ebraica l’uguaglianza politica e il diritto alla libertà di culto. Quando, nel 1789, George Washington divenne il primo presidente degli Stati Uniti, gli ebrei, in una lettera del presidente della loro congregazione di Newport, Moses Seixas, gli espressero la loro profonda gratitudine, assieme alla loro promessa di sostenere il nuovo governo. In risposta, Washington ribadì la libertà di coscienza e i privilegi legati all’essere cittadini americani. Aggiunse che da quel momento in poi non si sarebbe più parlato di tolleranza, in quanto “il governo degli Stati Uniti […] richiede solo che coloro che vivono sotto la sua protezione si comportino da buoni cittadini, sostenendolo concretamente in ogni occasione.”
In conclusione, chi parla degli Stati Uniti come di un Paese intrinsecamente razzista e fondato sull’oppressione dovrebbe leggere la storia degli ebrei americani, che proprio in quelle terre trovarono molta più libertà di quanta non ne avessero all’epoca i loro correligionari in Europa e nei Paesi islamici.