Anno VII – n. 1 – febbraio 2007
A cura di Fabio Andriola ( direzione@storiainrete.com )
Sommario:
- Il nuovo numero di «Storia In Rete» è in edicola
- Rassegna Stampa: un pezzo di Franco Bandini del 1995 racconta più di quello che si è letto nelle scorse settimane
- Rassegna Stampa: Coca e politica.
- Rassegna Stampa: Crociate, roghi e pasque di Sangue» secondo Franco Cardini
1) Il nuovo numero di «Storia In Rete» è in edicola
► E’ datato gennaio/febbraio (n. 15/16) il numero di «Storia In Rete» in edicola ormai da qualche giorno. Dal prossimo numero il giornale riprenderà la sua periodicità mensile normale con un numero, come sempre, ricco di notizie e servizi esclusivi. Nel numero in edicola l’eco della cronaca si è fatta sentire col servizio di copertina, un servizio un po’ diverso dal solito in quanto per offrire ai nostri lettori un approccio diverso sul tema della “Memoria”, anzi dei «Problemi di memoria» che riguardano storici, politici, sopravvissuti e giovani abbiamo scelto di dedicare varie pagine ad un resoconto stenografico. Non di una seduta parlamentare ma di una anomala trasmissione televisiva, andata in onda su SkyTg24 e dove, caso rarissimo, sono stati messi a confronto due storici lontanissimi, in apparenza, tra loro: il revisionista inglese David Irving e l’italiano professor Giovanni Gozzini di Siena. Al centro del dibattito la rilettura storica dell’Olocausto e la possibilità di punire che osa negarne la realtà storica. A sorpresa Irving e Gozzini hanno trovato più di un punto di contatto e ci è sembrato giusto offrire ai lettori di «Storia In Rete» riflessioni e osservazioni difficili tra trovare altrove. Ma il numero ha altri punti forti: ricordiamo ad esempio il bel pezzo di Aldo Mola in cui si ricostruiscono le miserie, le forzature e le pesanti conseguenze del trattato di pace firmato dal governo De Gasperi, giusto sessant’anni fa, nel febbraio 1947. Un nuovo collaboratore, il prof. Massimo Viglione dell’Università Europea di Roma, ci ha fornito una lettura critica di una fortunata fiction Rai sull’impresa dei Mille mentre il prof. Giuseppe Parlato, rettore dell’Università San Pio V, ci ha rilasciato un’intervista sul suo libro dedicato agli albori del neofascismo in Italia «Fascisti senza Mussolini» (Il Mulino). E poi, ancora: la storia del salvataggio dell’esercito serbo da parte del Regio Esercito nel 1916 (articolo di Alfio Moratti), l’incredibile storia di come la bellissima attrice Hedy Lamarr fece, nel 1942, un’invenzione che sfruttiamo ancora oggi… Un interessante articolo di un altro nuovo acquisto di «Storia In Rete», il dottor Maurizio Maggini di Firenze, ci fa scoprire il sorprendente legame tra Firenze del Quattrocento e Cinquecento e le grandi scoperte geografiche.. E poi: un viaggio sui luoghi del nazismo esoterico firmato Maurizio Martucci, una godibilissima storia della sifilide di Valeria Palombo, una nuova biografia del misterioso Conte di Saint Germani… E le nostre rubriche: i libri di Aldo Ricci (e Guglielmo Salotti), siti e giochi di Emanuele Mastrangelo, una nuova pagina dedicata agli appuntamenti curata da Elena Percivaldi, le lettere di Luciano Garibaldi, il cinema di Cristina Scognamillo. Insomma, difficile trovare qualcosa da non leggere… E per avere un assaggio c’è sempre il nostro sito dove potrete trovare un estratto dei principali articoli: www.storiainrete.com
2) Rassegna stampa: «La vera storia dei falsi diari del Duce
► Si è fatto un gran parlare della ennesima riscoperta dei diari di Mussolini. Anche «Storia In Rete» ne parlerà nel numero di marzo. Intanto, anche per ricordare un grande amico esperto come pochi di queste vicende, abbiamo deciso di riproporre un vecchio articolo pubblicato dal compianto Franco Bandini su «Storia Illustrata» nel novembre 1995. Articolo che nasceva da una notizia che già allora diceva poco a molti: la scomparsa di Amalia Panini, una donna che con la storia dei diari di Mussolini c’entrava molto. Vediamo come.
Mi occupo del Grande Diario di Mussolini da quasi quarant’anni, ovvero dal 1956. Cioè da quando comparvero sul palcoscenico pubblico di un’Italia piuttosto tranquilla e anzi sonnacchiosa due incredibili donne di Vercelli, Rosetta Prelli, allora di 72 anni, e sua figlia Amalia, detta Mimì, di 41: quest’ultima è scomparsa senza clamori il 31 maggio scorso portandosi dietro, intatta, l’ultima verità su quello che si può ben chiamare il più monumentale falso del secolo. Monumentale e resistentissimo. Rosetta Prelli era la vedova di un commissario di polizia della Buoncostume di Vercelli, e in tale incarico rimase anche durante la Repubblica di Salò. Si chiamava Giulio Panvini ed era assai legato all’allora ministro degli Interni, Paolo Zerbino, poi fucilato a Dongo il 28 aprile 1945. Oggi siamo ragionevolmente sicuri che egli ricevette da Zerbino in custodia, forse per qualche giorno soltanto, la valigetta o cofanetto che conteneva i diari-agende di Mussolini. Non siamo però affatto certi che già allora essi non fossero stati contraffatti da qualche servizio della Repubblica Sociale. Le ipotesi sono troppe. Mimì Panvini, sposata e presto separata da un Rosati, capitano pilota dell’Aeronautica militare, era donna singolarissima. Non brutta, ma neppure bella, non stupida, ma neanche colta, non volgare e furbissima, la donna è passata come una salamandra attraverso vicende processuali e personali, che avrebbero tolto il sonno a chiunque, senza mai perdere la sua educatissima calma, ma soprattutto eludendo costantemente la domanda centrale: se avesse visto o no i veri diari. Quelli falsi, scritti da lei, potevano infatti trarre in inganno così bene da far sospettare una inevitabile connessione con gli originali. Conobbi le due donne a casa loro, in Vercelli, nel gennaio 1957, dopo ricerche strenue, poiché i diari ci erano stati offerti da un intermediario, ostinatamente fermo nel non tradire le sue “mandanti”. Allora ero all’Europeo diretto da Michele Serra, il quale decise di far venire dall’Argentina Vittorio Mussolini, l’unico che poteva darci la necessaria garanzia. La cifra ventilata per l’acquisto di tutte le agende, per quanto non precisata, viaggiava già sul paio di milioni di dollari. Con Vittorio, la sera del 30 gennaio, salimmo le scale decrepite di un decrepito palazzotto del centro di Vercelli e ci trovammo nel trilocale delle Panvini-Rosati, con il corredo di varie decine di gatti la cui alimentazione e benessere sembravano essere l’unica cura dell’ancor giovane Mimì. E subito cominciò il quarantennale tormentone perché i diari non c’erano, essendo stati “sfollati” fuori d’Italia. Dopo vari contatti inconcludenti, Vittorio tornò nelle sue pampas assai seccato e noi proseguimmo un po’ alla stracca nelle trattative. Un mese dopo, finalmente, Amalia Panvini venne all’Europeo e ci portò una prima agenda e altre due poco più tardi. Facemmo analizzare un minuscolo frammento della carta e venimmo a sapere che quel tipo era in uso dal 1940, probabilmente prodotto dalla cartiera di Romagnano Sesia, nei pressi di Vercelli. Poiché le tre agende in mano nostra erano del 1941, 1942 e 1943, la scoperta non ci fu di nessunissimo aiuto. Il tormentone fu bruscamente interrotto dai servizi dei carabinieri i quali l’1 agosto 1957 piombarono a Vercelli e a Novara sequestrando alle Panvini e al dottor Oscar Ronza, dell’Msi novarese, appunti e diari, compresi i nostri tre, che avevamo restituito. Fu una grossa bomba; ma ancora più grossa fu quella che scoppiò al processo del 1960, poiché si scoprì che le due donne avevano davvero falsificato tutte le agende, commissionando al linopista Ezio Varalda la confezione delle stesse, per di più senza pagargliele. Un nipote di Rosetta Prelli si era incaricato di bazzicare a lungo la locale biblioteca civica, copiando dai giornali dell’epoca tutti i riferimenti utili a compilare diari cronisticamente “a prova di bomba”. Il 14 novembre 1960 il tribunale di Vercelli disponeva che fossero dati alle fiamme 38 tra quaderni e agende, nonché tutto il materiale di supporto, sulla base del categorico parere della Scuola Superiore di Polizia Scientifica di Roma: i diari erano apocrifi e la falsificatrice era Amalia Panvini Rosati. Pena per lei, due anni e 10 mesi, per la madre, in quanto corresponsabile di falso e truffa, due anni e due mesi. Scrivemmo perciò i nostri articoli e in buona fede ritenemmo chiusa per sempre la faccenda. C’era però un tarlo segreto nei nostri pensieri: il commissario Giulio Panvini era morto alla fine del 1955 e i diari avevano cominciato a essere offerti pochi mesi dopo, nella tarda primavera del 1956, quasi che le due donne non avessero atteso che la morte del rispettivo marito e padre per valersi di un qualcosa che evidentemente anch’egli conosceva. In linea teorica era possibile che i veri diari fossero passati per quella casa. Ma scacciammo quel pensiero, ben saldi nell’idea che per un buon giornalista dovessero contare soltanto i fatti. Errore, e grave. Sette anni dopo il processo di Vercelli, esattamente il 3 aprile 1967 (ero frattanto passato alla Domenica del Corriere) ricevetti una sconvolgente telefonata di Padre Zucca, dell’Angelicum di Milano, che con il peso della sua autorità mi convocava per la sera successiva al convento onde iniziare serie trattative per la cessione in blocco di 22 agende del famoso diario. La sera dopo, all’Angelicum, in una piccola saletta imbiancata a calce della clausura, mi trovai davanti sei persone che dichiararono di essere i finanziatori dell’intera operazione, troppo impegnativa per il singolo. Non si presentarono, dissero che i diari non erano visibili, dal momento che si trovavano in una cassaforte svizzera, e insistettero a lungo per sapere da me quanto eravamo disposti a pagare per una cessione totale. Risposi che di far cifre non se ne parlava neanche, almeno finché non avessi visto la “merce”. Allora, quello che pareva il capo della combriccola aprì una valigetta, ne trasse quello che sembrava un libro avvolto in carta da giornale, me lo passò e disse: «Si serva pure». Dieci secondi dopo avevo in mano l’agenda 1943 del presunto diario mussoliniano, la cui ultima nota compariva alla domenica 25 luglio. La sfogliai con concentrata attenzione richiamandomi alla mente date e fatti salienti. Poi la riconsegnai e con tutta la tranquillità che mi fu possibile trovare dissi: «Per me le trattative finiscono qui. Questa agenda è falsa». Poiché, anche qui, era stata ventilata la cifra di due milioni di dollari, avvertii subito i presenti che un prezzo del genere era giustificabile soltanto se i diari fossero risultati non solo autentici, ma anche molto interessanti politicamente e storicamente. E questo, per esempio, non era certo il caso dell’agenda 1943, nella quale più che di tramonti, profumi di fiori, paesaggi e melense annotazioni sentimentali non si parlava. Però le telefonate e le trattative continuarono per altre sette settimane, finché la sera del 24 maggio fui nuovamente convocato al convento, trovandovi non più i venditori del 4 aprile, ma una personalità ben diversa, l’ingegnere “honoris causa”, Ettore Fumagalli, il quale nei primi 30 secondi dopo la stretta di mano m’informò di essere un grande industriale, amico di tre o quattro maragià indiani, nonché del presidente indonesiano Sukarno e del generale Suharto. Subito dopo mi disse che non poteva più cederci i diari perché due giorni prima li aveva venduti alla società inglese Thompson attraverso una sua società appositamente costituita, la Brw, con meccanismi accuratamente studiati in modo da scansare ogni ostacolo giuridico e fiscale sulla proprietà dei diari che ora, aggiunse, si trovavano a Londra. Concluse dicendo che in ogni caso lui, la Brw e il suo socio inglese, il “grande finanziere Charles Kean”, erano in una botte di ferro poiché nei diari di Mussolini si trovava un foglietto voltante, scritto da lui, che testualmente diceva: «Ma nella dannata ipotesi che io dovessi finire solo ed esule in qualche terra lontana distaccato dal mondo e dai miei affetti per sempre prego coloro che avranno cura delle mie cose di custodire questo lungo giornale e di farlo conoscere al mondo affinché si sappia tutta la verità sulla mia vita». La data era quella del 16 giugno 1943, precedente quindi di una quarantina di giorni quella del colpo di stato. Dandomi copia di questa singolare dichiarazione Fumagalli commentò: «Come vede, siamo perfettamente a posto. E’ lui che ci affida l’incarico». Molto meravigliato, obiettai che ormai la cosa non ci riguardava più se aveva venduto il tutto alla Thompson. Ma con un sorriso volpino il Fumagalli disse che aveva una clausola-scappatoia con gli inglesi: la cessione era subordinata all’approvazione degli eredi di Mussolini. In tono perentorio mi ordinò di prenotare due biglietti aerei per il giorno dopo alle 15 per Londra. Alla Domenica del Corriere si prese il toro per le corna e si convocò Fumagalli la mattina del 25. Nella manica avevamo Vittorio Mussolini, che aveva acconsentito a venire a Milano in funzione di esperto, per cui, informato da noi, il Fumagalli cedette alquanto e mandò la sua segretaria a prendere i microfilm, di altre due agende, il 1941 e il 1942. Vittorio le esaminò in separata sede, disse che non aveva elementi per decidere in un senso o nell’altro, ma che alcune pagine, relative al viaggio al fronte russo del padre nel 1941, al quale egli aveva partecipato, gli erano sembrate persuasive. Dopodiché si decise di mandarlo a Londra da solo. Al ritorno ci raccontò di essere stato ricevuto in maniera principesca. Con un veloce Jaguar lo avevano trasportato a una banca della City, nel cui caveau, sotto la sorveglianza di due “gorilla”, aveva potuto leggersi quattro agende estratte da una poderosa cassaforte. Il suo giudizio, però, era rimasto lo stesso: gli elementi erano troppo scarsi per poter decidere. Ripartì, deluso e perplesso. Ora toccava a noi. Per quanti dubbi avessimo, era necessario andare fino in fondo, poiché una verità negativa è pur sempre una verità. A Londra avemmo il dubbio piacere di conoscere Mister Charles Kean, che era una copia pantografata di Ettore Fumagalli. Di origine polacca, aveva fatto l’attore, il commerciante, l’esploratore, persino il domatore. Parlava correntemente l’inglese, il francese e il polacco. Un po’ meno bene l’italiano. Descrisse la sua vita, interrompendosi spesso per telefonare in Australia, in Canada, in Sudafrica, sempre parlando di milioni, vuoi in dollari, vuoi in sterline. A un tratto si alzò e disse: «E ora andiamo alla banca». Osservammo stupiti che era domenica, ma egli fece un sorriso sprezzante: la banca, infatti, aprì il suo forziere davvero e le quattro agende saltarono fuori. Purtroppo, le riconobbi subito: erano le quattro vecchie amiche già avute per le mani nella casa della Panvini-Rosati dieci anni prima. Tornati a Milano, interrompemmo le trattative e bene facemmo, poiché poco dopo i servizi piombarono sull’ingegnere, nonché sulle due donne di Vercelli, le quali tuttavia si erano questa volta premunite. Avevano ceduto quelle agende, forse non andate distrutte o forse riscritte di nuovo, facendosi rilasciare dal Fumagalli una dichiarazione nella quale riconosceva di acquistare non diari autentici, ma “ricostruzioni-omaggio” alla memoria di Mussolini. Otto anni dopo questi fatti, nel dicembre 1975, d’accordo con un’altra casa editrice milanese, andai a Carpena da Vittorio Mussolini con un serio progetto di ricerca dei diari. Avremmo lavorato in tandem e in perfetta lealtà reciproca, per mettere la parola “fine” all’annosa questione, a beneficio esclusivo della verità storica. Nel frattempo mi ero preparato bene, ma Vittorio completò le mie conoscenze con una narrazione molto minuta di ciò che personalmente gli constava. Espresse anche un dubbio, sul quale ho sempre taciuto, perché questo allora io gli promisi. Tuttavia, essendo passati altri vent’anni, Vittorio mi scuserà se mi induco a ritenere ormai materia di storia anche quella confidenza. In breve, egli riteneva che i diari esistessero, ma che non sarebbero mai saltati fuori per il fatto che nella cassetta zincata che li conteneva quando erano stati avviati in Svizzera, nel settembre 1944, si trovavano anche numerosi sacchetti di brillanti grezzi, destinati a provvedere in qualche modo alla vita di Rachele e della famiglia, dopo la prevedibile sconfitta finale. Secondo Vittorio, il valore delle pietre superava di molto quello editoriale dei diari, per cui l’ignoto possessore, tirandoli fuori, avrebbe fatto un pessimo affare. Andammo attorno per quasi tutto il 1975 e tenemmo varie riunioni, appurando una grossa serie di elementi e di indizi. Ma alla fine dovemmo dichiararci sconfitti: non era uscito un ragno dal buco e in più Vittorio Mussolini fremeva dalla voglia di tornare presto in Argentina, dove aveva lasciato un nuovo affetto. Anche questa volta si era perso del tempo. Ma non era finita. Dopo altri nove anni, nel marzo 1994, il mio telefono squillò di nuovo sul vecchio tormentone. Questa volta era Nikolas Farrell, giornalista del Sunday Telegraph di Londra, che da una anno stava studiando con il collega americano Brian Sullivan quattro agende dei diari, acquistate da un signor K., finanziere della capitale, per una considerevole cifra. Dopo un paio di telefonate, Farrell ammise a malincuore che si trattava dell’imperituro Mister Kean, evidentemente tornato alla carica, ma mi disse anche che in uno dei diari, sotto la data del 15 gennaio 1936, si trovava annotata da Mussolini la visita privata del colonnello americano Bill Donovan, “longa manus” già allora di Roosevelt, nota soltanto a quattro o cinque persone, tutte americane. Combinammo di vederci a Roma, a casa mia: nel frattempo gli inviai l’essenziale della mia documentazione. Anche questa volta il sipario del silenzio cadde quasi subito, con una strana spiegazione e con qualche clamore, lasciando sospesa nell’aria una domanda: come aveva fatto a sopravvivere al fuoco un’agenda del 1936, distrutta a cura del tribunale di Vercelli 24 anni prima? Le spiegazioni furono davvero bislacche, poiché a Londra si disse che i diari non erano veri, ma neppure falsi, in quanto si trattava di “apocrifi mussoliniani”, nel senso che erano stati riscritti dallo stesso Mussolini sulla base dei suoi veri diari. Il clamore, britannico e italiano, dipese dal fatto che il Sunday Telegraph e un giornale italiano decisero nel luglio di pubblicare estratti consistenti delle quattro agende dal 1936 al 1939 esistenti a Londra. Poi cadde davvero il silenzio. Su questi famosi e introvabili diari vi sono alcune striminzite certezze e una sequela di dubbi. Ma anzitutto dobbiamo chiederci cosa intendiamo per “grande diario” di Mussolini. Dopo 40 anni di ricerche e di riflessioni, sono del parere che un “grande diario” non solo non esista, ma neppure possa esistere. Può esistere un “piccolo diario” di Mussolini dedicato agli avvenimenti quotidiani da fermare nella memoria privata, come farebbe ognuno di noi, nascite, morti, matrimoni, malattie, litigi, spese grosse, fatti e fatterelli curiosi che altrimenti andrebbero perduti. Questo sì, questo è possibile: e risulterebbe anche interessante, poiché le 17 o 20 agende che fossero, potrebbero restituirci nel loro complesso di sei o settemila pagine, un profilo più calibrato di un uomo del quale sappiamo ancora forse troppo poco. Con la morte di Amalia Panvini-Rosati, il tormentone nato a Vercelli quasi 40 anni fa dovrebbe essere giunto al suo termine. Ma ci sono troppi Mister Kean in giro. Non si può mai dire. (di Franco Bandini)
3) Rassegna Stampa: Coca e politica
► I vizi o gli svaghi del potere, si sa, sono per loro natura rischiosi: e non da oggi. Così, il prossimo 7 aprile saranno sessant´anni dalla sera in cui, lunedì dell´Angelo del 1947, un anziano e fin lì austero deputato repubblicano alla Costituente, Ettore Santi, già stimatissimo presidente del Consiglio professionale dei Ragionieri d´Italia, venne beccato in un «appartamento compiacente» di via del Lavatore, dietro Fontana di Trevi, con una prostituta nel letto e alcuni grammi di cocaina sul comodino. Il gravoso anniversario e la triste storia dell´onorevole Santi, subito espulso dal Pri, di lì a poco costretto ad abbandonare il Parlamento e quindi soprannominato nella sua Spoleto «l´onorevole Cocò», certificano appunto la preveggente regolarità del proverbio: nulla di nuovo sotto il sole della politica; e anche della vita, in fondo. Da questo particolare punto di vista anche i politici sono uomini, e ad alcuni di loro non dispiace affatto di far ricorso, per esempio, alla droga – che sia pesante o leggera è qui faccenda che appare abbastanza secondaria. E comunque. Tanto la marijuana quanto la cocaina aleggiarono alla metà degli anni cinquanta attorno all´affare Montesi, peccaminosamente evocate a proposito delle orge di Capocotta («A Capocotta non poca coca cape» si divertiva a scrivere l´Unità, tipo scioglilingua) da un curioso network di gesuiti improvvisatisi detective e propalatori di colpi bassi nel quadro della successione a De Gasperi. Così come nel decennio seguente, e sia pure con le dovute cautele del caso, un pezzetto significativo dell´establishment economico e finanziario si ritrovò sfiorato dai traffici, sempre di coca, che germogliavano sui divanetti di velluto di un night club non per caso battezzato «Number One». Ma in quell´Italia, così remota e irriconoscibile, vigeva ancora la più netta distinzione tra sfera pubblica e sfera privata; e l´uso di droga rientrava a pieno titolo in quest´ultima. D´altra parte gli onorevoli, protetti dalle loro ideologie e orgogliosamente rinserrati nelle loro tribù, si guardavano dal catapultarsi davanti alla prima telecamera che incontravano a piazza Montecitorio; né andavano a raccontare i fatti loro ai talk show (che non esistevano); tantomeno aprivano ai fotografi le pagine dell´album di famiglia o le porte del guardaroba, del frigorifero o della stanza da bagno. Così l´archeologia dei primitivi consumatori di stupefacenti del Palazzo spalanca un baratro rispetto alla vicenda controversa – e anche buffa – degli onorevoli «tamponati» dalle Iene. Era allora, la droga, un diversivo inconfessabile, un esotico capriccio clandestino, forse un segno di distinzione alla D´Annunzio o alla Pitigrilli; oppure una malattia, o al limite il pretesto di imboscate e ricatti. Mentre oggi sembra piuttosto diventato un oggetto di consumo. Uno dei tanti. Da proibire o legalizzare sul piano delle norme, ma anche un prodotto funzionale a un certo modo di far politica: apparire, sedurre, tenersi su, migliorare la propria performance; un sistema per alleggerire la pressione di un´esistenza super-concitata; una speranzosa, ingannevole risorsa chimica per placare un demone, quello appunto del potere, che rischia di prevalere su qualsiasi altra distrazione. Sotto questo segno si configurano le storia buffe e drammatiche di canne, sniffate, pillole e anche siringhe. Dall´esilarante episodio dei biscottini di «Nonna Canapa», una vecchietta radicale che ne confezionò un vassoio poi misteriosamente svuotato da ignari parlamentari e funzionari all´interno di Montecitorio (alcuni dicono Palazzo Madama), comunque con effetti pazzeschi proprio durante l´approvazione della legge Vassalli-Jervolino. Fino alla tragedia di un giovane e brillante deputato craxiano di Genova stroncato da una overdose nel bagno di casa sua, solo come un cane, dopo tribolazioni, e vergogne, e i consueti impicci finanziari che comporta la tossicodipendenza. Agguati, poi, e strumentalizzazioni, omertà e farsa. Dallo spinello del giovane delfino a Malindi (con tanto di vignette sui quotidiani kenioti: «Ciao Kenya, wonderfulla cannabisa!» gli facevano esclamare) a più di un sospetto di polvere bianca nel caso Vallettopoli numero uno; da un certo tramestio registrato a posteriori nella Villa Altachiara della povera contessa, villa dove pure si tentò di aggiustare sul terreno finanziario l´incombente disastro del Psi, all´ipotetico «zafferano» avventurosamente ritrovato – non s´è mai capito bene se nel frigo, in cassaforte o in un tubetto di dentifricio – durante una perquisizione a casa del senatore e produttore cinematografico. E si può andare avanti parecchio, perché con gli anni la casistica s´è fatta ricca. Dall´indubbia nomea e dalle singolari frequentazioni di un assai promettente vice-ministro all´economia a quelle di un ex sottosegretario udc habituè dei locali notturni, per gli spacciatori «Pino il politico». Per arrivare, in gloria, a un ultraottantenne ex costituente e insospettabile senatore a vita, fin troppo arzillo, e tuttavia come gli altri meritevole di rispetto, o forse di umanità. E insomma, per dirla tutta: anche senza i tamponi delle Iene (e di quell´altra droga traditrice che è il video); anche senza le ambigue confessioni adolescenziali su spinelli sfumacchiati in Giamaica o sui prati di Bologna; anche senza criptiche e torve minacce o le patetiche messe di mani avanti; anche senza le auto-confessioni che a partire dal 1988 aprono squarci sul tema droga & Palazzo; ecco, per chi abbia speso qualche tempo a guardare nelle pieghe della vita pubblica ce n´era, anzi ce n´è davvero quanto basta per sospettare un uso, una consuetudine, un costume abbastanza diffusi. Decisamente troppo diffusi per una classe politica che a maggioranza mesi orsono ha approvato una legge che non solo proclamava «tolleranza zero», ma era del tutto inapplicabile. Una legge a suo modo drogata. Una legge da «tamponare» presto anche lei: a 60 anni, ormai, dall´infelice avventura dell´onorevole Cocò. (di Filippo Ceccarelli)
(da Dagospia – www.dagospia.com – 11 Ottobre 2006)
4) Rassegna Stampa: «Crociate, roghi e pasque di Sangue» secondo Cardini
► Fin dal IX secolo si diffusero nell’Europa cristiana strane e inquietanti storie. Il primo a segnarle fu un saggio ecclesiastico franco, Sant’Agobardo di Lione. Si trattava di dicerie riguardanti bambini cristiani presi in ostaggio o addirittura rubati dagli ebrei alle loro famiglie e spesso orrendamente seviziati, di solito in coincidenza con le festività pasquali. Verso il XIII secolo, queste leggende presero ancora maggiore consistenza: mentre la Chiesa insisteva sulla realtà del miracolo eucaristico, diveniva sempre più frequente che bambini cristiani scomparissero e si dicesse poi che erano stati torturati e dissanguati dagli ebrei. Come se, per vendicarsi di quel Dio che era stato bambino e nel quale non credevano, i giudei si dessero alle sevizie sui corpi dei figli di coloro che a Gesù erano fedeli. Arrivò poi il Trecento, il tempo della grande crisi, della peste nera, della paura diffusa. Venne poi il Quattrocento, il secolo della grande avanzata turca nei Balcani e nel Mediterraneo. La Cristianità aveva sempre più paura: ed erano sempre più frequenti le accuse alle comunità ebraiche, le quali venivano rese responsabili per esempio della diffusione delle malattie contagiose. Contemporaneamente, le storie sui bambini scomparsi e massacrati divenivano sempre più correnti; e i grandi predicatori medievali, i “divi della penitenza”, contribuivano potentemente a diffonderle. Fu proprio all’indomani della predicazione di uno di questi antenati dei mass-media, il francescano Bernardino Da Feltre (in un dipinto di Giovanni Spagna del secolo XVI), che nel 1475 a Trento si “trovarono le prove” del fatto che la locale comunità ebraica, in coincidenza con le sue festività pasquali, aveva seviziato e ucciso un bambino cristiano, il piccolo Simone. I presunti responsabili furono tutti catturati, interrogati, torturati secondo gli usi del tempo: e naturalmente confessarono. Furono condannati a morte. Non era l’unico caso. Paolo Uccello, uno dei più grandi pittori del XV secolo, ci ha raccontato una storia abbastanza simile, dove però gli ebrei torturano non un bambino, ma un’ostia consacrata dalla quale sgorga sangue umano. La storia miracolosa termina in un salutare rogo dei profanatori. Storie del genere furono raccontate a lungo e si accordò loro una qualche credibilità. Fino a pochi anni orsono, nel duomo di Trento, c’erano una cappella e un altare dedicati al piccolo martire “San Simonino”. Il culto è stato recentemente abolito dalle autorità ecclesiastiche. Il fatto è che storie del genere nascevano dall’odio, dalla paura, dal senso di colpa trasformato in rancore. Gli ebrei erano in realtà accusati di concrete colpe, come quella di prestare danaro per usura. Per la verità, come banchieri essi erano molto più corretti dei loro colleghi cristiani: ma era proprio questo il punto: facevano concorrenza, davano fastidio. Inoltre, evidentemente la Cristianità in cerca di un suo forte radicamento identitario sopportava sempre meno questo “nemico interno” che era costituito dalle comunità ebraiche. Alla fine dell’XI secolo, i pellegrini in partenza per quella strampalata spedizione che noi conosciamo come “Prima Crociata” si dettero al massacro delle comunità ebraiche incontrate lungo la loro strada, fra la Germania e l’Ungheria. Gli ebrei venivano messi davanti a un dilemma: o accettare il battesimo o essere uccisi. Molti di loro scelsero eroicamente la seconda soluzione. Non si contano poi, durante il Medioevo e l’Età Moderna i casi di conversione forzata. Le leggende relative ai bambini cristiani rapiti e massacrati erano evidentemente un orribile alibi per le violenze che i cristiani imponevano agli ebrei. O meglio, così si è sempre pensato: e, senza dubbio, così pensando così si è colto nel segno. Non è un caso che i secoli della persecuzione contro gli ebrei coincidano quasi esattamente con quelli della persecuzione contro le streghe e contro gli eretici: in altri termini, insomma, siamo davanti a un lungo momento di crisi, che nella nostra Europa toccò l’apice fra il XIV e XVII secolo, razionalizzare le sventure che si stavano abbattendo sul continente bisognava che qualcuno avesse pur colpa, se le epidemie e le carestie si avvicendavano e se i turchi stavano conquistando tutto il Mediterraneo. Ma la storia riserba sempre delle sorprese. Forse è vero che essa ha delle regole: ma è non meno vero che, è proprio per questo, parecchie sono le eccezioni. Uno studioso ebreo italiano, ormai da anni trapiantato da anni in Israele, ha riesaminato le carte dell’episodio trentino del 1475. Ariel Toaff, docente in una nota università israeliana e figlio di quell’Elio Toaff che per molti anni fu Gran rabbino della comunità romana, ha tutte le carte in regola per potersi porre l’inquietante interrogativo che in effetti non ha esitato a porsi. O meglio, forse ha esitato e come: ma la sua coscienza di storico e la sua etica di studioso non potevano condurlo a sfidare i luoghi comuni. Secondo Toaff, quindi , non è sicuro che San Simonino sia stato veramente martirizzato dalla comunità ebraica locale: però non si può nemmeno escluderlo. E il caso vale anche per altri episodi. Perché? Il perché è purtroppo estremamente semplice. A volte, questi casi di assassinio rituale appaiono corredati da prove abbastanza allarmanti. Il fatto che, in alcuni casi, si siano verificati episodi orribili non comporta nessuna colpa, nessuna responsabilità collettiva. Ma, seguendo il ragionamento di Toaff, il punto è che la mostruosità, l’orrore, non sono patrimonio esclusivo di nessuno; e d’altra parte nessuno può dirsene immune. Perché non ritener possibile che anche all’interno della comunità la paura e l’odio nei confronti dei persecutori non abbiano generato in qualcuno il desiderio di vendetta, il folle disegno di una rivalsa sulla carne di un innocente per rivendicare in qualche modo i tanti innocenti uccisi o umiliati dall’altra parte? Nessuno storico ha il diritto di indietreggiare dinanzi a domande del genere. Chi si occupa di storia deve ristabilire la verità, naturalmente secondo il suo potere di convincimento e le sue capacità di ricerca. Ma d’altra parte non si sfugge alla legge dell’impatto della verità passata sulla realtà presente. Toaff ci dà quindi una salutare lezione di coraggio civile e di libertà. Naturalmente, il cammino non è sgombro. Nasceranno polemiche a non finire. Ma il coraggio intellettuale dello studioso italo-israeliano è stato davvero esemplare. Occorre continuare a studiare, serenamente, rigorosamente, ma senza dimenticare che l’indagine storica può e deve essere anzitutto scuola di verità ed esempio di libertà.
(Franco Cardini, «La Nazione» del 20 febbraio 2007)
La frase:
«I fatti sono la cosa più testarda del mondo».
Michail Bulgakov
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