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La Guerra dei 30 anni, tante guerre in una sola

Giusto quattrocento anni fa in Europa scoppiava uno dei conflitti più lunghi e sanguinosi della storia occidentale: tre decenni di guerre e tra i cinque e i dieci milioni di morti. In realtà quello scontro continentale su solo un momento della lotta per l’egemonia sull’Europa. A contendersi il potere gli Asburgo e i Borbone. A farne le spese soprattutto a Chiesa cattolica

di Aldo A. Mola da Storia in Rete n. 152

La prima buona notizia è che quella guerra non durò trent’anni, ma due secoli. La seconda è che a uscirne disfatte furono la Chiesa cattolica apostolica romana e la speranza di ricomporre l’unità dell’ecumene cristiana, già lacerata dalla separazione degli «ortodossi» dai papisti. La terza è che da quella guerra i tedeschi rimasero intossicati per quattro secoli e per molti aspetti lo sono ancora. Sotto il loro curioso federalismo cova l’imperialismo: è il nicodemismo del pangermanesimo. Ha ragione il presidente francese Emmanuel Macron quando mette in guardia dalla potenziale guerra civile serpeggiante in Europa. Il presidente francese dovrebbe però aggiungere che Parigi ha la sua enorme parte di responsabilità. Oggi come ieri, nella plurisecolare lotta per l’egemonia sul Vecchio Continente, finita nel peggiore dei modi: con il vuoto nell’Europa Centrale e la morte in culla del sogno di una civiltà superiore: quello cullato dai Rosa+Croce, l’utopia coltivata da una ristretta cerchia di magi, senza alcuna cometa, né una capanna, né un salvatore. Secondo lo spirito dei tempi la redenzione andava cercata sulla Terra, con la ragione. Nell’infuriare di atrocità e pestilenze per la terza volta si affacciò così in Europa la Gnosi. Ma quei cenacoli di saggi, con un piede nella ricerca avanzata e uno nel mistero dell’alchimia, rimasero soccombenti. Ripiegarono nell’occultismo, tra astronomia e astrologia. L’Europa ne fu inondata, secondo alcuni «infetta». Ma basta osservare la facciata di una cattedrale dell’epoca, un castello turrito, un orologio, il fregio di un mobile, dalle biblioteche a tutta parete a una poltroncina barocca, per capire il conflitto insanabile tra Alto e Basso, tra Luce e Tenebre, tra santità e diabolica perversione di quei decenni luminosi e infernali.

Secondo i demografi più prudenti la Guerra dei Trent’anni costò all’Europa centrale almeno cinque milioni di morti. Per altri le vittime sommarono a 8-10 milioni e forse più. Non tutti furono ammazzati in battaglia o per gli effetti collaterali del transito di eserciti che vivevano di quanto trovavano per via. Le armate partivano attrezzate di tutto (viveri, famiglie, preti, prostitute…) ma impiegavano mesi a raggiungere la meta. A volte vi arrivavano dopo un cambio di alleanze del loro Stato. Quindi spogliavano i territori a portata di mano, nell’attesa famelica del bottino finale. La maggior parte delle truppe era composta da mercenari, capitanati da condottieri che si battevano anzitutto per se stessi. Il compenso per le loro imprese vittoriose era l’assegnazione in feudo di una provincia delle terre conquistate. Lo Stato era labile. L’Italia ne sapeva qualche cosa da oltre un secolo: invasione dei francesi di Carlo VIII (1494), conquista del Mezzogiorno da parte degli spagnoli, guerra franco-asburgica nella pianura padana (battaglia di Pavia, 1525), Sacco di Roma (1527), assedio di Firenze (1530)… E poi il Trattato di Cateau-Cambrésis (1559) che significò per la Penisola tre secoli di asservimento, chiusi solo con la Seconda guerra per l’Indipendenza (1859) e con il «miracolo» della (parziale) unificazione nel regno di Sardegna (1861).

La Guerra dei Trent’anni inizia ufficialmente il 23 maggio 1618 quando a Praga i messi di Ferdinando d’Asburgo, nominato re di Boemia dal sacro romano imperatore Mattia (suo cugino, privo di discendenti diretti maschi) vennero gettati dalla finestra del Castello. Caddero su un letamaio e sopravvissero malconci. La «defenestrazione di Praga» fece esplodere una crisi che covava da decenni. Le guerre di religione all’interno dei singoli Stati contenevano quella tra gli Asburgo e la Francia, passata dai Valois ai Borbone, ma sempre ferma nella lotta per spezzare l’accerchiamento da parte dei due rami della Casa avversa: gli Asburgo di Spagna (Filippo II e i suoi discendenti), padroni di gran arte dell’Italia e delle Fiandre (teatro a loro volta di ottant’anni di conflitti), e quelli «d’Austria», forti della Corona imperiale, passata da Carlo V a suo fratello Ferdinando I e da questi a Massimiliano II, a Rodolfo II (1576-1612) e al di lui fratello, Mattia (1612-1619). Ferdinando II (1619-1637) e i suoi discendenti (Ferdinando III, 1637-1657, Leopoldo I, 1657-1705 e Carlo VI, 1711-1740) ne continuarono la politica, sia contro la Francia sia contro l’avanzata dei turchi-ottomani, che cessarono di costituire un pericolo vero solo con le smaglianti vittorie di Eugenio di Savoia tra Sei e Settecento. Dal canto loro i «re cristianissimi» di Francia, come già si erano alleati con i turchi contro Carlo V, così si schierarono con i protestanti contro gli Asburgo.

Le premesse ideologico-religiose della Guerra dei Trent’anni ha nella riforma luterana e in quella calvinista. Il metodo della sua conduzione venne prefigurato dallo sterminio degli anabattisti, massacrati sino alla loro completa estinzione. A metà Cinquecento la Riforma, in tutte le sue varianti, non alimentò la libertà di culto. Moltiplicò ed esasperò le divisioni. Con il Concilio di Trento i cattolici divennero più fervorosi di prima. A loro volta i luterani si irrigidirono. Gli anglicani rimasero circoscritti all’Inghilterra. I seguaci di Giovanni Calvino vennero tenuti ai margini della pace, invisi a Roma come ai riformati. Molti boemi erano fedeli alla piccola «eresia» di Jan Huss, arso vivo come tra i molti narrò, nel 1913, il suo estemporaneo biografo Benito Mussolini, in «Huss il veridico»[ripubblicato nel 2006 nella collana «I Martiri del Libero Pensiero»; ed. anastatica, con pref. dell’autore di questo articolo e una nota di Giovanni Oggero, Arktos NdR]. A differenza dei calvinisti, sparsi senza continuità territoriale, gli hussiti erano arroccati in una sola area: in quanto tali non dettero soverchio fastidio. La loro tragedia esplose quando divennero la tessera di un mosaico bellico generale, iniziato apparentemente per caso e in un teatro secondario ma presto divenuto un vortice capace di risucchiare eserciti e Stati sino a quel momento periferici.

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Gli storici hanno faticato e ancora si affannano nell’individuare il bandolo univoco del conflitto che ancora oggi chiamiamo dei «Tren’anni» (1618-1648), scandito nelle fasi boemo-palatina (1618-1624), danese (1625-1629), svedese (1630-1635) e francese o franco-svedese (1635-1648), sino alla elaborazione di una pace che richiese cinque anni di trattative e venne firmata in due città della Westfalia, Munster e Osnabruck (15 maggio-24 ottobre 1648). L’intervento della Svezia guidata inizialmente dal re Gustavo Adolfo Vasa morto nella pur vittoriosa battaglia di Lutzen (16 novembre 1632), e poi dal suo cancelliere Axel Oxenstierna in nome della regina Cristina, di appena sei anni, mostrò che i confini dell’Europa di stavano ampliando (in Russia ascesero i Romanov, decisivi nel secolo seguente) e che la guerra (strategia, logistica, qualità dei mezzi di combattimento…) si ammodernava. Ma una riflessione disincantata separa la propaganda retorica dalla realtà: gli sviluppi tecnologici sarebbero stati possibili senza lo spaventoso costo umano comportato dalla follia di condottieri quali i cattolici Tilly (che nella sola Magdeburgo fece massacrare 24 mila abitanti) e Wallestein? A tacere della Montagna Bianca, ove l’8 novembre 1620 i boemi vennero sconfitti e cancellati dalla storia come Stato per i successivi tre secoli. In tempi recenti altrettanta retorica è stata spesa a lode delle innovazioni introdotte dalla Grande Guerra del 1914-1918: dall’orologio da polso, più pratico della «cipolla» da taschino, al reggiseno, adottato dalle donne irreggimentate nelle industrie ausiliarie al posto dei corsetti che ne intralciavano i movimenti.

La pace di Westfalia fu la prima nell’Europa centro-occidentale a ignorare la Santa Sede e, in specie, le proteste di papa Innocenzo X per la spoliazione di quasi tutti i vescovadi e di molti monasteri della Germania nord-orientale (quelli nord-occidentali erano da tempo passati a riformati o ad evangelici). Secondo alcuni storici, quella guerra ebbe anche una «fase italiana» (1628-1631) per la successione del ducato di Mantova e la guerra nel Monferrato, reiteratamente evocata da Alessandro Manzoni nei «Promessi Sposi»(maperlapeste, più che per la «guerra del Casale»). Questo, in realtà, fu un conflitto marginale, chiuso con la pace di Cherasco (6 aprile 1631), con il quale la Francia del cardinale Richelieu impose a Mantova il proprio candidato e il possesso di Pinerolo, piazza militare di rilievo strategico perché «incombente» su Torino. Di fatto l’Italia rimase ai margini della guerra e visse la lunga età di pace che fa del Seicento italiano un «secolo d’oro», al pari della Spagna, in un ‘epoca altrove «di ferro», come avvenne per la Germania, demograficamente spossata e politicamente polverizzata.

Concentrati nel loro duello mortale, i Borbone di Francia e gli Asburgo di Madrid e di Vienna non percepirono le trasformazioni in corso in Inghilterra, dove Oliver Cromwell, fece decapitare Carlo I Stuart (1625-1649) e, asceso a lord protettore, con l’Atto di Navigazione piegò l’Olanda, si procacciò la Nuova Amsterdam (ribattezzata New York), la Giamaica, Città del Capo e candidò la Gran Bretagna a potenza marittima mondiale. Non se ne ebbe percezione né nella pingue Genova di Ambrogio Spinola né nella Repubblica di Venezia avviata al lento crepuscolo. La vera modernizzazione scaturita dalla guerra fu filosofica e politica: l’avvento degli Stati, il pensiero neo-machiavellico, i primi passi del liberalismo e il razionalismo di René Descartes (1596-1650), il filosofo che voltò pagina insegnando idee «chiare e distinte» e il «cogito ergo sum», germe della liberazione dalle superstizioni. Morì a Stoccolma, due anni dopo la pace di Wesftalia, ove si era trasferito su invito della regina Cristina. Aveva appena pubblicato il «Trattato delle passioni dell’anima», controcanto alla follia che aveva dominato l’Europa fin dai tempi della «protesta» di Lutero.

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