L’Italia è la preda grossa. Lo abbiamo già denunciato con il libro “Iconoclastia” continueremo a farlo finché avremo fiato (o finché non arriverà la mannaia della censura a impedircelo, cosa uscita dal regno della fantascienza distopica per entrare in quello delle possibilità concrete). Lo dimostrano le polemiche sorte attorno alla proposta del sottosegretario leghista all’Economia Claudio Durigon (una proposta così maldestra da sembrare quasi un assist a nuovi giri di vite…), e cioè la re-intitolazione del parco di Latina “Arnaldo Mussolini” al suo antico eponimo, rimuovendo la recente, nuova intitolazione ai santi laici della Prima Repubblica, Falcone e Borsellino (Santi laici perché come tutti i Santi che si rispettano, prima gli fanno la festa e poi li gabbano).
La proposta ha fatto stracciare le vesti alla solita sinistra in cerca di ragione sociale, che – come lo zapaterismo spagnolo – è passata dalla difesa dei diritti dei lavoratori alla “creatività” nell’inventarsi nuove battaglie tanto più colorite (e colorate) quanto distanti dalle reali esigenze del popolo. E ora sulla testa di Durigon pende una mozione di sfiducia, che proprio in questi giorni, ci informa il “Corriere”, sta per essere calendarizzata (anche grazie al voto di un forzitalista, Elio Vito).
Come detto, l’iniziativa di Durigon ha fornito nuovo carburante alle asmatiche campagne contro le vestigia fasciste nei monumenti e nell’odonomastica. A battere su questo tasto è la firma di “Repubblica” Simonetta Fiori. Già a luglio (il 7, per la precisione) ci aveva dispensato una lezione sulla “Storia riscritta in silenzio”, sul “revisionismo” di certe amministrazioni di destra. Ora torna alla carica, con “Via dell’Impero? Ancora in fondo a destra” (“Repubblica” del 22 agosto 2021), dove in un’intervista a Giulia Albanese, che cura per l’Istituto Parri un censimento delle vestigia fasciste e coloniali, si stigmatizza la loro persistenza un po’ ovunque in Italia. E ovviamente, la sottotraccia di entrambi gli articoli è che ci si aspetta un’ondata di cancel culture per farne “giustizia”.
La vicenda Durigon e i due articoli della Fiori sono però uniti da un unico fil rouge: la persistente e pervicace falsificazione della storia e della realtà per presentare la cancel culture come giusta e, in finale, inevitabile, un nuovo TINA (there is no alternative) tanto caro al liberismo e agli sceneggiatori con poca fantasia.
Pressoché tutti i media che hanno presentato la questione del parco di Latina hanno accusato Durigon di voler “cancellare Falcone e Borsellino”. In altre parole, fatte le debite proporzioni, è come se si fosse accusato i restauratori della Cappella Sistina d’aver voluto “cancellare il Braghettone“. In alcuni casi è anche stato deliberatamente omesso che il nome originario del parco del capoluogo pontino, fino al 2017, fosse stato quello del fratello del Duce, per far sembrare la proposta del leghista quasi una becerata da rimpatriata nostalgica a suon di vino nero e canti littori in una trattoria folkloristica. L’aspirazione di Durigon di vedere restaurati i nomi dei luoghi dissodati con fatica dal nonno colono veneto nelle Paludi Pontine diventa il desiderio di “omaggiare il fratello del Duce”.
La sottotraccia di tutte queste narrazioni è che il Fascismo – Male Assoluto©®™ – deve essere spazzato via perché – per l’appunto – è il Male. E ci si stupisce di come sia potuto sopravvivere tanto del “Deprecato Regime” mentre, signora mia, invece in Germania, là sì che si è fatta giustizia delle vestigia dell’hitlerismo!
Ed ecco la prima falsificazione della storia: le vicende sociali di Germania e Italia sono radicalmente differenti. La Germania fu occupata, sottoposta a debellatio e la de-nazificazione fu condotta con violenta determinazione dai vincitori anche e soprattutto come forma di ingegneria sociale per forgiare i “nuovi tedeschi”. Anche l’Italia dopo la guerra subì forme d’occupazione e di ingegneria sociale, ma – non essendo stata debellata – non furono così forti come quelle imposte alla Germania. A questo si aggiungono altre due ovvietà che rendono il caso italiano ben diverso da quello tedesco, già trattate in Iconoclastia: la quantità e l’intensità dei bombardamenti alleati subiti, basti confrontare le foto del 1945 di Colonia e Francoforte con quelle di Torino e Milano, con conseguente maggior facilità di intervento demolitore in Germania piuttosto che in Italia. E il fatto che il regime fascista in Italia era durato quasi 23 anni, di cui 18 in tempo di pace. Il nazionalsocialismo era rimasto al potere solo sei anni prima dell’inizio della guerra. Effettuare una epurazione nei confronti di un regime durato lo spazio di una legislatura è un conto, tutt’altra storia procedere contro un regime che è stato protagonista per un’intera generazione, che ha visto l’adesione sincera e spontanea della gran maggioranza degli italiani e delle classi dirigenti e intellettuali. Fare un “processo al Fascismo” nell’Italia del dopoguerra avrebbe significato dover portare alla sbarra milioni di persone. Impensabile. Tant’è che si misero ben presto l’anima in pace in quel senso anche i più giacobini fra gli esponenti della Resistenza, paghi della “resa dei conti” a ferri ancora caldi nella primavera 1945.
Tutto questo, ovviamente, tacendo le immani differenze fra Fascismo e Nazionalsocialismo, la gigantesca sproporzione fra responsabilità dell’uno e dell’altro regime sulle cui dimensioni si sono pronunciati storici del calibro di un De Felice o di un Nolte e che oggi invece la falsificazione storica del succitato Male Assoluto©®™ intende cancellare con un tratto di penna e qualche documentario in stile “Fascist legacy“, nei quali – peraltro – si dimentica che se gli stessi criteri con cui si vorrebbe la damnatio memoriae di un intero ventennio di storia italiana (non semplicemente del “fascismo”) fossero applicati a qualsiasi altro Stato dell’età contemporanea, non resterebbe in piedi un monumento, una targa odonomastica, un toponimo se non in qualche atollo del Pacifico il cui prodotto unico nella storia sono state le collane di fiori per i visitatori.
L’incredulità da vergine violata che quindi i commentatori ostentano nel citare la “persistenza” nel paesaggio urbano di memorie del Fascismo (o del passato coloniale) è nella migliore delle ipotesi ipocrita, nella peggiore ignoranza di come sia trascorsa la seconda metà del XX secolo, quando nessuno si stupiva se questo o quel protagonista della Prima Repubblica avesse avuto la “tessera”. La guerra civile, allora, si era conclusa per tutti, tranne che per lo sparuto gruppo di scemi de guera in tempo de pace che poi fecero la bassa manovalanza e i lavori sporchi per conto terzi durante gli Anni di Piombo. E – oggi – per certi cosplayer dei partigiani, in disperata ricerca del loro “cattivo” con cui interpretare la scenetta alla Fiera del Fumetto.
La sopravvivenza di vestigia di un ventennio di quella intensità e densità all’interno del tessuto urbano è del tutto naturale. Per tacer di quello culturale, dove per quanto si cerchi di “diserbare” il Fascismo in ogni modo non se ne riesce proprio farne a meno, e quelli che di meno possono farne a meno sono proprio i “cacciatori di fascisterie”, senza le quali non avrebbero ragione sociale. Se il Fascismo non ci fosse se lo dovrebbero inventare.
E infatti si inventano campagne come quella dell’Istituto Parri, che impiega le sue risorse per censire strade, piazze e monumenti ancora dedicati a esponenti del Fascismo: in realtà semplicemente la rielaborazione di un lavoro online già dal 2017. Un’operazione con tanto di “comitato scientifico” per donargli un velo di autorevolezza. I nomi “affliggono la memoria” – scrive la Fiori – e pertanto è “necessario” procedere a rinominare i luoghi.
Peggio ancora, si procede anche nella guerra ai morti. Dopo la Seconda guerra mondiale non si negò ai fascisti uccisi né una tomba né il diritto a chi era rimasto di ricordarli. Nessuno ha mai pensato di buttar giù i monumenti ai martiri fascisti della Rivoluzione nemmeno nel 1943-45. Al più qualcuno dei monumenti più “evidenti” è stato “risignificato” come quello alla camicia nera Ines Donati, con la rimozione della sua statua a San Severino Marche facendolo diventare un generico monumento ai caduti (e poi c’è chi si lamenta dei pochi monumenti alle donne in Italia…). Da qualche anno, invece si vuole perfino impedire la pietas verso i caduti. La pacificazione che a fine millennio sembrava a portata di mano con tanto di canzone di De Gregori è svanita nei primi anni Duemila sotto la viscida retorica del Male Assoluto©®™ e il terrore di dover assistere a un bis di riconciliazione, umanità e comprensione come ebbe Eschilo ne “I Persiani” ha partorito una sequela di ordinanze, denunce e sentenze per rendere sempre più difficoltosa ai nostalgici la memoria verso quei morti sempre più lontani.
Ma ora la finestra di Overton pare allargarsi. Non sono solo i morti “fascisti” a urtare la sensibilità dei cosplayer della lotta partigiana. Ora sono anche i caduti nelle guerre d’Africa a rendere insonni le loro notti. E perfino il Museo della Piccola Caprera di Ponte sul Mincio, nei pressi di Mantova – un vero inno alla cameratesca pacificazione fra ex nemici, a guerra finita – diventa oggetto di scandalo, perché “contribuisce ad alimentare una memoria condannata dalla storia”.
Già, perché la storia loro se la sono comprata. E’ cosa loro. E la smontano e rimontano a piacimento. Salvo poi incorrere in clamorosi sfondoni.
Come fa la targa in plexiglas affissa dal comune di Palazzolo Acreide (Siracusa), che evidentemente in mancanza di più serie incombenze amministrative ha pensato di apporre vicino alla lapide che ricorda le Sanzioni del 1935. La targa recita:
La lapide posta sopra venne collocata sulla facciata di questo Palazzo Comunale e di altri Comuni italiani in segno di protesta contro le cosiddette “sanzioni” economiche e commerciali imposte all’Italia dalla Società delle Nazioni per l’invasione dell’Etiopia nel 1935. La stele tentava di giustificare la sottomissione di una nazione libera, l’Etiopia, da parte del regime fascista, in contrasto con i Valori e i diritti universali oggi sanciti dalla nostra Carta Costituzionale.[…] |
Al di là del periclitante italiano, al di là delle “cosiddette sanzioni”, giova notare come nella Storia “cosa loro” l’impero negussita d’Etiopia fosse una “nazione libera” nel senso corrente del termine. Una falsificazione della realtà, laddove l’Etiopia non era né nazione né libera. Era un impero coloniale, dove vivevano due milioni di persone in catene (la schiavitù venne abolita dai fascisti solo nel 1935), dove un’etnia centrale (scioani) si era espansa colonialisticamente e imperialisticamente sulle etnie circostanti (galla, tigrini, somali etc.) e che tale si sarebbe rivelata quando, nel 1943, riconquistata l’indipendenza, si pappò l’Eritrea italiana, trattandola con la durezza del più feroce colonialismo per i successivi 45 anni. E pensare che c’è chi oggi vorrebbe celebrare una “giornata contro il colonialismo” (ennesima data di auto-flagellazione per noi bianchi europei) proprio nel giorno della “liberazione” dell’Etiopia da parte degli inglesi. Liberazione che – come sempre nella storia – ha significato schiavitù, oppressione, guerra per altri.
E’ dunque su una falsificazione continua e totalmente interiorizzata della storia che tutta questa narrazione si regge. Nessuno può sostenere che una lapide come quella fascista sulle Sanzioni non fosse “retorica”, anche “insopportabilmente retorica” se volete. Ma quella retorica era una interpretazione della realtà e non un suo stravolgimento. La realtà era che l’Italia aveva fatto una guerra coloniale e che altre nazioni coloniali hanno reagito con le sanzioni. E la lapide si lamentava di questo, aggiungendo – retoricamente ma non falsamente – che tutte le nazioni del mondo hanno un debito verso l’Italia e la ripagano con l’ingratitudine. Al contrario, la targa di “contestualizzazione” apposta dal comune di Palazzolo Acreide non interpreta, ma falsifica i fatti. Così come è una falsificazione – giornalistica e non storica – quella di voler far passare l’iniziativa di Durigon come un attacco a Falcone e Borsellino. Ed è falsificazione voler considerare “fascisti” tutti i caduti nelle guerre combattute dall’Italia nel Ventennio, in Africa o in Spagna. Ed è falsificazione parlare di un’Italia che “non ha voluto fare i conti col passato”, perché 40 anni di storia della Prima Repubblica stanno là a testimoniare che i conti erano stati fatti, eccome, e che antifascisti di caratura *un pochino* superiore a quella degli attuali loro cosplayer avevano ritenuto di poter chiudere la partita senza infierire ulteriormente sul nemico sconfitto. Non foss’altro perché era una fetta enorme di italiani con la quale bon gre mal gre avrebbe dovuto convivere e lavorare gomito a gomito per la ricostruzione, come poi è felicemente avvenuto. E come oggi si vorrebbe cancellare, vedasi le querelle sulle vie intitolate o da intitolare a Giorgio Almirante.
Falsificare e vivere in un mondo di bugie è la cifra dell’attuale movimento woke, che sia in Italia fra i cosplayer della Resistenza in assenza di Fascismo o in Spagna fra gli zapateriani iconoclasti col piccone pronti a distruggere la Valle dei Caduti o in America, dove il movimento woke trae origine e vigore, all’interno dei campus universitari. E vivere in un mondo di menzogna costa fatica, perché la dissonanza cognitiva comporta il continuo sacrificio della realtà fattuale a beneficio della narrazione ideologica in cui ci si ostina a sguazzare. Lo si vede nell’isterismo con cui poi i social justice warrior reagiscono alle obbiezioni che la logica, la documentazione e la semplice onestà intellettuale portano continuamente loro. L’isterismo porta al fanatismo e il fanatismo, quando arriva al potere, diventa oppressione e caccia alle streghe. Mala tempora currunt sed peiora parantur.
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