Il nome di Kronstadt oggi dice poco o nulla alla maggior parte delle persone, mentre, fino agli anni Settanta del secolo scorso (quando fioriva la critica da sinistra dell’URSS), evocava la prima grande rivolta (febbraio-marzo 1921) contro il potere comunista sovietico scatenata non da ‘reazionari’ o militari bianchi (la guerra civile era finita), ma da militanti rivoluzionari che erano stati la punta di diamante nella rivoluzione (o colpo di Stato) dell’Ottobre 1917. I rivoltosi erano infatti i marinai della flotta del Baltico e gli operai dei cantieri navali della base costruita sull’isola di Kotlin, a 20 miglia da Pietrogrado (Pietroburgo), nocciolo duro della guardia rossa dei giorni dell’insurrezione.
Ma se contro i contadini il potere comunista poteva invocare lo spirito ‘reazionario’ e ‘retrogrado’ delle campagne, nel caso di Kronstadt questa accusa non poteva reggere, perché si trattava di militanti rivoluzionari della prima ora, di provata fede, che avevano il solo torto di invocare il rispetto del programma con cui erano andati al potere i bolscevichi nel 1917. Il movimento si collegava agli scioperi che si erano sviluppati nelle fabbriche di Pietrogrado: scioperi che non si erano limitati a portare avanti rivendicazioni economiche, ma avevano chiesto la riconvocazione dell’Assemblea Costituente (sciolta dopo l’Ottobre), la fine della dittatura del Partito comunista e il ritorno del potere ai Soviet liberamente eletti.
Le richieste dei marinai si mossero nella stessa direzione con un documento approvato il 1° marzo dall’assemblea generale dell’isola: libertà politica per i partiti di sinistra, libere elezioni per i soviet e libertà economica per contadini e artigiani. All’assemblea erano presenti dirigenti comunisti come Kalinin e militanti bolscevichi locali, che cercarono di opporsi ma ai quali non venne torto un capello e vennero lasciati tornare liberamente a Pietrogrado.
Il governo comunista scatenò la propaganda contro i rivoltosi dipingendoli al servizio delle potenze straniere e della reazione, proclamando la legge marziale e arrestando i delegati inviati da Kronstadt in città. Venne anche deciso all’unanimità dal gruppo dirigente (compresi i futuri dissidenti epurati e poi giustiziati da Stalin, come Trotsky, Bucharin ecc., che mai si dichiararono pentiti di quella scelta) di dare l’assalto alla base.
L’attacco scatenato l’8 marzo fallì completamente e, in quella occasione, i rivoltosi commisero l’errore di non portare l’offensiva verso Pietrogrado, cercando la solidarietà degli operai, preferendo invece isolarsi nella base. Vennero quindi mobilitate dal governo nuove truppe provenienti dalle provincie orientali e poco politicizzate, e tra il 16 e il 17 marzo venne scatenata una nuova offensiva con 50 mila uomini contro i 15 mila di Kronstadt.
Il 18 la rivolta era domata nel sangue. Molti marinai si rifugiarono nella vicina Finlandia, ma la maggior parte perse la vita nella repressione. I capi vennero passati subito per le armi, la maggior parte dei rivoltosi venne inviata nei gulag, già pienamente efficienti, e altri vennero dispersi in altre basi. Ma l’allarme era suonato forte e chiaro. Il governo decise quindi di allentare le restrizioni del comunismo di guerra in economia e lanciò la NEP (Nuova politica economica) senza nulla concedere però sul piano politico.
Kronstadt intanto era diventata un simbolo della lotta contro la dittatura comunista. Quella dittatura che Lenin aveva illustrato molto chiaramente in uno scritto di pochi mesi prima, nell’ottobre del 1920: «Il concetto scientifico di dittatura – spiegava – non implica altro che un potere illimitato, non circoscritto da alcuna legge, da alcuna norma, direttamente fondato sulla violenza. Nient’altro che questo significa il concetto di ‘dittatura’». Parole chiare che avrebbero ispirato la politica comunista nei settanta anni successivi.