HomeIn primo pianoIl generale Graziano: «Caporetto, una sconfitta non una disfatta»

Il generale Graziano: «Caporetto, una sconfitta non una disfatta»

Lo scorso 21 ottobre Aldo Cazzullo ha intervistato per il “Corriere della Sera” il generale Claudio Graziano, già capo di stato maggiore dell’Esercito italiano e capo di stato maggiore della Difesa dal 28 febbraio 2015. «L’errore del comandante Cadorna è stato quello di incolpare i suoi soldati» ha dichiarato il generale.

dal Corriere della Sera del 21 ottobre 2017

Generale Graziano, lei comanda le forze armate italiane. Che cent’anni fa, a Caporetto, vissero la loro disfatta più terribile.
«Non fu una disfatta. L’8 settembre fu una disfatta».

E Caporetto? 
«Fu una gravissima sconfitta. Che portò alla vittoria. Senza Caporetto non ci sarebbe stata Vittorio Veneto. L’esercito si riprese. Accadde una cosa mai accaduta, né prima né dopo: il Paese intero scese in guerra. E, brutto a dirsi, cominciammo a odiare il nemico. Capimmo che era in gioco la sopravvivenza dell’Italia. Fu la nascita, o la rinascita, della nazione».

Com’è stato possibile il crollo?

«C’erano i tedeschi. Le forze imperiali germaniche furono fondamentali nello sfondamento. Due mesi prima sulla Bainsizza eravamo andati vicini a vincere la guerra, anche se non ce n’eravamo accorti. Alla spallata successiva l’Austria sarebbe crollata; per questo chiese aiuto alla Germania».

Quale fu la responsabilità di Cadorna?
«Il comandante in capo è sempre il primo responsabile; anche se Capello, il comandante della seconda Armata, non mise in atto tutte le prescrizioni. C’era stata una regressione nella qualità di comando. Mancò il controllo dell’artiglieria».

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Come mai i cannoni di Badoglio tacquero?
«La commissione d’inchiesta fu severa con tutti tranne lui, che al fianco di Diaz stava riorganizzando l’esercito. Ma a Caporetto sbagliò: non riuscì a far arrivare l’ordine di aprire il fuoco, e i suoi ufficiali non avevano l’autonomia che avevano i pari grado tedeschi».

Quali sono le altre cause di Caporetto?
«Venne usato il gas. Non vi fu la percezione del disastro: era una giornata di nebbia e pioggia. Le prime linee combatterono. Poi le retrovie crollarono. La stanchezza per due anni e mezzo di “inutile strage”, la propaganda disfattista, gli effetti della rivoluzione russa: queste percezioni filtravano. Purtroppo Cadorna non colse quella stanchezza morale».

I soldati andavano all’assalto piangendo.
«Sull’Ortigara, nell’offensiva del ‘17 sull’Altipiano di Asiago, si comprese che era finita la fase eroica delle prime battaglie. I fanti andavano alla morte rassegnati. Eppure continuavano ad attaccare, con un’abnegazione ammirata più dai nemici che dagli alleati, come i francesi, che continuavano a criticarci».

Ci sono troppe vie dedicate a Cadorna?
«Cent’anni dopo non si può mettere in discussione la memoria. Ho studiato la personalità di Cadorna alla Scuola di guerra americana. Era un uomo rigido, con problemi di comunicazione e poca capacità di empatia. Ed era un comandante vigoroso, che seppe gestire due momenti fondamentali: fermò la spedizione punitiva sugli altopiani, e preparò le linee sul Piave e sul Grappa, dando sia pure in ritardo gli ordini che hanno permesso di salvare il Paese. L’elemento negativo fu la tentazione iniziale di dare la colpa di Caporetto ai soldati. Questo un capo non può farlo. Mai. I soldati caduti o che stanno combattendo li devi sostenere. Rimpiazzare chi ha ceduto, ricreare il morale. Purtroppo il generale delle battaglie non ha mai saputo diventare il generale della vittoria».

È giusto riabilitare i fucilati?
«Nessun Paese l’ha fatto. Gli inglesi hanno decretato un “perdono collettivo”. All’epoca il senso della vittoria prevaleva su altri sentimenti; il codice militare risaliva all’800 ed era molto rigido; ci furono eccessi nell’applicazione della pena di morte. Nei momenti di crisi c’era l’esigenza di mantenere la solidità dell’esercito».

Ci furono fucilazioni di massa.
«Infatti è giusto distinguere tra i processi celebrati regolarmente, dove non ci può essere revisione di giudizio, e le esecuzioni sommarie. Tra chi ha commesso il fatto rischiando di mettere a rischio la stabilità del fronte, e le vittime delle decimazioni. Tra chi ha combattuto e chi è fuggito. I friulani e i veneti delle terre occupate videro soldati battersi per proteggerli e altri ritirarsi. Oggi noi dobbiamo riconoscere il giusto merito ai valorosi, e pensare con pietà a tutti i caduti. Una forma di rispetto nazionale».

Ma quella guerra era meglio non farla.
«Non potevamo non farla. Tutti i Paesi europei, le potenze ma anche gli Stati balcanici, stavano combattendo. E noi non eravamo isolati come la Spagna. Prima o poi saremmo stati coinvolti».

Come spiega la rinascita sul Piave? 
«Tutto accade in pochi giorni. La linea tiene sul Grappa. Il 16 novembre nella battaglia di Fagaré entrano in linea i ragazzi del ’99, accanto ai fanti della Terza Armata ritiratisi dal Carso. Quella prima vittoria fu un raggio di luce nel momento della disperazione. A dicembre la grande battaglia d’arresto sul Piave era vinta. I tedeschi ritirarono i loro contingenti».

Come fu possibile?
«I fanti compresero che la sconfitta non avrebbe portato la pace, ma la disgregazione nazionale. Realizzarono che non c’era altra via che resistere e vincere. Combattevano per salvare le loro famiglie e il Paese. Fu anche merito del vecchio capo, che aveva costruito linee e riserve. E poi per la prima e unica volta nella storia l’esercito ebbe dietro tutto il Paese. Comincia la guerra totale, animata da una totale volontà di vittoria. Le fabbriche costruiscono più aeroplani nell’anno tra Caporetto e Vittorio Veneto che in tutta la seconda guerra mondiale. Le donne dimostrano di saper fare gli stessi lavori degli uomini, magari meglio. Si impongono regole militari anche ai civili. E si sviluppano l’odio e l’aggressività verso il nemico».

Fino a quel momento non odiavamo gli austriaci?
«No, tranne alcuni di noi. I bergamaschi, intrisi di cultura risorgimentale e garibaldina. I valdostani, considerati i soldati perfetti: rudi montanari e cacciatori, da sempre erano la guardia dei Savoia, combattevano gli austriaci da sei generazioni. Infatti bergamaschi e valdostani ebbero la più alta percentuale di caduti. Tutto cambia di fronte allo stupro del Friuli, all’occupazione, alla violenza contro i civili».

Nella seconda guerra mondiale l’Italia non ritrovò quello spirito.
«No. L’Italia entrò in guerra convinta che fosse già finita, senza capirla, senza sapere quel che stava facendo. Poi arrivò l’8 settembre. Badoglio, che si era battuto bene sul Sabotino, sul Piave, in Etiopia, concluse male la sua lunga carriera, lasciando le truppe senza ordini. Quello sì fu un disastro senza rimedio. Ci sono voluti decenni all’esercito per riprendersi».

Quale fu la svolta?
«Libano 1982. Le forze armate italiane, già apprezzate per l’intervento dopo il Vajont, il Friuli, l’Irpinia, tornano a svolgere il compito fondamentale: impugnare le armi per la sicurezza internazionale. Poi vengono il Mozambico, la Somalia, i Balcani, l’Afghanistan, l’Iraq. C’è il riconoscimento identitario delle forze armate come un lavoro importante, che dà prestigio al Paese. Si abolisce la leva perché gli italiani non vogliono più pagarne il prezzo sociale, e anche perché le missioni di pace richiedono militari professionisti».

Anche questo è brutto a dirsi, ma i soldati italiani hanno ripreso a morire.
«Hanno dimostrato che sono pronti a dare la vita per la patria. Da loro viene un fortissimo messaggio etico e di forza morale: ci si mette al servizio di altri Paesi, e dei compatrioti con l’operazione Strade sicure».

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