HomeStoria militareIl centenario anti-italiano: così la cultura sputa sulla Grande Guerra

Il centenario anti-italiano: così la cultura sputa sulla Grande Guerra

La Prima Guerra Mondiale ha segnato il punto più alto raggiunto dall’Italia nella sua millenaria storia. Un esercito inferiore per tradizioni, storia, addestramento, a quello austro-ungarico, considerato il miglior esercito europeo dopo quello tedesco, dopo aver combattuto strenuamente per ben undici offensive era stato sul punto di vincere la guerra senza aiuto degli alleati nel 1917 – tanto che l’Austria dovette chiedere l’aiuto dell’alleato germanico – e, quando venne travolto a Caporetto nell’ottobre dello stesso anno, seppe fermare sul Grappa e sul Piave l’avanzata avversaria, senza aiuto, ancora una volta, dei franco-britannici, e infine vincere nell’ultima offensiva iniziata il 24 ottobre, ad un anno esatto dallo sfondamento a Caporetto.

di Pierluigi Romeo di Colloredo da Il Primato Nazionale del 30 gennaio 2015 IL PRIMATO NAZIONALE

Tutto questo a prezzo di sacrifici enormi, nel Paese e al fronte, al costo di 680.000 morti, infliggendo al nemico perdite superiori alle proprie. La stessa nazione, malgrado momenti di sbandamento, come i tentativi di insurrezione sovversiva a Torino con i socialisti massimalisti ben finanziati dai germanici, e l’opposizione e la sistematica propaganda sotterranea di carattere antinazionale del clero filoasburgico e reazionario, aveva dato un’ottima prova di coesione e di produttività. Soprattutto aveva smentito il vecchio mito degli italiani che non si battono. Si erano battuti, ed avevano vinto: quella stessa Italia che sessant’anni prima Metternich aveva definito con divertito disprezzo espressione geografica era riuscita dove avevano fallito Solimano il Magnifico, Federico il Grande e Napoleone, spezzando il collo all’odiata austriaca gallina.

Ci si aspetterebbe che, nel centenario dell’inizio di questo immenso sforzo nazionale, tutto ciò venisse ricordato, e magari posto ad esempio; purtroppo recarsi in una libreria ed esaminare lo scaffale dedicato alla storia contemporanea è, molto spesso, come sollevare il tombino di una fogna ed essere ammorbati da un tanfo di cloaca.

Cloaca antinazionale, spurgo dei peggiori cascami di varia provenienza: dal baciapilismo farisaico dei papisti devoti al beato Carlo d’Asburgo, sino al sinistrume in tutte le sfumature di rosso, o comunque della divulgazione politically correct, sino ad improponibili libercoli a carattere cattolico-secessionista e anti-italiano pubblicati da una casa editrice riminese che mi dà fastidio soltanto nominare.

Il peggio di tutto è la ristampa, di cui proprio non si sentiva il bisogno, del libello di Angelo del Boca, “Grande Guerra, piccoli generali”, UTET, Torino 2015, del quale non salvo nemmeno una pagina.

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Degno figlio di tanto padre (il fustigatore del colonialismo italiano, quello che si scaglia contro il revisionismo… degli altri) da parte mio non dirò cosa penso di chi è capace di scrivere una cialtroneria come che dietro le fanterie che andavano all’attacco c’erano i carabinieri con le mitragliatrici che sparavano su chi si ritirava.

Le mitragliatrici dei carabinieri vengono piazzate dietro le file destinate all’assalto con la disposizione di aprire il fuoco alla schiena dei soldati che avessero appena tardato a gettarsi fuori dalle trincee.

Idiozia copiata pari pari da quanto avveniva nell’Armata rossa a Stalingrado nel 1942, ma che in nessuna, dico nessuna, testimonianza di reduci della Grande Guerra viene riportata. Anche perché, tranne nei deliri del del Boca jr, non è mai avvenuto, anche per l’impossibilità tecnica di piazzare una mitragliatrice in una trincea; né i Regi Carabinieri avevano un numero adeguato di compagnie mitraglieri. Chi volesse farsi quattro risate, o incazzarsi a morte, può comprare l’opera appena citata: di delbocate ne troverà a bizzeffe.

Ma del resto, per taluni autori la realtà storica è un optional. Prendiamo Guido Sgardoli, “Il giorno degli eroi”, Rizzoli 2014, che si inventa una tregua tra italiani e austriaci nel natale del 1917. L’autore ha dichiarato, in un’intervista al Gazzettino: “Non potevamo lasciar passare un centenario come questo senza provare a raccontarlo ai ragazzi. La prima idea era di riproporre la famosa tregua di Natale del 1914 sul fronte occidentale tra inglesi e tedeschi. Poi, però, ho pensato che avrei potuto “inventare” una tregua avvenuta sul fronte italiano collocandola nelle zone originarie della mia famiglia e rappresentative per l’esercito italiano: il Piave del dopo Caporetto, fine 1917”.

Certo. Spieghiamo ai ragazzi che la guerra era un volemose bene di tanti poveri cristi costretti ad ammazzarsi dai generali e dai politici; peccato che alcuni di questi poveri cristi avevano invaso il Friuli e il Veneto orientale, provocando la fuga di duecentoventimila profughi, e saccheggiando sistematicamente le risorse alimentari portando alla fame chi non era riuscito a partire. Magari ai ragazzi andrebbe raccontato che dopo la prima guerra mondiale venne istituita una Commissione d’inchiesta sui crimini compiuti dall’invasore dopo Caporetto. I suoi lavori si conclusero con la pubblicazione del volume “Il martirio delle terre invase”, nel quale si parlava anche dei numerosi stupri subiti da donne italiane.

In seguito, la “Reale Commissione d’Inchiesta” pubblicò le Relazioni sulle violazioni dei diritti delle genti commesse dal nemico in sette volumi, usciti fra il 1920 ed il 1921. Il IV volume dedica un intero capitolo alla ricostruzione delle violenze carnali inflitte a donne italiane da parte dei militari dell’esercito austroungarico: si tratta del capitolo “Delitti contro l’onore femminile”, all’interno del volume IV, L’occupazione delle provincie invase. L’argomento era ripreso nel VI volume, al cui interno si riportavano documenti e testimonianze.

I casi accertati di stupro da parte degli invasori furono 735, ma la relazione medesima ammetteva che ve ne erano stati moltissimi altri sfuggiti, anzitutto per vergogna delle vittime e delle loro famiglie. Gli stupri erano sovente accompagnati da violenze d’altro tipo. Ad esempio, un uomo venne legato ad un palo e costretto ad assistere allo stupro della moglie, prima di venire torturato ed ucciso. Spesso i mariti od i padri vennero assassinati durante le aggressioni sessuali, specie se cercavano di difendere le donne, ma anche in assenza di reazione. In altri casi, furono le donne a venire uccise dopo lo stupro: 53 furono uccise subito dopo, mentre altre 40 morirono giorni o anche mesi dopo in conseguenza delle violenze. Molte altri furono contagiate da malattie veneree. Le violenze avvenivano abitualmente a mano armata ed in gruppo e riguardarono donne d’ogni età, dalle bambine sino a vecchie ottuagenarie. Sovente le madri furono violentate davanti ai propri figli. Bella gente, per giocarci a calcio… e infatti non ci fu nessuna tregua. Il fante, il granatiere, l’alpino conoscevano bene il nemico. L’invasore.

Da tener presente, a solo titolo di paragone, che gli stupri imputati a militari della Wehrmacht in Italia nel periodo 1943- 1945 furono quattro…

Il 25 dicembre 1917, Natale, non è affatto giornata di tregua, ma di lotta intensa e cruenta: è un “Natale di sangue”. La battaglia infuria senza sosta su tutta la linea, soprattutto nel settore degli Altipiani. Anziché pensare ad una tregua, reparti nemici riescono a sfondare le difese italiane a Case Caporai ed infilarsi tra Col del Rosso e Col d’Echele. Gli italiani, fattosi buio, devono cautamente ripiegare sistemandosi lungo la linea Val Chiama inferiore-Col dei Noselari-Busa del Termine-Costalunga-C.Echar. Lo sfondamento nemico a Case Caporai ha un retroscena drammatico: l’annientamento del I battaglione del 78° rgt. fanteria (br. Toscana) ad opera dell’artiglieria nemica. Sopravvissero soltanto un ufficiale e meno di dieci soldati. Il 26 dicembre cessarono del tutto gli attacchi austriaci. Non solo gli italiani, ma anche gli austriaci sono stremati e hanno avuto perdite enormi di uomini e materiali. Ma per carità, non diciamolo ai ragazzi! Inventiamoci una tregua magari con gli alberi di natale e un soldato napoletano (non può mai mancare…) che canta Tu scendi dalle stelle…

Per ciò che riguarda le inorbate vedove dell’Austria [in]felix, pronte a versare lacrimucce biedermeier sulla tomba di quel Francesco Giuseppe che d’Annunzio chiama angelicato imperatore, l’angelo della forca sempiterna mi limito a segnalare Franco Cardini e Sergio Valzania, che ne “La scintilla. Come l’Italia portò alla Prima Guerra Mondiale”, Mondadori 2014, sostengono che a riaccendere le guerre balcaniche, che porteranno ai fatti del giugno 1914, fu l’invasione italiana della Libia e la guerra all’impero ottomano. Tesi non priva di interesse, ma che ignora che semmai ad accendere la scintilla balcanica fu proprio Cecco Beppe, cui nel libro sono dedicate pagine di amore direi quasi necrofilo, con l’annessione manu militari della Bosnia Erzegovina turca nel 1903, sette anni prima della guerra di Libia, compiuta per di più infrangendo gli accordi della Triplice Intesa circa le reciproche aree di influenza nei Balcani, provocando non solo le proteste italiane, ma soprattutto la rabbiosa reazione dei circoli panslavisti serbi e russi: e giova ricordare come capitale della Bosnia fosse una certa Sarajevo.

L’elenco sarebbe lungo, perché la rievocazione della Grande Guerra sembra un fiorire di luoghi comuni più numerosi che in un discorso di Bergoglio – e speriamo che non dedichi un intervento anche a quest’argomento: i poveri fanti proletari mandati al macello da generali psicopatici, le trincee fangose, tutta la fuffa pacifondaia tanto di moda della retorica dell’antiretorica. Del resto, nell’italietta che cancella le piazze intitolate a Luigi Cadorna, più che il libro di Lussu, “Un anno sull’Altipiano” si conosce il film che ne fu tratto, “Uomini contro”, e i suoi contenuti antimilitaristi e antinazionali che Emilio Lussu, interventista convinto e mai pentito, non si era mai sognato di dare al suo romanzo, peraltro politicamente assai schierato. Un piccolo esempio: nel libro Lussu descrive la fuga di un disertore, con i sassarini che fanno tiro al bersaglio cercando di colpirlo con disprezzo e rabbia. Nel film di Rosi nella stessa scena cercano di non colpirlo, e sarà ucciso dal generale Leone quando è quasi giunto sulle linee austriache, gridando kameraden! Come dire, meglio il nemico degli ufficiali. Per un proletario non c’è patria, dopotutto… Un completo stravolgimento della pagina di Lussu.

In effetti il film non piacque a Emilio Lussu, come ricorda Rigoni Stern nella sua prefazione all’ultima edizione Einaudi di “Un anno sull’altipiano”. Lui, Lussu e Rosi andarono insieme a vedere il film. I due scrittori ne uscirono imbarazzati. Stimavano il regista, ma quello cui avevano assistito era davvero uno un capovolgimento del libro. Lussu aveva raccontato i terribili giorni della guerra sull’altipiano di Asiago con efficacia e sensibilità, e con attenzione alla verità storica. Rosi aveva realizzato un film antimilitarista e brutto, che stravolge completamente il senso e il messaggio del libro di Lussu, la cui condanna della guerra ha ben altro valore morale. Qui Rosi indulge ad una facile demagogia pacifista e antimilitarista oggi molto di moda, che rappresenta l’esatto contraltare (ugualmente fazioso e inattendibile) della retorica nazionalista in voga durante il fascismo.

Storicamente l’ufficiale ribelle interpretato da Volonté (arcigno, comunista e rombiballe, come lo definiva Federico Fellini) che Rosi fa fucilare è esistito veramente: ordinò ai suoi uomini di sparare ad un maggiore sconvolto da un bombardamento e uscito fuori di senno che aveva ordinato la decimazione di un battaglione che aveva abbandonata una galleria colpita dall’artiglieria austriaca, fu processato dalla Corte Marziale e… assolto.

Lussu era volontario e decorato con tre medaglie d’argento, anche se ciò non può cancellare la macchia indelebile dell’antifascismo dell’azionista sardo. Almeno per noi.

Non vale la pena di parlare del film che Ermanno Olmi ha dedicato alla Grande Guerra sull’Altipiano di Asiago, “Torneranno i prati”. E’ semplicemente brutto e noioso, e anche qui la storia è totalmente assente. Del resto non mi aspetto molto da un regista che ne “Il mestiere delle armi” fa parlare in bergamasco le truppe pontificie di Giovanni dalle Bande Nere. Ciò che fa capire tante cose è che sia stato presentato nelle nostre sedi diplomatiche e anche ai nostri militari all’estero per commemorare l’inizio della Prima Guerra Mondiale, il 4 novembre 2014. Ciò che lascia perplessi- e nauseati- è come il Governo del Boy Scout militesente (o riformato) scriva, nel comunicato ufficiale, “Anniversario dell’Armistizio”, si noti, non della Vittoria! Non dobbiamo più celebrare la più grande vittoria della nostra Storia, ma un mai avvenuto “armistizio”. L’armistizio di Villa Giusti, ignoranti, fu firmato il 3 novembre! Ma è l’europa che ce lo chiede, quella dei mercati, delle banche, dell’annientamento della storia e dell’identità nazionale, del concetto di Patria. L’europa, non l’Europa. Scrive Orwell che ci controlla il passato controlla il futuro, chi controlla il presente controlla il passato. Oggi come allora, bisogna sentirci in trincea. Non più con il ’91, ma con una penna, un libro, un cervello, con l’azione. Con una Bandiera.

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