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Dalla “parte sbagliata”: vite e morti di collaborazionisti dimenticati

Di Luca Gallesi per Storia in Rete del 3 luglio 2024

Contrariamente a ogni logica, più passa il tempo, più gli avvenimenti della Seconda guerra mondiale, invece di sbiadire nella memoria collettiva, continuano ancora a suscitare emozioni e a dividere le memorie, scatenando forti passioni, nonostante la vulgata abbia irrevocabilmente consacrato i vincitori e condannato i vinti. Una superficiale interpretazione della Storia in bianco e nero non regge, però, a un’analisi più approfondita, come dimostra l’ultimo saggio del giornalista e scrittore Ian Buruma, The Collaborators. Deception and Survival in World War II, (Atlantic Books, pp.308 £10,99). L’autore esamina le vite sregolate di tre collaborazionisti dalla vita particolarmente eccentrica: il viveur finlandese Felix Kernsten, diventato il massaggiatore e confidente personale del capo supremo delle SS Heirich Himmler, a cui propose improbabili adattamenti della soluzione finale; l’ebreo olandese Friedrich Weinreb, che durante l’occupazione dei Paesi Bassi si arricchì millantando piani di fuga per i suoi correligionari grazie alle sue amicizie altolocate tra gli alti ufficiali tedeschi; e la Principessa sino-giapponese Kawashima Yoshiko, che si illuse di poter restaurare la dinastia Manchu sul trono dell’effimera nazione Manchukuo, creata in Manciuria dall’occupante giapponese verso la fine degli anni Trenta.

I tre personaggi sono uniti soltanto da un’ambigua attrazione per l’occupante straniero, attrazione che, sottolinea Buruma, fu comunque ben più vasta e complessa di quanto non si sia voluto far credere nel dopoguerra. Il “mito della Resistenza”, scrive Buruma, fu una menzogna creata per ovvi motivi politici dopo la sconfitta dell’Asse, necessaria soprattutto in nazioni come la Francia o i Paesi Bassi, dove, in effetti, la “Collaborazione” fu molto più estesa di quanto si sia voluto far credere.

La maggior parte dei collaborazionisti, continua Buruma, era composta da persone spinte dalle più disparate motivazioni, dall’ambizione all’idealismo, dal desiderio di potere alla ricerca di emozioni, dal servilismo verso i tedeschi alla paura dei sovietici, fino alla volenterosa accettazione del male minore. Le tre figure descritte nel libro, però non rientrano chiaramente in nessuna di queste categorie, e nelle loro vite troviamo mischiate massicce dosi di ingenuità, opportunismo, avidità, e furbizia, qualità che, almeno nei casi di Kersten e Weinreb, gli permisero di sopravvivere alle epurazioni del dopoguerra. Kawashima Yoshiko, la più idealista, finì, invece, tragicamente e romanticamente, come in fondo aveva vissuto, cullata dall’impossibile sogno di una nazione asiatica dove sarebbero potuti vivere insieme e in pace cinesi, mongoli e giapponesi. Il suo sogno, che si infranse contro la dura realtà della guerra, sopravvive ancora, però, nell’immaginario nipponico. Infatti, la figura della Principessa Kawashima Yoshiko, condannata come criminale di guerra da un tribunale cinese e giustiziata nel 1948 con un colpo alla nuca, lungi dall’essere esecrata come spia e traditrice, è diventata oggi il motore di una vera e propria industria culturale. Dalla sua morte, infatti, la “Mata Hari” d’Oriente è stata, in Giappone, il soggetto di almeno quattordici saggi storici, quattro romanzi, undici commedie, otto film, cinque serie televisive, quattro manga, un musical e persino un videogioco. Evidentemente, nel Paese del Sol Levante, la memoria storica non ha censurato come in Occidente, condannando i vinti a una perpetua damnatio memoriae, sempre più intransigente e assoluta con il passare degli anni. In fondo, il Giappone, dopo la decadenza dell’Impero cinese, era rimasto l’unica potenza orientale in grado di opporsi allo strapotere occidentale, e addirittura di sconfiggerlo militarmente, come accadde nel 1904 contro la Russia zarista.

Tra le tante soprese che ci riserva il saggio di Buruma, infatti, ce n’è una a dir poco incredibile: un caro amico di Yoshiko, Sasakawa Ryoichi, un ultra-nazionalista giapponese, ammiratore di Mussolini e fondatore di un Partito filofascista, dopo essere stato arrestato dagli americani come “criminale di guerra classe A”, non fu mai processato, e, anzi, nel dopoguerra giocò un ruolo importante in chiave anticomunista negli equilibri della Guerra fredda, fino a diventare, come amava chiamarsi, il “fascista più ricco del mondo”. Sasakawa, morto nel 1995, è stato addirittura candidato al Premio Nobel per la pace, ovviamente senza vincerlo, tramite la sua fondazione, la “Nippon Foundation”. Questa organizzazione non governativa è ancora uno dei principali contribuenti alle iniziative benefiche dell’ONU, che, tra le altre cose, ha finanziato anche il progetto di rinnovamento dei servizi pubblici in Tokyo, celebrato da Wim Wenders nel suo penultimo film, Perfect Days, involontariamente beneficato, quindi, dall’ultradestra nipponica.

Una versione ridotta di questo articolo è stata pubblicata dal quotidiano “Il Giornale” il 21 giugno 2024

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