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Grande Guerra: gas sul San Michele, la prima volta degli italiani

Il gas sul san michele Il 29 giugno 1916 gli austroungarici usarono per la prima volta l’arma chimica cogliendo totalmente impreparati i soldati italiani che non se l’aspettavano e non avevano i mezzi per contrapporsi.
di Marco Cimmino da Bergamonews del 17 luglio 2016 BergamoNews.it - Quotidiano online di Bergamo e Provincia

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Quando, la mattina del 29 giugno 1916, sul San Michele, gli austroungarici utilizzarono per la prima volta l’arma chimica, i soldati italiani erano del tutto impreparati ad affrontare questa nuova minaccia. Lo erano doppiamente: innanzitutto perché non si aspettavano un simile attacco, compiuto con grande meticolosità e precisione, compatibilmente con il comportamento, spesso imprevedibile e difficilmente gestibile del gas nei suoi impieghi militari. In secondo luogo, perché le maschere antigas in dotazione ai fanti italiani erano del tutto inadeguate a contrastare un aggressivo come quello utilizzato nell’occasione, ossia una miscela all’80% di cloro ed al 20% di fosgene, cui potevano opporsi soltanto le maschere tedesche ed inglesi, e nemmeno queste con assolute garanzie. Il fosgene o cloruro di carbonile è un aggressivo molto potente: agisce per sola inalazione e produce emorragie interne, ed insufficienza respiratoria, combinandosi con l’acqua presente nei polmoni. Il suo effetto si manifesta, quasi sempre, a molte ore dal contatto. Il cloro, viceversa, è un semplice asfissiante, i cui effetti, però, sono pressoché istantanei.
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Nell’attacco al San Michele, di circa 12.000 intossicati italiani, più della metà morirono, ma solo 2.000 furono le vittime immediate, soffocate dal gas, lanciato da circa 3.000 bombole, che un reparto specializzato di genieri lanciagas, addestrato dai tedeschi a Krems, sul Danubio, aprì alle 5.15 del mattino, oppure finite, quando cercavano di resistere, dalle terribili mazze ferrate in dotazione agli attaccanti.
Il piano austroungarico era quello di alleggerire la terribile pressione che gli italiani stavano esercitando contro le quattro cime del monte, costringendoli ad arretrare oltre l’Isonzo: in questo piano si prevedeva di colpire, oltre alle prime linee avversarie, anche le postazioni dell’artiglieria, che tormentavano i difensori di quelle quote insanguinate. Il piano, in definitiva, fallì, perché, dopo un primo comprensibile sbandamento, gli italiani contrattaccarono con vigore straordinario, animati anche dal desiderio di vendicare i propri compagni, uccisi in un modo che veniva percepito come barbaro e vile (in realtà, poi, anche gli italiani avrebbero usato i gas senza parsimonia) e, soprattutto, perché un parte delle bombole funzionò in maniera difettosa, senza contare che altre 3.000 bombole, i cui ugelli erano rivolti contro le batterie italiane del Fortin, non vennero neppure utilizzate, a causa dell’assenza di vento favorevole.
Il vento era l’elemento imponderabile dei lanci di gas: se mancava, il lancio stesso era impossibile, ma, se questo girava durante l’operazione, si rischiava addirittura di colpire le proprie truppe, cosa che in parte accadde il 29 giugno. Anche gli attaccanti, vale a dire le due divisioni Honvèd ungheresi, la 17a e la 20a, subirono delle perdite da gas, ed avanzarono prudentemente, temendo gli effetti della loro stessa arma: questo permise agli italiani di fare affluire riserve dalle retrovie e, con l’appoggio delle artiglierie, risparmiate dai gas, di rintuzzare il pericolosissimo attacco nemico.
La linea italiana, al momento dell’attacco austroungarico, era presidiata, da quota 275 del San Michele e da San Martino del Carso, fino a Peteano, dalla brigata Pisa e dalla brigata Regina, che formavano la 21a divisione (gen. Mazzoli),e dalle brigate Brescia Ferrara, che formavano la 22a (gen. Cigliana). Le bombole, interrate e mimetizzate erano pronte fin dal 25 giugno, trasportate in camion fino alle retrovie e di lì a braccia fino alla prima linea: tubi di gomma con ugelli erano stati puntati contro le trincee italiane, in cui nessuno si aspettava quella minaccia incombente.
L’attacco coi gas venne preceduto da un breve ed intenso cannoneggiamento: il lancio dell’aggressivo chimico colpì dapprima le cime del San Michele e poi rotolò verso valle, invadendo il costone dei Bersaglieri, il valloncello di Cima 4, la trincea superiore, il camminamento Sterio e il bosco Ferro di Cavallo, intasando caverne e ricoveri, dove molti fanti trovarono la morte, senza possibilità di scampo. Vi fu chi tentò di proteggersi con fazzoletti o stracci o scavando buche e sotterrandovi la faccia.
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Intanto, gli attaccanti sopraggiungevano, sparando e colpendo i gassati ancora in grado di combattere con le loro mazze. La nebbia verdastra, profumata di fieno, avanzò ancora, uccidendo i difensori del vallone di San Martino, della trincea delle lunette, di cappella diruta, della trincea dell’albero storto, verso la buca carsica e la difesa delle bombarde: giù, seminando morte fino al dente del groviglio e al ridottino, fino alle valli di Sdraussina al saliente della trincea delle frasche, a Castelnuovo a Quota 197 di bosco cappuccio e a quota 143, e alle posizioni della brigata Regina a bosco lancia.
Gli italiani, però si riorganizzarono, in vere e proprie isole, risparmiate dalle bizzarrie della nuvola venefica, aprendo il fuoco sulle masse avversarie e causando agli ungheresi notevoli perdite, mentre nelle retrovie si cominciava a capire la gravità della situazione ed a provvedere. Alla fine, l’azione austroungarica si risolse con un nulla di fatto, se non con un ennesimo terribile massacro.
I difensori avevano perso un numero mai precisato di uomini, ma che, ragionevolmente, si attesta intorno alle 6.500 vittime, con la brigata Regina a vantare il triste primato dei caduti (1.320 soldati e 34 ufficiali), mentre gli attaccanti lasciarono sul campo circa 3.000 uomini. Quel giorno, sul San Michele, venne creato un terribile precedente, che portò, ben presto all’adozione degli aggressivi chimici senza limitazioni anche sul fronte italiano, fino a quel momento risparmiato da questa terribile arma.

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