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Giornalismo d’inchiesta e cadaveri eccellenti: Salvatore Giuliano

Il 5 luglio 1950 Alcide De Gasperi era tranquillamente al timone del suo sesto governo consecutivo, la Juventus si stava godendo il suo ottavo scudetto e a Roma si stavano dando gli ultimi ritocchi al progetto per l’istituzione della Cassa per il Mezzogiorno, l’ente che sarebbe stato operativo dall’agosto successivo e incaricato di risollevare, grazie ad una serie di interventi straordinari, le sorti dell’economia meridionale. Come spesso accade, le cose in politica non accadono mai per caso e non è da escludere che De Gasperi volesse dare un impulso alla Cassa per il Mezzogiorno anche per tagliare definitivamente l’erba sotto i piedi a quello che rimaneva del separatismo siciliano che, se a livello politico aveva già imboccato la strada del declino, a livello popolare poteva contare ancora su vasti consensi. Lo dimostrava, tra le altre cose, il favore su cui poteva contare Salvatore Giuliano, 27 anni, già “colonnello” dell’Evis (il braccio armato del separatismo) e bandito a tempo pieno dal pomeriggio del 2 settembre 1943 quando, per sfuggire a dei carabinieri che volevano arrestarlo e sequestrargli i sacchi di grano che stava contrabbandando, pensò bene di accopparne uno tirando fuori, d’improvviso, una pistola nascosta nella tasca destra. Tre mesi dopo, temendo di essere riconosciuto da un’altra pattuglia dei carabinieri, ucciderà un altro milite. Il suo destino era segnato. In tutti i sensi: come bandito e come candidato alla morte visto che sette anni più tardi saranno proprio i carabinieri a tendergli la trappola mortale, la notte tra il 4 e il 5 luglio 1950 a Castelvetrano, nel trapanese.

Se da un lato Salvatore Giuliano non è che uno dei 452.088 italiani complessivamente passati a miglior vita in quell’anno, d’altra parte è anche vero che quel corpo supino mostrato alla stampa nel cortile di casa De Maria a Castelvetrano è tra i molti cadaveri che costellano la storia dell’Italia post fascista. Un morto eccellente destinato però, a differenza di altri, a vedere il proprio mito rinsaldato addirittura da un’opera lirica (il debutto del “Salvatore Giuliano”, musiche di Lorenzo Ferrero e libretto di Giuseppe Di Leva, è stato il 26 gennaio 1986), da alcuni film e da una ammirazione che è arrivata imperterrita sino ad oggi ben oltre i confini siciliani: infatti nel dicembre 1995 la polizia ha sgominato, a Bari, una banda di minorenni che sanciva l’affiliazione dei propri membri secondo riti mafiosi e giuramenti di sangue ispirati alla figura di Giuliano. Perché stupirsi? Ancora negli anni Ottanta, un professore di terza media di Montelepre, un paesino in provincia di Palermo, chiese ai suoi alunni di parlare di Giuliano, che era nato proprio da quelle parti. Due ragazzi su tre parlarono in modo positivo del bandito. Le descrizioni, per lo più, ricalcavano il modello di un ruspante Robin Hood: un paladino della giustizia e della libertà, costretto a muoversi nell’illegalità ma solo per ristabilire la giustizia, levando ai ricchi e donando ai poveri. Coi miti non si discute.

Come per ogni cadavere eccellente che si rispetti anche per Salvatore Giuliano le circostanze della morte sono tutt’ora avvolte nel “segreto di Stato”. Un “segreto” che copre non tanto la dinamica di una vera e propria esecuzione a sangue freddo quanto le complicità e le procedure che hanno portato ad armare la mano omicida di Gaspare Pisciotta, il braccio destro di Giuliano. Complicità e procedure che, è stato deciso a fine anni Novanta, dovranno rimanere segrete ancora per molti anni.

Il 5 luglio 1950 giunse dopo oltre tre anni di guerra sanguinosa: il primo assalto ad una caserma dei carabinieri, quella di Piano dell’Occhio, da parte della banda Giuliano risale al maggio 1945 ma la vera data d’inizio della guerra tra Salvatore Giuliano e lo Stato italiano è un’altra. E’ il primo maggio 1947, con la strage di Portella della Ginestra, che Giuliano imbocca definitivamente la strada del non ritorno. Assoldato da forze ultra conservatrici, il bandito accetta di attaccare un raduno di contadini che festeggiano la festa del lavoro. Lo scopo è quello di “dare una lezione alle sinistre” in un momento di forti tensioni sociali in tutto il Paese. Il risultato sarà di undici poveretti massacrati a colpi di mitra mentre i feriti saranno 56. Quello che non aveva causato l’assalto di decine di caserme dei carabinieri avvenne dopo Portella della Ginestra: il governo arrivò a mettere una taglia sulla testa di Giuliano che, sicuro della copertura della gente, rimase nella sua terra, apparentemente invincibile, inafferrabile. Ma dove non poté la forza bruta arrivò l’astuzia. La fine di Giuliano di sicuro ha un regista: il colonnello dei carabinieri Ugo Luca, titolare del “Comando forze repressione banditismo”.

Nella tarda mattinata del 5 luglio 1950 il Comando Generale dei carabinieri annunciava trionfante che Giuliano era morto alle 3,50 della notte precedente nel corso di un conflitto a fuoco di circa mezz’ora con quattro carabinieri nelle stradine di Castelvetrano. Il cadavere del bandito, supino nel cortile di casa De Maria, venne mostrato a fotografi e giornalisti. Ventiquattro ore dopo Giuliano era già sepolto nel cimitero di Castelvetrano, senza che venisse eseguita una autopsia che stabilisse con certezza cause, tempi e modi della morte. Ma gli occhi esperti di alcuni reporter, le fotografie scattate al cadavere e le testimonianze raccolte tra la gente di Castelvetrano iniziarono ben presto a far scricchiolare la versione dei carabinieri.

Se le cose non andarono come speravano le autorità il merito va soprattutto ad un inviato del settimanale “Europeo” destinato a lasciare il segno nella storia del giornalismo italiano: Tommaso Besozzi. Ha fatto epoca il titolo con cui uscì il suo primo servizio, una settimana dopo la morte del bandito Giuliano: “Di sicuro c’è solo che è morto”. Besozzi attaccò subito la versione fornita dai carabinieri: “la relazione ufficiale sulla morte di Salvatore Giuliano è camuffata, reticente su certi punti, su altri imprecisa”. Come spesso accade quando muore un personaggio scomodo o ingombrante i conti non tornano mai: “Dobbiamo confermare – scrisse ancora Besozzi – di avere inutilmente tentato di mettere d’accordo parecchi particolari di quella relazione con i luoghi, le circostanze, il racconto di chi quella notte vegliava a pochi passi di distanza dal tragico cortile in cui si è svolto l’epilogo del dramma ed è stato svegliato dal fracasso delle fucilate”. Ma cosa diceva la versione sostenuta a spada tratta dal colonnello De Luca e dai suoi uomini? Diceva che Giuliano era stato attirato a Castelvetrano dalla prospettiva di comparire in un documentario su di lui. Contando sulla sua vanità infatti (spesso il bandito, in precedenza, aveva posato per reportage fotografici e rilasciato interviste) De Luca aveva incaricato il capitano Perenze di fingersi regista e di girare, con una troupe di tecnici-agenti in borghese, tra Castelvetrano, Partinico e Montelepre per alcuni giorni, facendo capire in giro che se Giuliano avesse voluto il documentario sarebbe stato tutto per lui. Il bandito abbocca e fa sapere che “forse” la sera del 4 luglio sarebbe stato a Castelvetrano. De Luca e i suoi hanno la conferma della presenza di Giuliano in paese e subito iniziano le ricerche: il “contatto” avviene a notte inoltrata quando il bandito si imbatte in una pattuglia guidata dallo stesso Perenze che nel frattempo ha smesso i panni di regista. Alle 3,15 l’ufficiale, il brigadiere Giuseppe Catalano e i militi Giuffrida e Renzi vedono in una stradina di periferia due uomini che tentano di nascondersi. I carabinieri sparano senza pensarci due volte, uno dei due fugge e l’altro risponde al fuoco. E’ Giuliano. L’inseguimento è breve ma costellato da decine e decine di colpi da una parte e dall’altra: Giuliano infatti è armato sia di un mitra che di una pistola Browning. In pochi minuti, riferiranno precisi i carabinieri, riuscirà a sparare ben 52 colpi prima di crollare sotto la raffica partita dal mitra del capitano Perenze che lo sorprende mentre attraversa di corsa il cortile di una casa, casa De Maria, diretto verso un muro oltre il quale c’erano l’aperta campagna e la possibile salvezza.

Besozzi non fece molta fatica ad appurare invece che quella notte nessuno a Castelvetrano udì la furibonda sparatoria che ci sarebbe dovuta essere e che verso le tre e mezzo di notte si sentirono soltanto, provenienti da Casa De Maria, prima cinque o sei colpi di pistola e poi due raffiche di mitra. Tutto qui. Altro che centinaia di colpi. Le incongruenze non erano comunque finite: come mai Giuliano era in canottiera, lui che era, sia pure a suo modo, sempre abituato ad una certa eleganza? La cosa era ancora più strana se si pensa che avrebbe dovuto credere di comparire davanti ad una macchina da presa. E poi le foto del cadavere mostravano colpi sparati verosimilmente a bruciapelo e non a distanza come sostenuto nella versione ufficiale. Alcune ferite sembravano più recenti, altre sicuramente meno “fresche”. Infine altri particolari (fori d’entrata, macchie di sangue) facevano supporre che Giuliano fosse stato colpito a tradimento, forse mentre dormiva. “Tutti i rapporti che la polizia rende noti al pubblico – osservava con finta comprensione Besozzi – devono essere necessariamente così. Vi sono circostanze che non possono essere rivelate, promesse che è giusto mantenere, uomini che bisogna salvare dalla vendetta…”. Che cosa aveva scoperto il giornalista de “L’Europeo”?

Molte cose, a cominciare da quello che era accaduto il 27 giugno 1950 quando con uno stratagemma i carabinieri misero le mani su due dei più stretti collaboratori di Giuliano, Frank Mannino e Nunzio Badalamenti. Il vero artefice della morte di Giuliano non ha mai avuto un nome ma solo due iniziali, R.P. Era un uomo di Monreale, ora connivente con i banditi ora confidente delle forze dell’ordine. E nell’estate del 1950 conveniva stare dalla parte dello Stato: con Giuliano rimanevano si e no una decina di uomini, il periodo di splendore era passato. Consegnati ai carabinieri Mannino e Badalamenti, R.P. capì ben presto di aver rischiato grosso: Giuliano aveva capito subito che era stato lui il traditore e lo fece rapire. Il bandito pensava ad uno scambio e lo scrisse: “l’informatore al posto dei miei due uomini” era la proposta. Il colonnello De Luca prendeva tempo e intanto R.P. non stava con le mani in mano. Dopo essere stato affidato in custodia al cugino di Giuliano, Gaspare Pisciotta, l’uomo capì subito la debolezza psicologica del suo carceriere e giorno dopo giorno prese a tormentarlo, descrivendogli lo scenario di sventura che attendeva tutto il clan Giuliano. Pianti, preghiere, sogni e pure fantastici colloqui con i morti: tutto servì per instillare nella debole mente di Pisciotta la convinzione che bisognava trovare una via d’uscita. Anche la soluzione venne piano piano suggerita da R.P.: uccidendo Giuliano, Pisciotta non solo avrebbe avuto l’impunità ma anche i trenta milioni della taglia che ormai da tempo gravava sulla testa del bandito. Fu così che R.P. riconquistò la libertà e Giuliano vide la propria fine segnata: raggiuntolo nel suo nascondiglio nelle campagne di Castelvetrano, Pisciotta riferì al cugino che l’ostaggio era fuggito e al tempo stesso gli chiese, ottenendola facilmente, ospitalità per quella notte. Era il 4 luglio. Dopo che Giuliano ebbe preso sonno Pisciotta gli si avvicinò e sparò due colpi: uno alla schiena e un altro sotto l’ascella. Poi, in preda al panico, fuggì a piedi nudi e mezzo svestito per la campagna fino alla strada dove l’attendeva una 1100 dei carabinieri. Qualcun altro si occupò di recuperare il cadavere e inscenare il conflitto a fuoco a Casa De Maria.

La versione dei carabinieri aveva retto per non più di una quindicina di giorni, il tempo di pubblicare le due puntate dell’inchiesta di Besozzi. Pisciotta durò un po’ di più, ma sempre col cuore in gola. Non fidandosi della protezione dei carabinieri fuggì poco dopo il delitto. Sei mesi dopo venne arrestato. Rinchiuso nel carcere palermitano dell’Ucciardone, il 10 febbraio 1954 bevve il suo ultimo caffè. Oltre allo zucchero c’era anche della stricnina. Ma su quella morte non ci fu nessun Tommaso Besozzi disposto ad indagare.

                                              

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