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La Locanda di Granito

Futurismo. Mettere in un museo chi voleva bruciare i musei?

Si nasce incendiari e si muore pompieri? Nel caso del Futurismo tocca dire proprio di sì. Quella che è una delle più grandi mostre finora realizzata sul tonitruante movimento artistico creato da Marinetti – e inaugurata ieri a Roma alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea, nell’80° anniversario della sua morte – suona quasi come una beffa rispetto alle parole incendiarie del suo fondatore.

“Noi vogliamo bruciare i musei”. E poi ci finiscono dentro. Eterogenesi dei fini, ironia della storia. Eppure proprio questa sorte si presta a molte riflessioni.

Il Futurismo nasce con lo sprezzo delle contraddizioni. Non ha mai cercato una coerenza interna, per cui è normalissimo vedere nei suoi manifesti la proclamazione di punti dirompenti e contemporaneamente la negazione degli stessi nella prassi artistica. Vogliamo abolire la punteggiatura? Poi Marinetti la usava, ovviamente. Vogliamo edifici moderni e funzionali? Poi però Sant’Elia, Chiattone e Marchi progettavano – o meglio sognavano – titaniche strutture da film di fantascienza. Vogliamo distruggere i musei e le gallerie? E poi tutti ci finiamo dentro.

Le contraddizioni erano fatali, nel Futurismo. Tanto che esso può tranquillamente definirsi un afflato di gioventù – del resto l’Italia di allora si definiva una “nazione giovane” – e quando si è giovani si hanno slanci e si prendono iniziative che l’uomo di mezz’età non prenderebbe mai.

Il Futurismo nasce come rottura estetica del suo presente. A differenza di tanta altra arte del XX secolo e soprattutto del secondo dopoguerra, non è la scusa per imbrattatele da quattro soldi per giustificare la propria incapacità. Balla e Boccioni sono pittori di primissimo livello. Ma sentono il loro mondo stretto. A differenza però del decostruzionismo, che di lì a poco sarebbe venuto a distruggere la consapevolezza maturata dall’umanità per sostituirla con il soggettivismo, le loro sperimentazioni artistiche sono molto meno demolitrici di quello che loro pensano. Demoliscono sì lo stile e la regola d’arte vigente, ma nel tentativo di ricercare quella “bellezza della velocità” che il nuovo secolo stava porgendo all’umanità. Il Futurismo non è iconoclastia. E’ irriverenza, senza dubbio, ma è incrementale al passato: le “Forme mobili” di Boccioni sono in perfetta continuità con la Venere di Samotracia, a cui s’aggiunge la velocità e la simultaneità. Una volta dimostrato che si può portare sulla tela (o nel bronzo) questa novità, Balla (Boccioni non potrà, inghiottito dalla Grande Guerra) porta a maturazione quell’avanguardismo divenuto, nel breve giro di pochi anni, stile, per poi tornare alla pittura realistica.

E’ questa una delle parabole più interessanti di questo movimento: partito come rottura avanguardistica, diventa per l’appunto stile. Lo vediamo nelle opere pur meravigliose della Seconda Ondata, l’Aerofuturismo nato durante il Ventennio. C’è sperimentazione, ma non c’è più davvero novità. Sono opere “in stile”. Il Futurismo è invecchiato prestissimo ed è diventato grafica, regola d’arte, manierismo a sua volta nel giro di nemmeno quindici anni.

La realtà dunque si riprende una sua piccola rivincita sui proclami marinettiani? Volevi distruggere l’arte “del passato” e la tua stessa creatura diventa “un classico”. Niente di strano che questo classico ora finisca in un museo.

Del resto il Futurismo ha svolto una funzione di testa d’ariete della modernità industriale (che è la cifra della mostra alla GNAM) ma esso è stato immediatamente sorpassato da questa realtà. L’evoluzione tecnologica ha portato la fantascienza stessa a essere superata dai fatti. Un’intuizione che viene chiara quando si entra nella sala con gli intonarumori di Russolo: strumenti di rottura con la musica orchestrale dell’epoca, che di lì a poco diventeranno i nonnetti in pensione della musica elettronica, da quando col Teremin diventerà improvvisamente possibile creare suoni da “era spaziale”. Come Mosè nella Bibbia (ma a noi piace di più il capitano Okita di “Corazzata Spaziale Yamato”), il Futurismo però non arriva nella Terra Promessa: la guerra, quella che Marinetti aveva chiamato “sola igiene del mondo” arriva a spazzarlo via.

In realtà non spazza via tanto il Futurismo, quanto il suo mondo. L’era dorata, anzi cromata, dell’Art Decò, elegante, signorile, ottimista, distrutta dalla prepotenza di quel mondo industriale che proprio il Futurismo aveva cantato. Segno che “mondo industriale” e idealismi come il patriottismo difficilmente riescono a convivere (anche perché nell’età dell’ultra-capitalismo industriale le guerre non si fanno più per il Re, per la Patria o per la Libertà, ma per ingrassare lo squalo della finanza o il padrone delle ferriere che fornisce cannoni e corazzate agli Stati in guerra…).

E qui, si chiude significativamente il cerchio. Hayao Miyazaki in “Si alza il vento” dà a Gianni Caproni il volto di Filippo Tommaso Marinetti. E gli affida una riflessione sull’intera storia dell’umanità che sembra il perfetto epitaffio anche per la parabola del Futurismo.

Così, noi oggi ammiriamo i capolavori futuristi in un museo. Ci entusiasmiamo per essi e per le automobili, pardon, gli automobili, le motociclette e gli idrocorsa, ma giriamo con “La società industriale ed il suo futuro” Theodore Kaczynski in tasca. La logica hegeliana del “tesi, antitesi, sintesi” ha vinto un’altra volta, ma ogni volta ci chiediamo se sia l’ultima, vivendo in un mondo che corre più veloce delle sue avanguardie.

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