HomeIn primo pianoCraxi, Di Pietro, Tangentopoli e i finanziamenti al PCI di Napolitano

Craxi, Di Pietro, Tangentopoli e i finanziamenti al PCI di Napolitano

La frase di Craxi, testuale, fu ritrasmessa integralmente da Annozero solo due anni fa, nel gennaio del 2010. Eccola. «Sarebbe come credere che il Presidente della Camera, Giorgio Napolitano, che è stato per molti anni ministro degli esteri del Pci, non si fosse mai accorto del genere di traffico che avveniva sotto di lui, tra i vari rappresentanti e amministratori del Pci con i paesi dell’Est». Fu pronunciata durante il processo Cusani – non Enimont, come ha detto Di Pietro nella sua intervista a Oggi – ed erano le 17 del 17 dicembre 1993. Craxi aveva detto anche altro:

di Filippo Facci dal suo blog su Il PostIl Post dell’8’agosto 2012

«Della natura non regolare o illegale dei finanziamenti ai partiti e al mio partito, io penso, ho cominciato a capire quando ancora portavo i pantaloni alla zuava… Qualcuno può veramente credere che il ravennate Gardini, che aveva grandi interessi in Emilia, e il cui gruppo aveva interessi in Urss, non abbia mai dato un contributo al Pci?… Si può immaginare seriamente, si può credere che un gruppo come la Fiat possa essere stato concusso o spaventato?… È possibile credere che il presidente del Senato, Giovanni Spadolini, per dieci anni segretario del Pri, abbia e sempre avuto un finanziamento assolutamente regolare e che le irregolarità e illegalità siano state commesse dal vecchio La Malfa e dal giovane La Malfa? Sarebbe come credere che il Presidente della Camera, Giorgio Napolitano… »

Quel giorno rimase memorabile anche per l’interrogatorio mattutino di Arnaldo Forlani (quattro ore: fu strapazzato per via della sua palese reticenza) ma nel pomeriggio, appunto, s’intuì che sarebbe stato un pomeriggio speciale. Io tra l’altro ero lì, in aula. Di Pietro, che era il pm, cercherà di giustificare la sua docilità spacciandola come strumentale ai suoi obiettivi istruttori: cioè far parlare Craxi. Ma negli anni successivi si sarebbe ben compreso come Di Pietro potesse anche temere le sortite di un uomo che di lui sapeva molte cose: qualsiasi cosa avesse detto Craxi, in ogni caso, quel giorno l’avrebbe detta davanti a milioni di persone. Di Pietro lo sapeva. Sta di fatto che non gli fece neppure una domanda vera e formulata fino in fondo, acconsentendo ogni volta di farsi interrompere con ripetuti «mi consenta di chiarire un punto». Craxi disse tutto ciò che voleva. Parlò delle cooperative rosse (e Tonino: «Ecco, è importante anche questo») e spiegò che la Montedison non pagava solo il Psi (e Tonino: «È vero, è vero… ce l’hanno riferito in parecchi»). Incapace di distinguere tra verità e verità processuale, il leader socialista ruggì a piacimento: tirò in ballo Gardini, Spadolini e La Malfa. E Napolitano, che peraltro erano già stato coinvolto indirettamente perché a Milano avevano arrestato tutti i suoi uomini (la mitica corrente migliorista, detta «pigliorista») tanto che lo stesso Craxi aveva scelto anche Napolitano tra i soggetti di alcuni suoi quadri della serie «Bugiardi ed extraterrestri», opere a metà tra la satira e l’arte concettuale.

A Milano, del resto, le modalità di finanziamento utilizzate dai comunisti cominciarono a cambiare dal 1986. I soldi dall’Urss calavano e il Pci entrò nel sistema di spartizione degli appalti e delle tangenti. La prova generale avviene alla Metropolitana di Milano: un funzionario comunista, Luigi Mijno Carnevale, ritirava le bustarelle e le girava ai superiori, in particolare ai citati «miglioristi» che «a livello nazionale», si legge nella sentenza sulla Metropolitana, «fa capo a Giorgio Napolitano» e ad altri esponenti come Gianni Cervetti ed Emanuele Macaluso. Un altro processo legato ai finanziamenti versati al settimanale «Il Moderno» (diretto da Lodovico Festa e finanziato da Berlusconi, Ligresti, Gavio, Torno costruzioni) si concluse con una prescrizione, ma «Il finanziamento da parte della grande imprenditoria», spiegò la Cassazione, «si traduceva in finanziamento illecito al Pci-Pds milanese, corrente migliorista».
Anche a Napoli ci fu qualche problema. L’imprenditore Vincenzo Maria Greco, nel dicembre 1993, raccontò ai pm che nell’affare della metropolitana locale era coinvolto anche il Pci: «Paolo Cirino Pomicino ebbe a dirmi che aveva preso l’impegno con il capo-gruppo alla Camera del Pci dell’epoca, onorevole Giorgio Napolitano, di permettere un ritorno economico al Pci… Mi spiego: il segretario provinciale del Pci dell’epoca era il dottor Umberto Ranieri, attuale deputato e membro della segreteria nazionale del Pds. Costui era il riferimento a Napoli dell’onorevole Napolitano. Pomicino mi disse che già riceveva somme di denaro dalla società Metronapoli… e che si era impegnato con l’onorevole Napolitano a far pervenire una parte di queste somme da lui ricevute in favore del dottor Ranieri». Napolitano, diventato nel frattempo presidente della Camera, viene iscritto nel registro degli indagati anche se il suo nome fu secretato e chiuso in cassaforte. «Sono bersaglio di ignobili invenzioni e tortuose insinuazioni che vengono da persone interessate a colpirmi per il ruolo istituzionale che ho svolgo», disse Napolitano. L’inchiesta fu archiviata.
Ma ci siamo persi quel 17 dicembre 1993 e ci siamo persi Craxi con Di Pietro: il quale, quel giorno, scodinzolava come molti ricordano. Memorabile anche la scena in cui Craxi pose un foglietto e Tonino venne a ritirarlo come la mancia al cameriere. Craxi finse di lasciare Palazzo di Giustizia e salì invece nell’ufficio del pm, che appariva compiaciuto e soddisfatto. Luca Josi, presente alla scena, lo definì «rispettoso fino alla deferenza, un affettuoso pastore maremmano».

Poi, però, non mancarono reazioni isteriche. «Il Torquemada di Montenero di Bisaccia stavolta ha il motore imballato. Traccheggia» scrisse il Corriere della Sera. Un imbufalito Gerardo D’Ambrosio, sullo stesso giornale, lamentava che «Gli hanno lasciato fare questo show che col processo Cusani non c’entra niente», e disse che avrebbe valutato se inquisire Craxi per le sue calunnie. Eugenio Scalfari, su Repubblica, diede a Di Pietro nientemeno che del «compare» di Craxi. Poi l’oblio. Di Pietro, nella sua intervista a Oggi, afferma che «o quei fatti raccontati non avevano rilevanza penale, oppure non vedo perché si sia usato il sistema dei due pesi e delle due misure». Ah, lui non vede: peccato che il pm fosse lui. I due pesi e due misure, nel caso, li usò lui. La verità, semplice, è che il Pool di Milano non procedette (fecero eccezione, tempo dopo, dei pervicaci tentativi del pm Paolo Ielo) confortati dal fatto che nell’aprile 1990 era stata approvata un’amnistia che contemplava vari reati compiuti sino al 24 ottobre 1989, e tra questi il finanziamento illecito ai partiti; la demarcazione si rivelò essenziale per giustificare l’impunità di alcune parti politiche e soprattutto per depenalizzare ogni finanziamento illecito versato al Pci dall’Unione Sovietica. Andò così. Dall’ottobre 1989 al marzo 1992 non passarono che una trentina di mesi: ma l’intero sconvolgimento del sistema politico italiano fu realizzato occupandosi dei reati compiuti solo in quel periodo.

Circa l’opportunità che Di Pietro rivaluti Craxi, infine, che dire. Di Pietro resterà a vita quello che ha mendicato dai craxiani prima di arrestarli, e che poi definì «foruncolone» le piaghe da diabete che accelerarono la morte del leader socialista. Gli anni passano e ciascuno ridiviene ciò che è, ciò che realmente fu. Craxi, quel 17 dicembre 1993, disse anche un’altra cosa: «I partiti erano tenuti a presentare i bilanci in Parlamento e i bilanci erano sistematicamente falsi, e tutti lo sapevano… i partiti di opposizione non contestavano i bilanci dei partiti di governo né i partiti di governo contestavano i bilanci dei partiti di opposizione. Negli atti parlamentari, non esiste una polemica che investisse la falsità di un bilancio presentato da un tesoriere di un partito. La verità è che i bilanci erano tutti falsi». Parole, anche queste, trasmesse per televisione, riportate sui giornali, reperibili su Youtube, ritrasmesse ad Annozero. Nella Prima repubblica s’invocava il «tutti sapevano», adesso – come dimostra il caso Lusi – s’invoca il «nessuno sapeva».
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Inserito su www.storiainrete.com il 9 agosto 2012

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