I nostri sono tempi calamitosi. Immerso nella pace delle purtroppo e sin troppo friabili Dolomiti bellunesi, rischierei d’essere sopraffatto dalla depressione, se non mi restassero da leggere le cronache delle più recenti truffe – dove i soldi spariscono e le inchieste si moltiplicano – e il romanzo Le avventure di Pinocchio. Storia di un burattino, di Carlo Collodi. Letture assolutamente stimolanti e che consentono di sviluppare interessanti sinergie intellettuali e tracciare mappe sorprendenti. In fondo e non da oggi è mia convinzione che la materia della giustizia, in settori oggi segnati da caratteri che crescono, incalzano, modificano, s’intenda meglio esplorando i processi penali considerati da Schiller, Rabelais, Stendhal, Dostoevskij, Dürrenmatt e, perché no, Collodi.
Sempre più frequenti sono le notizie di svariate migliaia di risparmiatori caduti o, più spesso, incautamente entrati nella rete di sedicenti intermediari giunti a maneggiare e, in larga misura, a far sparire centinaia di milioni di euro in poco tempo. C’è da interrogarsi seriamente sulle ragioni per cui migliaia di persone ritengano tuttora sia plausibile un investimento che garantirebbe un rendimento mensile del 10% anche in tempo di tasso zero; oltre tutto affidando i propri denari non per comprare titoli di banche che, tutto sommato, avevano filiali, addetti, storia e riconoscibilità, sia pure al netto delle malversazioni al vertice, emerse dai processi, ma per speculare su mercati online, gestiti da presunti e semisconosciuti trader, che favoleggiano di valute e criptovalute dentro non meglio localizzate sedi di società estere, come mirabolanti scatole cinesi.
Le avventure di Pinocchio. Storia di un burattino è stato pubblicato per la prima volta nel 1883, l’anno successivo a quello in cui era nato Charles Ponzi (1882 – 1949), ideatore dello schema truffaldino che porta il suo nome: un modello economico di vendita, che promette forti guadagni ai primi investitori, a discapito di nuovi investitori, cioè le vittime della truffa. Nel romanzo di Collodi sembra materializzarsi la metafora «del reo in carrozza e dell’innocente a piedi»: Pinocchio, nella città di Acchiappacitrulli, da ricco putativo diventato povero autentico, tenta la sua prima sortita squisitamente sociale; derubato, infatti, delle monete ricevute da Mangiafoco, disperato si reca dal giudice, gran scimmione «della razza dei Gorilla»; anziano; rispettabile; occhiali d’oro, senza vetri; gran barba bianca, il quale, saggio e buono, lo ascolta con benignità, s’intenerisce e commuove; quindi condanna il burattino, «questo povero diavolo», alla prigione. Ne uscirà in modo casuale e degradato, per amnistia, ma solo dopo essersi dichiarato «malandrino». L’episodio è, all’apparenza, paradossale e il paradosso si identifica con la parodia del sistema giudiziario.
Il giusfilosofo diffida, però, di fronte ad interpretazioni che vorrebbero leggere, in questa pagina divertente e surreale, l’avvertimento criptato per i lettori che sulla verità si fonda la rettitudine della convivenza civile, ma le istituzioni possono simulare e far valere la menzogna, così che, accertato il delitto, non si puniscono i colpevoli, ma la vittima! Perché si possa parlare di «giustizia capovolta» occorrono un delitto, un colpevole assolto o nemmeno accusato e un innocente condannato e punito; nel caso di Pinocchio, tuttavia, questa simmetria manca: il burattino non viene condannato per un reato commesso da altri – il furto cioè di quattro zecchini d’oro – bensì per essere stato derubato; il Gatto e la Volpe, per contro, rimangono a piede libero, non perché erroneamente o arbitrariamente ritenuti estranei al delitto, che anzi nessuno dubita abbiano effettivamente commesso, ma perché estranei al processo, dove nessuno li ha chiamati. Sicché, se di arbitrio si potesse parlare esso non avrebbe natura processuale, ma eventualmente sostanziale, sempre che, ad Acchiappacitrulli non esista una norma che proibisca di farsi derubare, almeno in circostanze come quelle in cui si è fatto derubare Pinocchio. La lettura, allora, è necessariamente un’altra.
Innanzitutto, Pinocchio, per ben due volte, si è lasciato abbindolare dagli artifici e raggiri del Gatto e della Volpe, disinvolti promotori finanziari: ha disatteso gli avvertimenti del Merlo bianco e del Grillo; ha ignorato le lezioni morali della Fata Turchina e del suo staff medico e paramedico; ha trascurato indizi gravi, precisi e concordanti della disonestà dei suoi «amici», dallo scrocco della cena al Gambero Rosso allo zampetto troncato al Gatto. Questo, si potrebbe comunque obiettare, non giustifica la condanna: Pinocchio, in fin dei conti, è un burattino ancora privo di una solida formazione morale e di un’adeguata esperienza di vita, nulla a che vedere, insomma, con gli adulti, presumibilmente responsabili, che si lasciano attrarre dal guadagno facile, a cui l’avidità fa credere d’essere più furbi e perdere il senso critico, tra le quali hanno avuto largo successo prodotti finanziari (dai board argentini prima del default agli investimenti in criptovalute, solo di poco più credibili, se non addirittura meno di quelli del Gatto e della Volpe). Detto incidenter tantum è, del resto, ancora viva l’eco della maxi-truffa da centosettanta milioni di euro ai danni di centinaia di clienti, attuata da Gianfranco Lande, il «Madoff dei Parioli», esemplare di avidità, misteri e falsa ingenuità nel cuore della «Roma bene»; e questo, a tacere dei misteri che s’addensano sulla morte in moto del broker Massimo Bochicchio, a due giorni dalla terza udienza del processo a suo carico per rispondere dell’accusa di aver truffato numerosi vip, da cui si sarebbe fatto affidare ingenti somme di denaro con la promessa di interessi considerevoli che non sarebbero mai arrivati mentre delle somme affidate si sarebbero perse le tracce.
Tornando a Pinocchio, a suo carico dunque c’è ben altro. Uscendo dal Teatro di Mangiafoco con cinque monete in tasca, s’era ripromesso di migliorare con esse il tenore di vita di Geppetto. Quando, però, seminate ormai le monete d’oro, si prepara a raccogliere i frutti del suo investimento, immagina che gli zecchini cresciuti sull’albero possano essere anche molti di più dei duemila corrispondenti al tasso vertiginoso promesso dai «malandrini», cinquemila forse o magari centomila. Sicché cambiano qualitativamente i suoi programmi relativi all’impiego del capitale: Pinocchio non vuole più arricchire grazie al regalo di Mangiafoco e ai generosi consigli dei suoi «amici», accontentatisi di una scorpacciata al Gambero Rosso; vuole invece essere ricco e basta, senza lavorare, né studiare, né ringraziare nessuno. Ecco, allora, che la sua colpa non è soltanto quella di essersi fidato dei «malandrini», ma di aver desiderato una ricchezza generata da se stessa, senza alcun rapporto con la fatica e con il merito.
E valga il vero. Al campo dei Miracoli, il Pappagallo, aveva impartito a Pinocchio un’austera lezione di stampo aristotelico e tomistico sulla «sterilità del denaro»: l’aveva avvertito che, «per mettere insieme onestamente pochi soldi, bisogna saperseli guadagnare o col lavoro delle proprie mani o coll’ingegno della propria testa». Pinocchio, però, non avendo compreso la lezione, «preso dalla disperazione, (era tornato) di corsa in città e (andato) difilato in tribunale, per denunziare al giudice i due malandrini, che lo avevano derubato» e «alla presenza del giudice (aveva raccontato) per filo e per segno l’iniqua frode, di cui era stato vittima; (dato) il nome, il cognome e i connotati dei malandrini, e (finito) col chiedere giustizia». Il vecchio e rispettabile Gorilla colse gli esatti termini della situazione: inutile citare il Gatto e la Volpe, già irreversibilmente inchiodati alle loro responsabilità; era su Pinocchio che occorreva pronunciarsi: il burattino si era presentato al Giudice esclusivamente nella veste di parte lesa, anziché anche nel ruolo d’imputato; fu, dunque, perché capisse la sottile lezione impartitagli dal Pappagallo, che il Gorilla ordinò ai suoi mastini: «Pigliatelo dunque e mettetelo subito in prigione».
La vicenda di Pinocchio e del Campo dei Miracoli è il classico caso del parlare a suocera perchè nuora inten da.
Il racconto di Collodi costituisce un’ invito esplicito alle classi dirigenti dei territori annessi al Piemonte affinchè cessassero di vivere dei proventi della rendita fondiaria, utilizzati per spese improduttive come abiti di lusso, gioielli e palazzi ed investire in attività come commercio, industria e libere professioni.
Le vicende successive purtroppo costrinsero i governi liberali piemontesi ad allearsi con i latifondisti centro meridionali, onde sconfiggere prima il brigantaggio poi le rivendicazioni delle classi proletarie agricole.
Questo è stato il vero male dell’Italia, la mancanza di una classe di piccoli e medi propietari paragonabile a
quella di altri paesi, così come lo sviluppo di una classe di funzionari pubblici elefantiaca ed inefficiente.