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“Chi ha paura dell’orso cattivo?”. Storia dell’odio antirusso

Un saggio racconta la millenaria vicenda dei pregiudizi contro la Russia e il suo popolo. Un filo rosso che affonda le radici nel Medioevo, attraversa tutto l’Evo Moderno per montare e gonfiarsi quanto più l’impero moscovita si espandeva nel cuore dell’Eurasia ed entrando in concorrenza con potenze oceaniche (Gran Bretagna e Giappone, poi gli USA) e continentali (ottomani e Asburgo, Polonia, Francia, Germania). Ma nell’epoca in cui tutte le «fobie» sembrano essere diventate reato penale, proprio la «russofobia» sembra invece godere di ottima salute nei media occidentali. E in parecchie cancellerie…

di Eugenio Di Rienzo da Storia in Rete n. 131

«La Russia è l’incarnazione del male assoluto, tutto il suo popolo ha lavorato nel corso dei secoli per la rovina degli altri popoli». Questa frase non è tratta dalla sceneggiatura «Dottor Stranamore» di Stanley Kubrick, una delle pellicole che meglio ha saputo interpretare il clima avvelenato della Guerra Fredda. Questa frase, invece, è stata detta a chi scrive da un valoroso studioso di storia dell’Europa orientale nel corso di un’accesa discussione sulla crisi ucraina avvenuta poco più di un anno fa. Benvenuta allora, per avere a disposizione un efficace contro-veleno contro tali perversioni mentali, la traduzione italiana del volume «Russofobia. Mille anni di diffidenza» (Teti Editore,, pp. 399, € 22,00), opera del politico e giornalista Guy Mettan, già direttore del Club Suisse de la Presse e deputato del Parti démocrate-chrétien elvetico, che è ora disponibile con la bella introduzione di Franco Cardini nella collana «Historos», diretta da Luciano Canfora.  

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Partendo dal Medioevo, fino ad arrivare al recente confronto tra Mosca e Kiev, Guy Mettan ricostruisce le linee di forza religiose, geopolitiche e ideologiche di cui si nutre la russofobia europea (britannica, francese polacca, tedesca), e americana. Attraverso una serrata discussione critica delle fonti l’autore mette in luce le debolezze e le mistificazioni del pregiudizio che ancora oggi porta l’Occidente a demonizzare la Russia e a temere, anche contro evidenza, il suo presunto imperialismo. La russofobia è un male antico radicatosi nella coscienza europea già alla fine del XVI secolo, quando, nel 1591, il letterato inglese Philip Sydney scriveva: «i Moscoviti nati-schiavi, godono nel vivere sotto la tirannia e a opprimere le altre nazioni».  Parole cui avrebbe fatto eco, nel 1835, il giudizio del poligrafo francese, Saint-Marc Girardin, secondo il quale se la Russia fosse riuscita a sottoporre al suo gioco tutti gli Slavi per servirsi di essi in modo da arrivare a dominare l’Europa, il vecchio continente avrebbe perso ineluttabilmente la sua libertà, la sua cultura, la sua anima.

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Nello spazio temporale che separa queste due affermazioni, la sindrome-antirussa avrebbe fatto progressi giganteschi, meglio articolando progressivamente i suoi temi costitutivi e il suo retroterra mentale fino a fare della Russia l’«anti-Europa», concependola come un Impero-Nazione, separato, distante, opposto, antagonista ai valori della civiltà  classica e cristiana, che affondava le sue radici nella corruzione etica e biologica del mondo asiatico. Il 19 ottobre 1797 il governo francese ricevette dal generale polacco, Michał Sokolnicki, il cosiddetto «Testamento di Pietro il Grande»: un falso storico che fu pubblicato durante l’invasione della Russia decisa da Napoleone Bonaparte, in appendice al «Des Progrès de la Puissance russe» di Charles Louis-Lesur, dove si tentava di dimostrare che fin dal  XVIII secolo gli ospiti del Cremlino si erano prefissi di impadronirsi di Parigi, Berlino, Madrid. Dopo la caduta dell’Imperatore, la propaganda contro la Russia fu continuata dal suo ex Grande elemosiniere, Dominique Georges-Frédéric de Pradt, che in una serie di volumi ritrasse l’Impero zarista come una Potenza «asiatica e dispotica, obbligata dalla sua stessa, libido dominandi ad espandersi verso occidente con la violenza e l’inganno».

Questi temi riapparivano immutati, alla vigilia della Guerra di Crimea, nel volume di Charles Hippolyte Barault-Roullon,  «Dangers pour l’Europe: origine, progrès et état actuel de la Puissance russe», per essere poi contraddetti, dopo il 1856,  da numerosi libelli, commissionati dallo stesso Napoleone III, che insistevano sulla necessità di un’alleanza franco-russa per arginare lo strapotere della perfida Albione. Alla russofobia preconcetta si alternò, infatti, per tutto l’Ottocento, una russofilia opportunistica, che non riuscì però a spegnere il contagio dell’odio congenito, a matrice razzista, contro la grande nazione slava. Questo trovò nuovo alimento dopo la rivoluzione bolscevica del 1971. Nel 1932, infatti, l’economista democratico, John Maynard Keynes scrisse che l’oppressione dittatoriale dei Soviet non era altro che «il logico risultato della bestialità della natura russa e di quella giudaica ora fusesi insieme», essendo «la crudeltà e la follia della “Nuova Russia” (comunista) del tutto identiche a quelle della “Vecchia Russia” (zarista)».

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Un filo rosso che si trascina fino alla geopolitica contemporanea, come mostra Mettan esponendo il progetto Prometeizm del 1904 e quello Intermarium del 2012. Subito dopo la fine della Prima guerra mondiale l’Ucraina divenne il perno del progetto Prometeizm, elaborato dalmaresciallo Józef Piłsudski fin dal 1904 e perseguito dai suoi successori ancora alla vigilia del secondo conflitto mondiale con l’obiettivo di mettere la Polonia a capo di un movimento destinato a emancipare le nazionalità non russe (ucraini, caucasici, turco-tatari) dell’impero zarista e poi sovietico. Il Prometeizm doveva portare alla creazione di una Federazione politico-militare (Międzymorze), diretta a provocare la distruzione della potenza economica e militare russa, estesa dal Mare del Nord, al Golfo di Botnia, al Baltico, al Mar Nero, al Mediterraneo, comprensiva in primo luogo dell’Ucraina e poi di Cecoslovacchia, Ungheria, Paesi scandinavi e baltici, Italia, Romania, Jugoslavia, Grecia. Questo programma, significativamente riproposto nel 2012 in una versione solo leggermente modificata, all’attenzione del Dipartimento di Stato statunitense, ha dato luogo, in coincidenza con la crisi ucraina, al cosiddetto progetto Intermarium.  Un patto di mutua assistenza, promosso dal Pentagono, esteso dal Baltico al Mar Nero al Caspio, che avrebbe dovuto essere sottoscritto da Polonia, Lituania, Estonia, Lettonia, Moldavia, Romania, Georgia, Azerbaigian, Turchia, indirizzato a rendere possibile lo smembramento della  Federazione Russa e la sua definitiva liquidazione come Potenza eurasiatica. Si avverava così l’auspicio formulato da un altro polacco, Zbigniew Brzezinski (già consigliere della sicurezza nazionale sotto la presidenza di Jimmy Carter), nel 1997, nel 2004 e ancora nel 2012, che puntava all’obiettivo di «una Russia frammentata in una Repubblica europea, una Repubblica di Siberia e una Repubblica asiatica, più idonee ad assicurare lo sfruttamento delle risorse e del potenziale economico di quella terra troppo a lungo dilapidati dall’ottusa burocrazia moscovita».

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