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I prigionieri italiani nel campo di concentramento francese di Berberati

di Franco Cardini, da Avvenire del 2 gennaio 2013 

La storia generale, la “grande” storia, è tessuta di storie “piccole” e particolari: e, se è vero che queste non sono intelligibili senza quella, è non meno vero che essa non avrebbe senso alcuno senza di loro. Molte storie particolari sono tuttavia ravvolte in un oblìo dal quale sono condannate forse a non uscire mai: e da queste continue “dimenticanze”, talora intenzionali, anche il senso della storia generale esce deformato. Sappiamo parecchie cose, ad esempio, dei soldati italiani che dopo l’8 settembre vennero imprigionati dai tedeschi, dell’eroismo di molti di loro che rifiutarono di collaborare, delle tragedie che in più casi li colpirono.

Ci è molto meno conosciuto, invece, quanto riguarda le vicende di molti soldati catturati dalle truppe alleate: nel caso dei prigionieri in Unione Sovietica si è più fortunati, ma in quelli di molti che finirono in India, negli Stati Uniti o sparsi nel continente africano tutto sembra tacere. Il tutto aggravato dal fatto che quei militari vengono giudicati, a torto o a ragione, gente che in fondo aveva combattuto “dalla parte sbagliata” e non si era voluta redimere collaborando con i loro carcerieri. Quel ch’è meritorio nel caso dei prigionieri dei tedeschi, diventa onta nel loro. Eppure, molto spesso, questo rifiuto di collaborare fu motivato non da opzioni politiche, bensì da un senso di fedeltà al giuramento pronunziato.

Càpita però che di quando in quando un archivio restituisca magari casualmente i suoi tesori, e una serie di vicende umane commoventi o ammirevoli torni quindi a riaffiorare. È quanto è accaduto a proposito di un ignoto campo di prigionìa, quello di Berberati nell’allora colonia francese di Oubangui-Chari, Africa Equatoriale Francese (oggi Ciad), ai confini meridionali con la Libia. Nel continente africano, in contrapposizione a reparti dell’esercito francese ch’erano rimasti fedeli al governo Pétain, si erano presto ricostituiti gruppi armati di resistenza agli ordini di De Gaulle: essi combatterono tra l’altro in Libia e catturarono un certo numero di soldati italiani di stanza nel Fezzan.

La storia dei prigionieri di Berberati ci è narrata ora in un grosso libro frutto delle faticose ricerche di un docente universitario dell’ateneo di Genova divenuto missionario cappuccino, padre Carlo Toso, che in Dalle sabbie del Sahara alla foresta equatoriale. Italiani a Berberati: 1941-1946 (Libreria editrice Bozzi Genova, pp. 382, s.i.p.) ha pazientemente ricostruito le vicende di quei militari avvalendosi anche di alcune preziose testimonianze oculari dovute a sopravvissuti e allegando al volume un’interessante documentazione fotografica inedita. Il lavoro ha trovato collocazione nella collana di “Studi di Storia delle Esplorazioni” diretta dallo storico della geografia Francesco Surdich, cui si deve anche la densa e puntuale Introduzione. Il fatto che presso il campo di Berberati fosse situato un centro missionario cappuccino di Tolosa ha molto facilitato il lavoro del Toso, che però ha diligentemente espedito ricerche davvero in lungo e in largo, in archivi pubblici e privati sia europei, sia africani.

I reparti francesi del generale Leclerc avevano attaccato il Fezzan ai primi del 1941, riportando buoni successi contro truppe italiane non numerose né particolarmente ben armate. Le operazioni militari sono puntualmente e attentamente ricostruite dal Toso, e la sua descrizione risulta tanto più utile in quanto si tratta di un teatro di guerra in effetti piuttosto trascurato dalla ricerca storica. Ma i capitoli più interessanti del libro sono quelli centrali, nei quali si presenta la vita quotidiana del piccolo campo di concentramento – il più piccolo, a quel che sembra, di tutta la storia della seconda guerra mondiale -. Dalla situazione igienico-sanitaria, compromessa dal clima caldo-umido, fino alle attività sportive, ricreative e culturali, è tutto un microcosmo colorato, talora drammatico talaltra divertente, quello che viene ricostruito dall’autore.

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Di speciale interesse, non privo di risvolti artistici veri e proprie, risultano le pagine che illustrano la costruzione di una piccola cattedrale. Doloroso invece, ma anche molto interessante, l’argomento relativo a come la “grande” storia irruppe nel piccolo, disciplinato e tutto sommato tranquillo microcosmo di Berberati, dove i militari prigionieri avevano ricevuto grazie alle loro doti di disciplina e di laboriosità l’apprezzamento dei loro carcerieri. Le notizie relative all’8 settembre, all’armistizio e alla costituzione della Repubblica Sociale determinarono la rottura dell’armonia tra i detenuti: e ciò non fu privo di conseguenze neppure sulle operazioni di rientro dei prigionieri, che cominciarono nel marzo del ’44 per iniziativa della Croce Rossa Internazionale.

Berberati ebbe anche i suoi caduti, 11 in tutto, per cause diverse. Sotto la prosa sempre misurata e le osservazioni sempre ben documentate del padre Toso, si avverte spesso affiorare la commozione: quei soldati sui quali era caduta presto una sorta di oblìo seppero mantenere intatta la loro dignità. E’ una pagina di storia italiana, storia di gente che aveva fatto il suo dovere e che si adattò alle circostanze sfavorevoli con umiltà e con coraggio. In questi tempi di tristi esempi offerti da troppi componenti della società civile attuale, questa lettura riesca confortante.

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Inserito su www.storiainrete.com il 13 gennaio 2012

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