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L'Insolita Storia

Bronzi del Benin: restituzioni, schiavismo e cortocircuiti woke

La decolonizzazione e il tema della restituzione di manufatti e opere custoditi nei musei occidentali hanno innescato un cortocircuito woke intorno ai bronzi del Benin. Le placche e statue, tra le vette dell’arte centrafricana, e custodite in gran parte al British Museum, sarebbero da restituire alla Nigeria. Ma diversi attivisti sostengono che quelle opere furono possibili solo grazie alla tratta degli schiavi che fece arricchire l’antico regno del Benin. Lo stesso metallo usato per i “bronzi” deriverebbe dalla moneta di scambio della tratta. Ergo meglio non restituirli, altrimenti si darebbe dignità agli schiavisti africani.

Polvere sotto il tappeto

Che la filiera dello schiavismo fosse più ampia e che vedesse coinvolti come parte attiva sia regni africani e arabi è fatto storico, ma negli ultimi decenni il tema della decolonizzazione aveva fatto sparire queste riflessioni sotto il tappeto. La decolonizzazione da approccio accademico teorico era tracimato in una visione paranoide, diventado tra i puntelli della nuova intolleranza woke.

Con un dibattito sempre più ampio e un’industria culturale sempre più attiva, la polvere sotto il tappeto torna a farsi viva. E i nodi vengono al pettine. E una volta decolonizzato l’Occidente, è ora il turno di “decolonizzare” le meccaniche di potere e il ruolo della schiavitù in quegli stati che per interesse o loro malgrado si ritrovarono a essere parte attiva della tratta.

Il caso The Woman King

Prima di passare alla questione della restituzione dei bronzi del Benin vale la pena ricordare un altro caso recente di cortocircuito “postcoloniale”. L’operazione intorno alle donne guerriere del regno del Dahomey (corrispondente all’odierno Benin), The Woman King. Film che offre una rilettura femminista della resistenza coloniale di uno stato africano. Stato africano ben addento alle meccaniche della tratta degli schiavi. Elemento che prima ha portato alla rinuncia di un’attrice di primo piano come Lupita Nyong’o a rinunciare al film (realizzando invece un più equilibrato documentario) con parole come: «Le donne Agoji sono state coinvolte nella tratta degli schiavi e questo ha cambiato le dinamiche e la polarizzazione del Benin fino ad oggi. Da un lato sono un simbolo del potere del femminile, ma sono anche il dolore… hanno causato il male».

Mentre dopo l’uscita del film (che pure da traccia del contributo alla tratta) non sono mancanti commenti come quelli del The New Yorker che scrive: «Ma “The Woman King” sceglie di fare della resistenza alla schiavitù la sua bussola morale, per poi travisare un regno che ne trafficava decine di migliaia come un’avanguardia nella lotta contro di essa».

Regno del Benin come i Confederati?

Insomma dopo aver decolonizzato l’Occidente c’è il concreto rischio che la decolonizzazione debba continuare anche nei confronti dei colonizzati, che in qualche caso esercitavano l’oppressione nei confronti di qualche vicino. È la Storia bellezza, verrebbe da dire.

Ma visto che per i principi dietro all’ideologia woke vale più il proprio sentire e non i fatti, questo aspetto era stato fatto sparire. E adesso che la macchina decolonizzatrice woke è partita non mancano i cortocircuiti. Cosa fare delle opere d’arte di un Regno “colonizzato” dall’Impero britannico (quello nel 2021 è stato definito da illustri accademici britannici “molto peggio dei nazisti ed è durato molto più a lungo”), ma a sua volta elemento cruciale del meccanismo della tratta? Opere d’arte realizzate secoli prima della conquista britannica quando la ricchezza fluiva nelle casse del piccolo regno grazie alla schiavitù?

Forse, stavolta, meglio non decolonizzare il British Museum. Ma andiamo con ordine.

La spedizione del 1897

Fino al 1897 il regno del Benin era rimasto uno stato indipendente, ma in seguito alla Conferenza di Berlino del 1884 l’interesse britannico nell’aerea si era fatto sempre più ampio. Tra il dicembre 1896 e il gennaio 1897 si mosse verso il Benin una piccola spedizione dal vicino protettorato britannico, il Niger Coast Protectorate.

Ovonramwen negli anni dell’esilio (via Commons – National Archives)

La spedizione, organizzata da James Robert Phillips, con circa 200-300 uomini (principalmente portatori indigeni). Una spedizione privata, avviata senza ottennere l’avvallo della Royal Niger Company, con Robert Philips interessato a spodestare il Ovonramwen, l’Oba (il re) del Benin, per ampliare le possibilità commerciali del protettorato. Muovendosi senza ottenere il via libera dei locali, Robert Phillips e gran parte dei suoi uomini perirono in un’imboscata.

Evento che diede l’occasione ai britannici di organizzare una spedizione militare con oltre 1.200 uomini che portò alla conquista e al saccheggio della città, e l’annesione del regno al protettorato britannico. Nel sacco della città verrano catturate gli oltre 2.500 manufatti in ottone e bronzo che verranno comunemente identificati come “bronzi del Benin” e simbolo di oltre 5 secoli di storia del Regno africano.

Nei musei europei

Il grosso della collezione finì al British Museum, il resto venne rivenduto tra musei europei, come il Museo Etnologico di Berlino, e negli Stati Uniti. A partire dagli anni ’70 il British rivendette alcuni dei bronzi considerati doppioni in sovrannumero alle autorità nigeriane, ma di fatto rimasero dei casi isolati. Solo a partire dagli anni ’10 si iniziò a parlare più estesamente di una restituzione.

Restituzione nel quadro delle operazioni di “decolonizzazione” delle collezioni custodite nei musei occidentali.

I bronzi del Benin a terra, nel complesso del palazzo dell’Oba del Benin, febbraio 1897 (via Commons)

I bronzi frutto della schiavitù?

Un dibattito sempre più ampio a livello internazionale, e con restituzioni sempre più frequenti da parte di pezzi isolati negli ultimi cinque anni. Capofila del processo di decolonizzazione il Museo Etnologico di Berlinom anche nel quadro della riorganizzazione delle collezioni nella nuova sede dell’Humboldt Forum. Anche se di fatto per la collezione tedesca, pur nell’ambito di singole restituzioni, si parla di una possibile cessione formale della proprietà di parte della collezione, che rimarrebbe a Berlino come un prestito a lungo termine.

Ma nell’agosto 2022, sul fronte statunitense e britannico inizia a farsi vivo un gruppo di attivisti che contesta il ritorno dei bronzi del Benin alla Nigeria perché, “frutto della schiavitù“. Il tema è tornato al centro del dibattito recentemente in relazione alla restituzione della collezione di bronzi del Benin dell’Università di Oxford, che consta di 97 pezzi. E dell’azione legale avviata per fermare queste restituzioni. Quella che ad agosto 2022 sembrava quasi una “trollata” intorno al tema dibattutto delle opere d’arte “prede di guerra” è diventato oggetto di dibatitto.

Deadria Farmer-Paellmann e il Restitution Study Group

Riferisce il sempre attento Craig Simpson del Telegraph, sempre attento a queste tematiche, la posizione di Deadria Farmer-Paellmann (afroamericana e fondatrice del Restitution Study Group, piccola no-profit attiva nel campo delle “riparazioni” per la schiavitù negli Stati Uniti). Ma che sulla question del Regno del Benin si pone in maniera assolutamente netta rispetto ai “decolonizzatori occidentali”:

«Sospendere immediatamente i piani di rimpatrio dei bronzi in Nigeria in quanto è moralmente indifendibile prendere una tale decisione contro l’espressa volontà di quelli di noi nel Regno Unito, negli Stati Uniti e nel Commonwealth, i cui antenati hanno letteralmente dato la vita affinché i Bronzi potessero essere creati […].

Le azioni di rimpatrio dei Bronzi avrebbero l’effetto di premiare due volte la schiavitù.».

I “manilla”, la valuta della tratta e il metallo dei “bronzi”

Oggetto del contendere il fatto che la ricchezza del Benin (almeno nel periodo a cavallo tra XV e XVI secolo) derivasse dal commercio degli schiavi. Commercio degli schiavi che non portò solo ricchezza in senso lato. La ricchezza non permise solo lo sviluppo dell’arte e del mecenatismo. Ma i “bronzi del Benin” vennero realizzati fisicamente con quella ricchezza.

Ovvero i “manilla”, i braccialetti di rame o ottone che divennero una sorta di moneta nella regione. I manilla una valuta associata al commercio degli schiavi.

E l’origine del metallo per la realizzazione dei “bronzi” veniva proprio dalla fusione dei “manilla”. Era l’accumulo stesso di quella moneta che consentiva la realizzazione dei bronzi.

Questa in sintesi la posizione della Farmer-Paellmann che ha avviato prima un’azione legale nei confronti dello Smithsonian statunitense e una seconda nei confronti delle collezioni britanniche per impedire il rimpatrio dei bronzi.

E una parte della società britannica, ben attenta alle proprie collezioni museali, ha subito approfitato della posizione. Insistendo su come in questo caso, l’operazione di decolonizzazione, andrebbe a rappresentare un’inversione etica e morale della decolonizzazione stessa.

Quindi tanto meglio lasciarle nelle mani civilizzatrici degli eredi dell’impero britannico. Peccato che negli usa i fautori del Progetto 1619 non abbiano ancora commentato la vicenda.

Al netto delle valutazioni, come scriveva Juliet Samuel sempre sul Telgraph a fine agosto, è evidente che il “mostro woke ha iniziato a mangiare sè stesso“.

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