Non fu una folgorante vittoria la prima prova di Napoleone in guerra: giovane ufficiale d’artiglieria, assieme ai suoi due fratelli partecipò al dilettantesco tentativo della flotta repubblicana francese di sbarcare in Sardegna nel 1793, per farne una base dalla quale minacciare gli stati italiani. Ma le milizie sabaude erano tutt’altro che un osso facile per le soldatesche francesi e corse, e la disfatta le colse in breve, anche grazie alla bravura di un dimenticato eroe italiano: Domenico Millelire. Napoleone perse alla Maddalena, e soprattutto perse la sua origine corsa, perchè dopo la sconfitta e le polemiche che ne seguirono, l’isola ne ripudiò il nome. E fu così che divenne integralmente francese…
di Armando Russo
Narrano le cronache del tempo che la mattina del 22 febbraio 1793 spirava un moderato vento di ponente. Sedici piccole navi, precedute dalla corvetta Fauvette, in quella fredda giornata si dirigevano all’imboccatura orientale delle bocche di Bonifacio, il braccio di mare che divide la Corsica dalla Sardegna, per assaltare l’isola della Maddalena. A bordo della Fauvette un giovane ufficiale di Ajaccio, Napoleone Buonaparte, non ancora ventiquattrenne, scrutava l’orizzonte pensando all’attacco imminente e non immaginando quanto lontano lo avrebbe condotto il suo destino. Ma facciamo un passo indietro, per meglio comprendere il perché di questa spedizione. Benché il boato della Rivoluzione Francese avesse dato uno scossone a tutta l’Europa monarchica e assolutista, nella Sardegna sabauda di Vittorio Amedeo III l’eco dei grandi eventi rivoluzionari era giunta smorzata per via del torpore sociale, conseguenza dell’anacronistico ordinamento feudale, che albergava sull’isola. Del tutto indifferente alle sorti dell’isola era la corte di Torino (non per nulla nel 1784 Vittorio Amedeo aveva invano offerto la Sardegna all’imperatore d’Austria in cambio di possedimenti in Lombardia), del tutto disinteressata ai grandi avvenimenti in atto era la maggior parte della popolazione. Così, nonostante fosse scoppiata una guerra che vedeva contrapposta la Francia rivoluzionaria ad una coalizione europea di cui faceva parte anche il Regno di Sardegna, nella sonnacchiosa Cagliari l’avvenimento principale era costituito dalle polemiche scoppiate tra le dame in merito alle precedenze nell’assegnazione dei palchi a teatro. Assenza totale, dunque, di una propensione all’accoglimento delle nuove idee da parte della popolazione, a parte qualche isolata testa calda qua e là, come l’avvocato sassarese Giocchino Mundula, che per aver augurato il successo alle armi francesi nel 1793 era stato prontamente gettato in prigione.
Tutt’altra atmosfera nella vicina Corsica, dove, fin dal 1729, la pressoché costante lotta armata per l’indipendenza dell’isola, prima contro la Repubblica di Genova e poi contro la Francia del vecchio regime, aveva predisposto gli animi ad una ben diversa accoglienza delle nuove idee. Sotto la guida del loro «babbo» Pasquale Paoli, il Washington di Corsica, pur sconfitti a Pontenuovo nel maggio del 1769 dal regio esercito francese, i corsi non avevano mai abbandonato la speranza di una patria affrancata dalle dominazioni straniere. La Rivoluzione aveva aperto le porte dell’esilio inglese a Paoli e prometteva (almeno sulla carta) libertà e uguaglianza a tutti i popoli. Il 16 luglio 1790 Paoli era sbarcato a Macinaggio, accolto da una popolazione in visibilio, un sentimento d’amore per il vecchio condottiero che è resistito fino ad oggi. Basti pensare che in un qualsiasi bar o ristorante, il turista di passaggio può facilmente notare appeso al muro un quadro con il ritratto di «u babbu di a patria». La lingua principale del sito web a lui dedicato (www.pasqualepaoli.com) è il dialetto corso. Inizialmente, il generale palesò un perfetto allineamento alle nuove idee, probabilmente perché la protezione della Grande Nazione gli sembrava indispensabile per preservare l’isola da ogni minaccia esterna. In realtà, tutto desiderava fuorché l’assimilazione. La Repubblica, dopo gli iniziali rovesci militari, aveva trovato il giusto passo, giungendo ad occupare il Belgio e a minacciare l’Olanda. Nizza e la Savoia erano state annesse. Allo scopo di creare un diversivo utile a stornare truppe nemiche dal fronte della Savoia e del Varo, oltre che procurarsi basi di appoggio destinate ad azioni di rappresaglia nei confronti del Granducato di Toscana, Stato Pontificio e Regno di Napoli, a Parigi si era decisa l’occupazione della Sardegna. Truppe volontarie corse, supportate da una flotta e da una milizia francese, avrebbero avuto l’onore di far parte dell’impresa militare. Il piano prevedeva un attacco su due fronti: quello principale, portato dalla flotta francese al comando dell’ammiraglio Truguet, avrebbe sbarcato un corpo di spedizione nel golfo di Cagliari. Quello secondario, a nord sull’isola della Maddalena, aveva l’obiettivo di disorientare gli avversari.
A Paoli, fin da subito, l’idea non piacque. Forse perché influenzato da un giovane avvocato dai sentimenti anglofili, Carlo Andrea Pozzo di Borgo, col passare dei mesi iniziava a denotare una certa insofferenza verso la politica rivoluzionaria, più diretta all’occupazione militare che alla diffusione degli ideali di libertà e uguaglianza. In più, guardava ai sardi come ad un popolo fratello, per nulla soddisfatto di dovergli muovere guerra. Entusiasti dell’avventura militare erano invece i fratelli Buonaparte, Napoleone, Luciano e Giuseppe. Quest’ultimo addirittura affermava che i francesi sarebbero stati accolti in Corsica con fanatismo e che una falange dei suoi compatrioti avrebbe marciato con i soldati alleati su Cagliari fino alla vittoria comune. La famiglia Buonaparte, di Ajaccio, era devota alla figura del Babbo. Il padre di Napoleone, Carlo, era stato uno dei suoi più fedeli luogotenenti nel corso della lotta per l’indipendenza. Ma analoga devozione i giovani rampolli corsi la rivolgevano alla Repubblica. I fatti della Maddalena dimostreranno che i due sodalizi erano incompatibili.
Tutto dunque era pronto per l’invasione. L’ammiraglio Truguet, comandante la flotta del Mediterraneo, all’inizio dell’anno 1793 gettò le ancore nel porto di Ajaccio, da cui sarebbe salpato per attaccare Cagliari. A Paoli fu ordinato di fornire le truppe necessarie per l’azione diversiva alla Maddalena, cui si sarebbe aggiunto un piccolo reparto regolare francese (150 granatieri del 52° Reggimento di linea al comando del capitano Réunies) e, come equipaggio, un contingente di volontari provenzali, più simili in verità a pirati della Tortuga che a militari. Questi ultimi, riottosi ad ogni disciplina, furono protagonisti di gravi disordini. La sera del 9 febbraio poco mancò che uccidessero Napoleone, il quale li aveva apostrofati per lo spettacolo indecoroso che essi stavano dando per le vie di Bonifacio, lungo le quali sciamavano cantando ubriachi. Alcuni gli diedero addosso, costringendo il futuro imperatore a nascondersi sotto un portico. Individuato, si salvò solo grazie all’intervento di un sottufficiale che, con un colpo di stiletto, uccise uno di quegli scalmanati. Alla vista del compagno morto, gli altri si diedero alla fuga. Benché riluttante, il Babbo acconsentì a fornire gli uomini necessari all’azione militare della Maddalena. Il comando delle truppe d’invasione, imbarcate sulle diciassette piccole navi capitanate dalla corvetta Fauvette, fu affidato al colonnello Colonna-Cesari, nipote di Paoli. Erano costituite da 450 volontari corsi al comando del colonnello Quenza e dalla compagnia del capitano Réunies. Il comando dell’artiglieria (non granché in verità: due cannoni e un mortaio) era stato affidato a Napoleone, capitano d’artiglieria nel reggimento La Fére, ma per l’occasione tenente colonnello della Guardia Nazionale corsa.
La partenza era prevista nella notte tra il 18 e il 19 febbraio, ma le avverse condizioni di tempo costrinsero i franco-corsi a fare marcia indietro. Anche il 20 e il 21 i venti capricciosi imposero l’inazione. Finalmente, alle quattro del mattino del 22 febbraio 1793 l’avventura cominciò. Comandante dell’isola della Maddalena era il capitano Giuseppe Maria Riccio, il quale da qualche tempo aveva manifestato al viceré di Sardegna Balbiano le proprie preoccupazioni circa un possibile sbarco francese a nord, sulla base di informazioni ricevute da pescatori. Nonostante le rassicurazioni del superiore, poco convinto della cosa, Riccio aveva rinforzato le difese dell’isola (il cui zoccolo duro era costituito dai Forti «Balbiano» e «S. Andrea») come meglio poteva, reclutando perfino pastori galluresi ed evacuando donne e bambini dalla zona. Fece preparare anche una bandiera votiva (oggi conservata nella sala consiliare del Municipio della Maddalena) con il motto «Per Dio e per il Re. Vincere o morire».
Il convoglio francese giunse intorno alle nove sull’obiettivo. Mentre parte di esso accostava all’indifesa isola di Spargi per razziare bestiame, la Fauvette si spinse in prossimità dell’isola madre, subito inquadrata dagli uomini del Forte Balbiano. Un primo tentativo di sbarco sull’isola principale fu frustrato dalla presenza di un gruppo armato (uno di questi era comandato dal nostromo Domenico Millelire, che di lì a poco si sarebbe distinto) che l’aiutante di Riccio, cavaliere de Constantin, aveva posto nei punti più adatti allo sbarco: Padulla, Tegge, Nido d’Aquila, Cala Francese, Guardia del Turco e le cale Chiesa, Camicia e Moneta. Così, agli invasori non restò che arretrare nei pressi di Punta Tegge. Le batterie del Forte Balbiano presero di mira la corvetta francese, che rispose al fuoco. La posizione della Fauvette era finalizzata a proteggere uno sbarco sull’isola di Santo Stefano, che fronteggiava il porto della Maddalena ed era protetta dall’omonima torre quadrata presidiata da una trentina di uomini. Nella notte del 22 gli uomini di Quenza e Buonaparte sbarcarono presso Villa Marina e senza troppe difficoltà, grazie al fuoco intenso della Fauvette alla fonda presso la cala di Villa Marina, il giorno successivo espugnarono il Forte. Subito l’artigliere Buonaparte pose in linea all’alba del 24 la propria batteria, iniziando un cannoneggiamento pesante sulla Maddalena. Se lo sbarco fosse stato effettuato durante il cannoneggiamento, scrisse poi nel suo rapporto, il successo sarebbe stato certo. «In guerra l’attimo è tutto», sarà solito dire in seguito ai suoi marescialli. Il bombardamento durò tutta la giornata del 24 febbraio. I proiettili arroventati caddero dappertutto, fiaccando il morale dei difensori. Una palla di cannone sfondò la finestra della Chiesa parrocchiale, piombando ai piedi della statua di Santa Maria Maddalena, ma senza scalfirla. Le batterie dei due Forti furono messe a tacere: il giovane artigliere conosceva il suo mestiere.
De Constantin, preoccupato per la perdita del fuoco di sbarramento che le batterie dei Forti finora avevano garantito, decise un’azione notturna che avrebbe avuto come obiettivo il collocamento di due cannoni presso Palau per colpire la corvetta e gli altri legni ad essa vicini. Si offrì come volontario per il blitz il nostromo Domenico Millelire. Costui, a bordo di una lancia e aiutato dal marinaio Tommaso Zonza, nella notte del 24 approdò nel luogo designato e, con l’aiuto di alcuni pastori, piazzò la sua batteria presso Punta Nera. Il tiro del nostromo con palle infuocate causò morte e sgomento sulla Fauvette, costringendola ad abbandonare la propria posizione. Ma Millelire ne intuì il movimento e spostò la batteria a Capo d’Orso, a sud di Palau, non dando tregua al nemico. A quel punto, presi dal panico, i provenzali si ammutinarono. A nulla valsero i tentativi di Colonna-Cesari di riportarli alla battaglia. Nonostante minacciasse di far saltare in aria la nave, nessuno si mosse. Alla fine, preso da una crisi di nervi, proruppe in un pianto isterico, guadagnandosi così subito il soprannome di «plereur» (piagnone). Gli ammutinati inviarono un ufficiale a S. Stefano per ordinare a Quenza e Buonaparte di ritirarsi. Napoleone s’indignò, ma i suoi uomini, temendo che il convoglio prendesse il largo piantandoli in asso, si precipitarono verso la spiaggia urlando «si salvi chi può». Ancora peggio: Napoleone, colmo d’ira e di amarezza, dovette abbandonare i suoi cannoni, che oggi fanno bella mostra di sé nel Museo di Artiglieria di Torino.
La poco gloriosa invasione della Sardegna si chiuse il 25 febbraio 1793 con la mesta ritirata della flotta franco-corsa, mitragliata per di più durante la sua fuga dal solito Millelire che, narrarono ai loro nipoti i pastori galluresi, inseguì il nemico fin quasi in Corsica. Anche la spedizione principale si era risolta in fallimento. Il 23 gennaio Truguet aveva iniziato il bombardamento di Cagliari dal mare. Due giorni dopo gli assalitori erano sbarcati, ma era bastata una sparatoria notturna per metterli in fuga. Poi, il mare grosso aveva fatto il resto, tramutando la furia francese in una ritirata… spagnola. Mentre in Sardegna vi fu grande giubilo per la vittoria (all’ardimentoso Domenico Millelire fu concessa la prima medaglia d’oro della Marina Sabauda), la delusione per lo scacco subito provocò la reazione furiosa di Napoleone, il quale non mancò di addossare tutte le colpe a Colonna-Cesari, entrando così in netto contrasto con Pasquale Paoli. Non solo, il fratello Luciano accusò apertamente di tradimento il Babbo, avvalorando la voce che Paoli avesse segretamente ordinato al nipote di far fallire la spedizione (ipotesi peraltro mai provata). La vendetta del vecchio condottiero non si fece attendere: i Buonaparte furono dichiarati nemici della patria e votati ad eterna maledizione e infamia; la loro casa di via Malerba fu saccheggiata e in parte data alle fiamme. La fuga dalla Corsica restava ormai l’unica soluzione. In quel momento Napoleone era solo un profugo, senza patria e senza avvenire. Chi avrebbe potuto prevedere che quell’anonimo ufficiale, il quale pochi giorni addietro aveva cannoneggiato le modeste case dei pescatori della Maddalena, da lì a un decennio sarebbe diventato Imperatore dei Francesi.
Armando Russo
Questo articolo è stato pubblicato su Storia in Rete n° 19