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Altro che neo borbonici: il vero pericolo sono i nostalgici degli Asburgo

Ho sempre guardato con sospetto quanti – specie i cattedratici, categoria che come sappiamo non ha mai brillato per acume e limpidezza negli accessi agli insegnamenti – sostengono che la Storia dovrebbero scriverla i professionisti. Quasi che uno storico di professione sia, in quanto tale, immune da svarioni, cazzate, pregiudizi, malafede, superficialità, ideologismi e qualsiasi altra cosa possa inficiare o condizionare un ragionamento. Ovviamente non è così. Però poi, a volte, ti capitano sott’occhio certe cose e i dubbi ti vengono. L’ultima volta che mi è accaduto è stato pochi giorni fa, quando ho letto l’editoriale di Vittorio Feltri sul quotidiano “Libero” del 18 marzo.

Prendendo spunto dalla celebrazione – sempre in sordina, non sia mai… – del 160° anniversario dell’Unità d’Italia (17 marzo 1861), Feltri si è sentito in obbligo di riprendere le solite fesserie para-leghiste di oltre trent’anni fa sul Risorgimento. Ecco una prima “perla”: «Il cosiddetto risorgimento, come sosteneva Giuseppe Prezzolini, fu una manovra elitaria, praticata senza la partecipazione passionale del popolo. Fu cioè essenzialmente la rivoluzione di una classe, quella media, imposta da una minoranza. I combattenti risorgimentali erano avvocati, professori, preti, mercanti, studenti e alcuni mazziniani, gente povera ma illusa. Infatti, fra i Mille di Garibaldi non risultava neanche un contadino, e i trecento bergamaschi che parteciparono alle spedizioni del generale dei due mondi erano valligiani seriani che furono assoldati in quanto vennero assicurati loro due pasti al dì, una divisa di lana, qualche bicchiere di vino e un sigaro toscano».

Notate qualche contraddizione? Io almeno un paio e neanche tanto piccole. La prima: la “rivoluzione” del Risorgimento è stata una rivoluzione del ceto medio, borghese. Perché la Rivoluzione francese l’hanno fatta i contadini oppure proprio tra i contadini – specie in Vandea – la Rivoluzione ha trovato i suoi più forti oppositori? O forse i bolscevichi sovietici erano contadini ignoranti oppure intellettuali e borghesi? E la rivoluzione americana chi l’ha fatta? E così via: da sempre sono le classi colte a muoversi perché in grado di dare “un indirizzo” a quella che se no sarebbe semplicemente una rivolta come ce ne son state tante nella Storia e quasi mai andate oltre un momentaneo bagno di sangue. Ma Feltri – che è riferimento giornalistico di una classe borghese, mediamente colta, pur non essendolo per niente – ne dice anche un’altra bella grossa e cioè che i “garibaldini” – pur non avendo contadini tra le proprie fila ma avendo invece studenti, intellettuali e professionisti – han riempito le proprie fila di gente che andava a caccia di una paio di pasti al giorno, un vestito caldo e di un sigaro… A “Libero” nessuno rilegge i pezzi? Pare di no.

Altra perla: «Col trascorrere degli anni, se possibile, registrammo notevoli peggioramenti. La prima guerra mondiale fu promossa con ardore dalle stesse categorie di signori che avevano preteso la fasulla Unità: borghesi e borghesucci di varia estrazione. I quali ebbero la crudeltà di spedire nelle trincee dei poveri cristi, costretti ad ubbidire per via della leva obbligatoria, uomini provenienti dalle valli settentrionali nonché calabresi, abruzzesi, eccetera. Data la profonda diversità dei dialetti, i commilitoni nemmeno erano in grado di colloquiare (…) Nei combattimenti insensati con gli austriaci i nostri soldati ci lasciarono le penne a centinaia di migliaia, nessuno di loro aveva capito i motivi della belligeranza. Una guerra più cretina e improduttiva non era ipotizzabile».

Anche qui Feltri non la racconta giusta: i “borghesucci” in trincea ci andarono in massa, insieme ai proletari di ogni regione. E non c’è storico serio che non abbia riconosciuto proprio nell’esperienza drammatica della Grande Guerra uno dei momenti più importanti dell’unificazione nazionale proprio per la “stretta coabitazione” al fronte tra italiani di regioni diverse. Che poi, per l’Italia, la Prima guerra mondiale sia stata “cretina e improduttiva” lo può dire solo uno che non ha ben chiaro – e non ha a cuore – il Risorgimento visto che nel novembre 1918 l’Italia conclude proprio quel processo iniziato con la Prima guerra d’Indipendenza del 1848/49. Fu una guerra, drammatica e sanguinosa come tutte le guerre ma necessaria almeno per chi aveva ed ha a cuore il progetto dell’Italia Unita. Che poi, al di là delle motivazioni del conflitto, ci fossero soldati restii a rischiare la pelle e che certe strategie militari si siano rivelate ottuse e folli (su tutti i fronti ben inteso) è nell’ordine delle cose, credo accada da qualche migliaio d’anni… Forse una pur minima pulsione alla moderazione Feltri l’avrebbe avuta se avesse memoria dell’indecente dichiarazione di voto fatta alla Camera il 4 ottobre 2018 dall’onorevole Pd Anna Ascani in merito alle celebrazioni per la vittoria italiana nella Guerra 1915-1918. Forse l’idea di sostenere tesi infami simili a quelle propugnate da quel Partito Democratico che tanto osteggia e critica, l’avrebbe fatto riflettere un attimo. E invece niente.

Insensibile ad ogni considerazione e pudore – sta pur sempre affrontando temi che hanno riempito biblioteche da decenni… – Feltri poi continua: «Pur avendola vinta non ne traemmo alcun vantaggio se non di tipo funerario. Dimenticavo, nelle trattative di pace – si fa per dire – ottenemmo l’annessione del Sudtirolo chiamandolo italianamente e stupidamente Alto Adige, dove dalla mattina alla sera gli abitanti furono obbligati a fingere di comprendere la nostra lingua. Bell’affare». Insomma, il trattamento ricevuto dall’Italia dai suoi “alleati” a guerra finita diventa solo un altro, ennesimo, esercizio, di incapacità della nostra classe dirigente. Che lo sarà pur stata ma è anche vero che a Versailles la delegazione italiana, al tavolo della pace, aveva contro praticamente tutti… Che poi chiamare “Alto Adige” il “Sud Tirolo” sia stata una fesseria è tutto da vedere ma, toponomastica a parte, è proprio qui che casca l’asino, come vedremo tra poco. Per ora una prima considerazione: Feltri non legge “Storia In Rete”. Seconda considerazione: Feltri probabilmente non legge, almeno non legge libri di Storia. Né sulla Prima né sulla Seconda guerra mondiale, tema al quale dedica anche un gustoso e surreale riassunto: «Non fosse bastato il primo conflitto mostruoso, due decenni dopo ci avventurammo in un secondo disastro, quello benedetto da Benito Mussolini, essendo diventato complice di Hitler. Un’altra guerra scellerata, cataste di cadaveri, militari inviati in Russia con gli zoccoli, malamente armati, senza contare i bombardamenti patiti dalle nostre città». Tra le tante cose segnalo la chicca degli zoccoli ai nostri soldati in Russia. Chissà dove l’avrà presa…

E andiamo a concludere. Scrive Feltri: «A quasi due secoli dai tempi garibaldini l’Unità d’Italia rimane un sogno realizzato soltanto in parte, una parte minima. Nord e Sud, Est e Ovest sono appiccicati solamente sulle carte geografiche. Per il resto sono distanti sia sul piano economico e sociale, sia su quello dei costumi. Chi non se ne rende conto è perché non conosce le nostre regioni se non superficialmente». Dietro la rozzezza dell’analisi che confonde i problemi veri con una inconsistenza di fondo che non c’è, fa capolino la vera “vena ispiratrice” di Feltri e di quanti ragionano – si fa per dire – come lui (una antologia esaustiva la si trova tra i commenti al suo pezzo). C’è, endemica nel nostro Nord-est, una certa nostalgia “asburgica” che ha base, se possibile, ancora più mitiche e fragili delle nostalgie “neo borboniche”. Le argomentazioni dei “neo asburgici” sono più rozze e quindi più radicali di quelli che si raccolgono nel Meridione. Con una differenza sostanziale, non da poco: al Sud – lo fa Pino Aprile ancora una volta nel prossimo numero di “Storia In Rete”, aprile 2021 – si critica per lo più il “processo risorgimentale”, chiedendo una rilettura di quegli anni più aderente – a loro dire – alla tragica realtà dei fatti. Ma non si intende mettere in discussione il processo unitario in quanto tale. Cosa che invece i neo asburgici fanno. Al Sud non si vuol tornare al Regno delle Due Sicilie ma dare, storicamente, al Regno borbonico quello che si pensa gli sia dovuto dalla verità storica. Nell’ex Lombardo-Veneto si punta invece, senza tanti giri di parole o elaborazioni teoriche (finite con quel cervello fino ma deviante del professor Miglio), alla secessione. Le cazzate di Feltri stanno insieme a certe pericolose uscite del governatore del Veneto Zaia. E il progetto politico che si cerca dietro i “neo borbonici” senza davvero trovarlo perché non c’è (mentre c’è disagio culturale e sociale, quello sì), dietro i nostalgici degli Asburgo esiste sia pure a livello embrionale. Con una ulteriore e non secondaria differenza: i Borbone erano, al momento della loro caduta, ormai una “dinastia italiana” e il loro regno vantava una storia plurisecolare. Gli Asburgo sono stati una dinastia straniera e ostile che ha invaso e occupato l’Italia per secoli, condizionandone la politica, sfruttandone le risorse e umiliando la componente italiana a vantaggio di quelle tedesca e slava. E detto di passaggio, a proposito di guerre “cretine e improduttive”, bisognerebbe ricordare a Feltri – indicandogli dove sta Vienna – chi di fatto fece scoppiare la Prima guerra mondiale…

Ecco un fronte storiografico e politico che attende di essere affrontato per tempo, prima che i “neo borbonici” facciano scuola anche nel Nord-Est. E dalle intemerate “alla Feltri” si passi ad un più articolato sistema basata su libri, siti, convegni, manifestazioni. Un humus che potrebbe trovare più facilmente che nel Mezzogiorno una sponda politica. E allora inizierebbero i guai

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