2006: si sono svolte le rievocazioni della vittoria del Duca di Savoia e di suo cugino il Principe Eugenio sui francesi del Re Sole: mostre, convegni, presentazioni di libri. L’evento è stato legato anche alla leggendaria figura del patriota Pietro Micca, che si sacrificò per bloccare un’incursione sotterranea di francesi nella Cittadella di Torino. Ma perché quella giornata campale è così importante per la storia d’Italia?
di Aldo A. Mola, da Storia in Rete n° 11
Di rado una battaglia ha avuto tanta importanza nella storia come quella che avvenne a Torino il 7 settembre 1706. Quel giorno si giocarono le sorti del ducato di Savoia e con esse quelle d’Italia. Vediamo sinteticamente perché. Dal 1559, con la pace di Cateau Cambrésis, a fine Seicento la Spagna ebbe l’egemonia sull’Europa e in specie sul Mediterraneo occidentale e sull’Italia. Non si trattò di dominio assoluto. La potenza della Spagna si basava su due capisaldi. In primo luogo, essa disponeva di un immenso impero coloniale, che andava dal Messico alla Terra del Fuoco (incluse Cuba, California e Florida), a molti tratti della costa africana e, in Asia, dalle Filippine alle Marianne e altro. Basta visitare una «torre di guardia» spagnola, da Populonia a Cabo de Gata, per capire che cos’è e come funzione un impero. Del resto lo avevano già fatto Romani e Arabi. In secondo luogo, gli Asburgo che regnavano a Madrid erano un ramo della stessa Casa che a Vienna aveva la corona del Sacro Romano Impero e costituiva la fonte di tutti i poteri legittimi riconosciuti dalla Chiesa cattolica apostolica romana. Ma il Papato contava? Era fondamentale. Dal punto di vista politico la Chiesa di Roma era stata indebolita dalla Riforma (luterani, calvinisti, anglicani…) ma risultò rafforzata dall’avanzata dei Turchi-ottomani che soggiogarono terre prevalentemente cristiane-ortodosse a cominciare da Costantinopoli. La Terza Roma, cioè Mosca, sede di un patriarcato ortodosso, dal punto di vista politico-militare contava poco, dal punto di vista religioso in Occidente era meno di zero.
Come detto, la Spagna esercitava il dominio diretto o indiretto sull’Italia: ducato di Milano, Regni di Napoli e Sicilia, Sardegna, Stato dei Presidi in Toscana (inventati per tenere sotto controllo Granducato di Toscana e Stato Pontificio), basi in Liguria (per esempio il marchesato di Finale Ligure, che consentiva la comunicazione diretta con Milano, passando per Cairo Montenotte-Alessandria-Tortona). Un altro passaggio chiave era il «cammino degli spagnoli» che permise a circa centomila fanti e cavalieri di andare dal Milanese alla Franca Contea e alle Fiandre spagnole attraverso il ducato di Savoia, cioè una lingua di terra che il duca Carlo Emanuele I tenne per sé con il trattato di Lione del 1601 con il quale cedette a Enrico IV di Francia l’attuale dipartimento dell’Ain in cambio del marchesato di Saluzzo. La Spagna «decadeva» (a chi non accade?) ma non cadeva, benché Francia, Inghilterra e Olanda (Paesi Bassi, di confessione prevalentemente calvinista) cercassero di scalzarla. In un’Europa nella quale paci (provvisorie) e trattati d’alleanza erano suggellati da matrimoni tra dinastie antagoniste accadde il colpo di scena. Il re di Spagna Carlo II d’Asburgo non ebbe eredi diretti. La Corona passò a un nipote indiretto, il diciassettenne Filippo di Borbone, duca d’Angiò (Versailles, 1683-Madrid, 1746). Questo Filippo era nipote diretto di Luigi XIV e Maria Teresa d’Asburgo-Spagna. Così funzionavano e funzionano le leggi dinastiche nelle Case regnanti. Gli Asburgo d’Austria, però, non furono affatto d’accordo. Perché così funzionano gli interessi degli stati: vanno d’accordo col diritto se conviene, se no, no. L’imperatore del Sacro Romano Impero non fu l’unico a dichiararsi contrario alla successione dinastica. Si associò un lungo elenco di stati medi e piccoli dell’Europa continentale (il neonato regno di Prussia, i Paesi Bassi, le repubbliche di Venezia e di Genova) e l’Inghilterra: tutti essi avevano molto da temere e da perdere dalla potenziale fusione o quanto meno da un’alleanza oggettiva tra la Spagna e la Francia, che a sua volta si stava procurando un impero coloniale dal Canada ai Caraibi, a tratti di costa africana e basi in India. A differenza dell’Austria e del Sacro Romano Impero, esclusivamente continentali, Spagna e Francia, con un versante mediterraneo e uno atlantico, erano condannate ad avere un destino marittimo. E questo disturbava molto sia i Paesi Bassi sia, e soprattutto, l’Inghilterra che stava emergendo quale potenza coloniale (New York, Città del Capo, prime basi in India…). Di lì, inevitabilmente, la guerra per la successione sul trono di Spagna o Guerra di Successione Spagnola. Gli schieramenti erano dettati da storia e geopolitica. Quella per il trono di Spagna, come osservò il grande storico Kaegi, fu la prima guerra mondiale. La posta in gioco non fu solo una regione d’Europa, ma lo spazio extraeuropeo. L’Italia venne posta al centro della disputa. Nel suo ambito giocò un ruolo decisivo il duca di Savoia, Vittorio Amedeo II. Lo Stato sabaudo non era il più popoloso né il più ricco d’Italia, però era l’unico dotato di una organizzazione militare di peso e prestigio. I duchi l’avevano costruita in un secolo e mezzo di guerre. Dopo la pace di Cateau Cambrésis (1559) Emanuele Filiberto ottenne la restituzione dello Stato, che andava dalla Savoia a Nizza passando a mezzaluna attraverso il Piemonte centro-occidentale (Valle d’Aosta, Torinese, Vercelli, Cuneese e Astigiano…) ma se lo dovette riconquistare: era occupato dai francesi, che si erano impadroniti di Torino dal 1536 e nel 1548 soggiogarono il marchesato di Saluzzo. A Torino rimasero sino al trattato di Blois (dicembre 1562), a Saluzzo sino al 1588. Venticinque-trent’anni di dominio militare volevano dire imposizione di lingua, costumi, prodotti e trasformazioni profonde, anche con «gravidanze d’occupazione». All’epoca Torino aveva 5-6 mila abitanti. Un borgo. Entratovi, Emanuele Filiberto ne fece una capitale: vi insediò l’Università, edificò e adottò l’italiano quale lingua dello Stato. Suo figlio, Carlo Emanuele I, sposata Caterina d’Asburgo-Spagna, intrigò e combatté per tutti i cinquant’anni in cui fu duca (1580-1630). Malgrado leggende compiacenti, non pensò mai a «l’Italia». A mettere le mani sul Milanese e sulla Liguria però si. Ci riprovò suo nipote diretto, Vittorio Amedeo II, che vantava titoli al trono di Spagna per via del matrimonio del nonno. Con o senza quelle ambizioni, il ducato rischiava di finire nella tenaglia tra la Francia di Luigi XIV di Borbone e il dominio borbonico-spagnolo sul Milanese, che aveva il controllo della repubblica di Genova sin dall’alleanza fra Carlo V e Andrea D’Oria (poi Doria) in odio contro la Francia di Francesco I, che perciò si alleò persino con il Gran Sultano di Costantinopoli, la cui flotta espugnò Nizza e la saccheggiò. Vittorio Amedeo II non poteva avere dubbi. Costretti a rinunciare al ducato di Savoia, con la pace di Cherasco (1631) i francesi avevano ottenuto il dominio su Pinerolo, posizione strategica, ben fortificata, a poche ore di cavallo da Torino: una spina nel fianco che fece sanguinare i duchi sabaudi sino al Trattato di Torino del 29 agosto 1696, che concluse la guerra segnata dalla sconfitta di Vittorio Amedeo II nella battaglia di Staffarda (18 agosto 1690). Alla firma del Trattato di Torino gli ambasciatori del duca ebbero per la prima volta trattamento regio. Vittorio Amedeo II ottenne Pinerolo (a patto di non fortificarla e di interdirla ai valdesi, tollerati solo nelle valli Pellice e Chisone ) e dette in moglie la figlia, Maria Adelaide, al Delfino di Francia (successore al trono: che però premorì al padre). Conclusione: Vittorio Amedeo II passò a fianco della Francia. Ma, come detto, l’ascesa di Filippo di Borbone, duca d’Angiò alla corona di Spagna cambiò tutto. Scoppiata la guerra tra Impero e Francia, inizialmente Vittorio Amedeo accettò di schierarsi con Luigi XIV di Francia (6 aprile 1701): un’alleanza che gli stava stretta. L’8 novembre 1703 il conte di Priero e il marchese di San Tommaso per conto del duca e il conte di Auesperg per l’imperatore siglarono un altro Trattato di Torino. Dall’arciduca Carlo d’Austria, già nominato re di Spagna e futuro imperatore Carlo I d’Austria, il duca ottenne il comando di tutte le truppe imperiali in Italia, il riconoscimento di futuri ingrandimenti (Alessandria, Lomellina, Valenza, Monferrato, feudi imperiali nelle Langhe) ed eventuale successione al trono di Spagna in quanto discendente di Carlo Emanuele I.
Il trattato comprendeva una parte segreta e una parte ostensibile, da rendere pubblica. Il 4 agosto 1704 l’Inghilterra s’impegnò a finanziare Vittorio Amedeo II contro la Francia e gli promise segretamente non solo il dominio su tutto il Piemonte a est del crinale alpino ma anche il Delfinato e la Provenza (se fossero state conquistate, riprendendo antiche ambizioni e guerre di Carlo Emanuele I). Luigi XIV rispose come d’uso. Inviò in Piemonte un’armata comandata dal generale de la Feuillade. Questi condusse la guerra come già aveva fatto il maresciallo Catinat dal 1690: terra bruciata. I francesi distruggevano quanto non serviva ai loro piani di combattimento: ponti, porti fluviali (all’epoca di importanza fondamentale), strade, fortificazioni, edifici (inclusi quelli religiosi, che potessero servire da appoggio a manovre militari nemiche). Fu una guerra spietata. Secondo antichi rituali le donne ebbero spesso la peggio. Sia i francesi, sia gl’imperiali e lo stesso duca di Savoia utilizzavano reggimenti (e «colonne») «a noleggio», formate da guerrieri professionali, di lingua tedesca e di altre terre. Il loro passaggio favorì la mescolanza delle genti. Molte tra le donne ingravidate avevano difficoltà a ricordare. I francesi inflissero umiliazioni «vergognose» anche a parecchi uomini, quale monito verso chi tentava di resistere. A quel modo, però, gli occupanti spinsero i piemontesi a far quadrato attorno al duca.
Già nel settembre 1705 i francesi si avvicinarono a Torino. La capitale del ducato contava 45 mila abitanti ed era difesa da 10 mila uomini, per un quarto imperiali. L’anno seguente l’armata francese, forte di 110 cannoni, 59 mortai e mezzi giganteschi, crebbe da 23 a 45 mila uomini. Memore dell’assedio subìto da Torino intorno al 1640-42, quando gli assedianti vennero a loro volta assediati da un esercito accorso per liberare la città, Vittorio Amedeo II affidò al generale imperiale Wierich Daun il comando della difesa e nel giugno 1706 uscì da Torino con 3-4 mila cavalieri, per attrarre su di sé parte degli assedianti. Una fuga? Niente affatto. Fu una mossa strategica intelligente, più volte replicata dai Savoia nel corso della storia. La Feuillade cadde del tranello e alleggerì l’assedio per inseguirlo, Ma la «volpe savoiarda» non si fece mai agganciare. Aveva il sostegno della popolazione. Come subito si disse, gli bastava battere il piede per terra perché da ogni luogo scaturissero soldati. In effetti la popolazione comprese che non si batteva solo «per il duca», ma per se stessa. In aiuto di Vittorio Amedeo II giunse suo cugino Eugenio di Savoia, che da anni era tra i migliori generali dell’Impero e si era guadagnato fama trionfando sui turchi-ottomani. A tappe forzate, Eugenio il 6 agosto arrivò a Carpi. Di lì, evitando il Milanese per non disperdere forze contro i francesi che l’occupavano, il 15 riprese il cammino verso il Piemonte. A fine mese le sue forze si unirono a quelle del duca nei pressi di Carmagnola. L’autunno era alle porte. Gli assedianti francesi, ridotti a 24 mila uomini, sapevano di avere poche settimane davanti, dopo le quali avrebbero fatto i conti con pioggia, neve, fame senza speranze di spremere un territorio e una popolazione già allo stremo.
Perciò ripresero l’assalto contro la città. Giunsero a lambire la cittadella, cuore della difesa sabauda ma il 26-27 agosto il loro attacco contro la Mezzaluna del Soccorso, l’ala munitissima della cittadella, fallì. Il 30 agosto svanì un altro tentativo grazie al leggendario sacrificio di Pietro Micca che sventò una incursione tramite un camminamento sotterraneo. Saliti sulla collina di Superga per osservare di persona il campo, il duca e il cugino decisero di attaccare nell’unico tratto in cui i francesi non avevano eseguito opere di controvallazione e circonvallazione: tra Dora e Stura, una lingua di terra considerata difesa dalla natura stessa. Il 7 settembre gli uomini di Eugenio di Savoia mossero all’assalto. Vennero respinti tre volte. Vittorio Amedeo condusse di persona un migliaio dei suoi a sfondare le linee francesi. Le aggirò, le prese alle spalle e consentì agl’imperiali un quarto assalto, vittorioso. A quel punto i difensori uscirono dalla città assediata. Anch’essi investirono alle spalle i francesi, che crollarono e ripiegarono verso Pinerolo. Sconfitti. Dopo 117 giorni d’assedio, una sola giornata capovolse le sorti della guerra.
La vittoria di Torino del 7 settembre 1706 voltò pagina nella storia d’Italia. Al termine della guerra di successione sul trono di Madrid, Filippo d’Angiò ottenne la Corona di Spagna (completa di colonie extraeuropee), ma dovette rinunciare alle Fiandre che passarono al Sacro Romano Impero. Vienna ottenne inoltre il Milanese, la Sardegna e il regno di Napoli e così l’egemonia diretta o indiretta sull’Italia. Vittorio Amedeo II ebbe Alessandria e altre terre in Piemonte e, ciò che più contò, la Sicilia col titolo di re. Era e rimase vicario imperiale per l’Italia. Dall’inizio delle guerre per l’egemonia sull’Europa (1494 e seguenti) per la prima volta vi fu un re in Italia. Era presto per dire se sarebbe o meno divenuto anche re d’Italia. Invece non fu presto per capire che Vittorio Amedeo II aveva davvero la stoffa del grande sovrano. Grazie a lui Torino mutò volto. L’Università divenne centro di cultura di rango europeo. Lo Stato venne riorganizzato in tutti i settori. Le forze armate ebbero ulteriore impulso. La nazione piemontese sentì l’orgoglio di aver difeso e rivendicato la libertà di tutta l’Italia con due suoi grandi capitani, il duca ed Eugenio di Savoia. Sei anni dopo Vittorio Amedeo II dovette commutare la ricca, popolosa ma lontana Sicilia (dalla quale trasse statisti, giuristi e artisti geniali: bastino i nomi di Francesco D’Aguirre di Salemi e Filippo Juvarra, o Juvara) con la Sardegna. La direzione di marcia però era chiara. Il regno di Sardegna entrò nel novero degli Stati europei che contavano. Centocinquant’anni dopo furono un Savoia, Vittorio Emanuele II, e il suo regno di Sardegna a unificare l’Italia. Giustamente gli storici retrodatarono l’inizio del Risorgimento alla vittoria sui francesi quel 7 settembre 1706…
Aldo A. Mola