di Dino Cofrancesco dall’Huffpost del 6 marzo 2021
In un saggio di qualche anno fa, L’Ospite e il Nemico. La Grande Migrazione e l’Europa (Ed. Garzanti 2018), su cui richiamò l’attenzione Ernesto Galli della Loggia in un’editoriale del ‘Corriere della Sera’(25 maggio 2019), Raffaele Simone, un linguista prestato alla saggistica politica, elaborò una categoria, l’Ideologia Europea, a mio avviso utile per la comprensione di tanti stili di pensiero che si affollano in questi primi decenni del XXI secolo. L’ideologia europea: è “un insieme di idee, partiti presi, concezioni e narrazioni, prodotti da fonti diverse in momenti diversi, di segno genericamente democratico-umanitario, con una spiccata nota radicale che può arrivare fino all’estremismo.
L’Ideologia Europea è filtrata rapidamente nella cultura della dirigenza politica europea, degli organismi internazionali e delle organizzazioni umanitarie, delle chiese e dei media. Ha i suoi testi classici, i suoi eroi e eroine, le sue organizzazioni, i suoi media. Conta insomma su un suo ‘popolo’, multinazionale, multietnico, multiculturale e interclasse, che la pratica, la tiene viva e la fa valere. Ora questo ‘popolo’, sebbene indistinto, non coordinato e eterogeneo, ha un formidabile potere di pressione sulle decisioni politiche (compresa la gestione dei media)” Simone l’ideologia europea può considerarsi la dottrine del Club Radicale “La sua base culturale comune è formata da un aggregato poco amalgamato ma assertivo di assunti radical; vi confluiscono esigenze comuniste ed egualitarie, umanitarie, cristiano-sociali, anti-imperialiste, anti-capitaliste e anti-occidentali, no-global, femministe, omosessuali, non violente, terzomondiste, ambientaliste, vegane e animaliste”. Non sono convinto dall’impiego del termine radicale da sempre associato a un’area politico-culturale (e una Radio) che si distingue per il suo occidentalismo e per il filoisraelismo senza se e senza ma, a parte questa riserva, Simone coglie nel segno. La marmellata ‘buonista’ che denuncia è il segno poco esaltante di una società civile—e della sua political culture—alla deriva. Quella sinistra che, per mezzo secolo dopo la fine della seconda guerra mondiale, aveva mostrato di ‘tener lo campo’ somiglia sempre di più ai grandi quotidiani borghesi della Prima Repubblica che in prima pagina e nelle pagine economiche erano l’espressione dell’establishment politico ed economico e in quelle culturali si aprivano agli esponenti di ‘scuole di pensiero’ variamente ispirate alla grande lezione marxista. Con una differenza significativa, però: allora dominava il materialismo storico, una filosofia forte che per certi versi richiamava il tomismo con i suoi rigidi apparati concettuali ma anche con il suo robusto senso realistico; oggi il materialismo non è più ‘storico’ ma si è convertito in un melenso universalismo che non pone i valori’ su uno stesso piano ma li fa passare al setaccio di un egualitarismo che non ammette distinzioni in fatto di civiltà, di appartenenza comunitaria, di diritti di cittadinanza, di morale pubblica, di economia, di istituzioni politiche etc. I valori che non possono venir condivisi da tutto il genere umano (che non sono quindi universalizzabili) diventano disvalori e le radici, che sono il simbolo della fedeltà al suolo si trasformano nel più imperdonabile dei ‘peccati contro lo Spirito’, per dirla col vecchio Croce.
Le riflessioni di Simone mi sono venute in mete leggendo il saggio di un filosofo di militanza grillina, Christian Raimo, ‘Contro l’identità italiana’ (Ed Einaudi), un autentico ricettacolo dei luoghi comuni di una sinistra anpista, post-azionista e postcomunista che nell’’identità’ vede la reincarnazione dell’Ur-Faschismus di echiana memoria. ”L’identità, afferma perentoriamente Raimo, non sembra poter esistere se non come competitiva, muscolare, autoaffermativa”: chi ad essa fa appello, se non è un fascista, è complice dei fascisti. In realtà, Raimo non vende farina del suo sacco (né lo pretende) ma smercia i manufatti culturali dei nemici implacabili dell’identità, dallo storico del Risorgimento Alberto M. Banti all’antropologo Francesco Remotti, dall’antichista Maurizio Bettini al modernista Adriano Prosperi. Passando per Ida Dominijanni autrice di “un libro mai abbastanza citato, Il trucco, in cui dimostra la permanenza del berlusconismo oltre Berlusconi”. Di suo ci mette la glorificazione di Carlo Giuliani, la cui morte segnerebbe uno spartiacque epocale nella storia d’Italia (l’Italia ormai “assomiglia molto alla pistola che ha appena sparato e ai manganelli ancora sporchi di sangue”); il dileggio di Giampaolo Pansa (“uno strano frankestein ideal-politico di cui non ci si libererà più”); la denuncia della strumentalizzazione delle foibe (“si resta allibiti” per” la paranoia ideologica di scrivere a qualunque costo estetico e politico una controstoria”). A un certo punto il rasoio di Raimo diventa esilarante parlando del reazionario Joseph Ratzinger :”alla giornata mondiale della gioventù a Colonia nel 2005 lo sento con le mie orecchie parlare di una identità cristiana da difendere”. Ma guardate un po’:un pontefice romano che si preoccupa dell’identità cristiana!
Vero è che Raimo aveva presente il monito attribuito a Leonardo “tristo è quel discepolo che non avanza il suo maestro” e non era facile essere ancora più indignati di un Banti che nel Presidente Carlo Azeglio Ciampi e in Roberto Roberto Benigni—fissati con l’Inno di Mameli― aveva visto gli involontari collaboratori domestici della Lega. A partire dagli anni Novanta, scriveva Banti in Sublime madre nostra (Ed. Laterza 2011), “coloro che – con qualunque intenzione, anche la più democratica – si preoccupano adesso della questione dell’identità nazionale, dovrebbero essere consapevoli che “nazione” e “patria” sono due termini che – quasi per riflesso condizionato – si portano con sé una serie di formazioni valoriali specifiche che inducono a pensare la nazione come parentela, come discendenza di sangue, come memoria storica esclusiva e selettiva, come narrazione di narrazioni belliciste e maschiliste.” Insomma il Risorgimento è la matrice del fascismo e il fascismo è sinonimo, tout court, di totalitarismo, di razzismo, di violenza cieca e irredimibile”.
Raimo arruola quanti può nel campo dei nemici dell’identità: da quelli per i quali è una realtà—” la società italiana è rappresentata in modo regressivo perché è regressiva. E la persistenza di questo modello che tiene insieme un provincialismo retrivo, un grossolano maschilismo da vitelloni con il familismo amorale”—a quelli che la ritengono un’’invenzione pericolosa—come Maurizio Bettini che, in Contro le radici (Il Mulino 2011), scrive che “da un lato, siamo sempre più coinvolti nell’assimilazione “presentista” prodotta da cellulari, abbigliamenti, musica divertimenti, tecnologia e così di seguito; dall’altro ci vogliamo diversi appellandoci al passato dei luoghi e delle tradizioni di ogni tipo—viviamo immersi in un’antropologia (reale) dell’omologazione e ce ne creiamo una (immaginaria) della differenza”. L’immagine che se ne dà della ‘massa damnationis’—contro la quale si appuntano gli strali dei Francesco Remotti, delle Francesca Rigotti, dei Marco Aime, degli Umberto Eco etc. è sempre caricaturale e grottesca.
Sarebbe tempo perso richiamare tutti gli odierni ‘maestri del sospetto’ a un serio e serrato confronto critico con i filosofi, gli storici e gli scienziati politici che hanno trattato il tema dell’identità politica e dello stato nazionale. Come, ad es., la geniale Dominique (Aron-)Schnapper che, ne La communauté des citoyens. Sur l’idée moderne de nation, Ed. Gallimard 2003), rilevava che è “all’interno di una particolare comunità nazionale che gli individui hanno sviluppato la loro identità, inseparabilmente individuale e collettiva. Per secoli in Europa, si è detto, ognuno trova dentro di sé la propria nazione. Qualsiasi sentimento di appartenenza, qualsiasi idea collettiva non può che essere il prodotto di una lunga storia comune, anche se è, il più delle volte, totalmente o parzialmente inventata. Non nasce da una decisione, per quanto desiderabile o ragionevole, ma che suppone che si possa costruire un’identità collettiva da una tabula rasa. L’adesione intellettuale a principi astratti – diritti umani, rispetto dello stato di diritto – non può sostituire, almeno nel prossimo futuro, la mobilitazione politica ed emotiva suscitata dall’interiorizzazione della tradizione nazionale”. Per non parlare dell’immensa letteratura che ha trattato il tema dell’identità nazionale, da Anthony D. Smith a David Miller, da Raymond Aron a Michael Walzer, da John Breuilly a Benedict Anderson, da Federico Chabod a Franco Goio.
Il mio, però, non vuole essere un rilievo professorale. Per me Raimo ,“i suoi fratelli’ e i suoi maîtres-à-penser sono una riprova (per molti aspetti terrificante) delle ‘radici’ (è proprio il caso di dire) piantate nella nostra cultura politica dal virus totalitario. Quest’ultimo si potrebbe definire come la cancellazione dall’umano di tutto ciò che non corrisponde a un modello antropologico posto da entità metafisiche come la Ragione o la Razza o la Classe. Se la religione è l’oppio dei popoli le basiliche ortodosse vanno trasformate in Tempi della Scienza; se il bisogno di appartenenza è sentito da una parte (più o meno grande) del genere umano, va estirpato attraverso una medicina pedagogica di Stato in grado di guarire quanti ne so sono affetti. Se un ariano vede in un ebreo un essere simile a lui, vuol dire che è vittima di un contagio che va isolato; se un lavoratore simpatizza col nemico di classe e viene a patti con lui, bisogna sottoporlo al trapianto di coscienza proletaria. “Homo sum nihil humani a me alienum puto” (Sono un essere umano, niente di ciò ch’è umano ritengo estraneo a me): l’antica massima della saggezza greca e occidentale non sembra aver più valore. I sentimenti che Adriano Prosperi, Maurizio Bettini, Francesco Remotti, Alberto Banti e simil genia non capiscono e non condividono diventano malattie dello spirito che i buttafuori come Christian Raimo si premurano di far conoscere e di denunciare al mondo.