È noto che i Troiani risero degli avvertimenti di Cassandra e di Laocoonte, aprendo una breccia nelle loro stesse mura per far entrare il cavallo di legno escogitato da Ulisse e pieno di Achei. Pare che i due serpenti inviati da Era per stritolare Laocoonte e i suoi figli in realtà fossero una metafora per «non gli date retta, è un fascista», mentre Cassandra era già stata smentita dai fact checker e da un pezzo bollata come complottista. Così i Danai che portavano doni non furono temuti a sufficienza, poterono entrare nella cerchia delle mura di Ilio e distruggerla dall’interno.
Questa è anche la storia di come la cancel culture è riuscita a entrare nell’ordinamento giuridico italiano, attraverso il cavallo di Troia di una delle più fruste, stanche e inutili battaglie di retroguardia della destra: l’abolizione di onorificenze e intitolazioni al dittatore iugoslavo Josif Broz detto Tito. Lo ha approvato il 7 febbraio scorso il consiglio regionale del Veneto su proposta del leghista Alberto Villanova. L’iniziativa è stata celebrata dallo stesso Villanova con un post sul suo profilo facebook: «Oggi il Consiglio Regionale del Veneto ha approvato il progetto di legge statale, che mi vedeva primo firmatario, per togliere l’onorificenza di Cavaliere di gran Croce al maresciallo Tito, criminale che pianificò e mise in atto gli omicidi nelle foibe e la pulizia etnica nei confronti degli Italiani Istriano-Giuliano-Dalmati. A 80 anni di distanza è arrivato il momento che il parlamento italiano raccolga il testimone del Consiglio Regionale Veneto e metta fine a questa vergogna: Tito è un criminale, non un cavaliere».
I cocci di vetro dentro la polpetta
Villanova però omette di dire che il consiglio regionale ha approvato anche un emendamento promosso dalla dem Vanessa Camani che estende la damnatio memoriae contro Tito anche ai «crimini di aggressione e violazione del diritto internazionale e umanitario, con il divieto di intitolazione toponomastica a esponenti del partito fascista», che quindi vengono ex post dichiarati tutti in blocco «criminali di guerra». In altre parole, col cavallo di Troia di questa benedetta onorificenza a Tito è entrato anche il repulisti di un’intera fetta di Novecento, che travalica i meri venticinque anni di regime fascista per estendersi a tutto ciò che c’è stato prima e poi vi è confluito dentro nonché tutto ciò (che è tantissimo) che del regime è sopravvissuto e ha continuato nella storia repubblicana d’Italia.
L’emendamento è stato così commentato dalla stessa Camani: un «tentativo importante» «per la costruzione di una memoria condivisa». Una memoria sbianchettata, che può essere condivisa perché liscia, levigata, priva di spigoli e adatta anche ai bambini piccoli.
Il cavallo di Troia con dentro la cancel culture ora approderà in Parlamento. La sua potenziale approvazione spalanca la possibilità di trascinare nella polvere decine di migliaia di italiani illustri solo perché «iscritti al PNF». Luigi Pirandello, per esempio. Ma anche Guglielmo Marconi, che fu accademico d’Italia e come tanti accademici fu iscritto, simpatizzante o attivo fiancheggiatore del PNF. Peraltro Marconi fu apologeta dell’aggressione italiana all’Etiopia, protestando contro le «inique sanzioni» della Società delle Nazioni contro l’Italia. E che dire di Pietro Mascagni? Prese la tessera del Partito nel 1932 e d’altronde la sua «Cavalleria Rusticana» non è altro che la celebrazione del patriarcato eteronormativo e della violenza maschilista tossica. Filippo Tommaso Marinetti, per decenni condannato all’irrilevanza nei programmi scolastici e nella cultura nazionale, è stato solo di recente riportato in auge, ma merita di tornare nell’oblio. Ed è forse anche il caso di preparare qualche barile di vernice bianca per cancellare gli affreschi di Giulio Aristide Sartorio dalla Camera dei Deputati, visto che il pittore fu uno «felice di mettersi in divisa» durante il Regime. Ma poiché si parla di «crimini di aggressione», non possiamo non buttare giù dal piedistallo anche Giovanni Pascoli, corifeo dell’impresa di Libia del 1911 con la sua «La grande proletaria si è mossa»: sarà pure morto un decennio prima della nascita del PNF, ma d’altronde già qualche anno fa «Repubblica» l’aveva vista giusta, definendo «fascista» l’invasione della Libia al tempo del governo Giolitti (quindi, anche lui nel carnet).
Bisognerà capire se i meriti successivi alla fine del Fascismo siano in grado di far perdonare ai tanti, tantissimi italiani che presero «la tessera» più o meno entusiasticamente. Se nella seconda metà del XX secolo sembrava normale poter cambiare idea e rifarsi una verginità anche dopo aver scritto intemerate antisemite come nel caso di Giorgio Bocca o Giovanni Spadolini, l’era della cancel culture non prevede il sacramento della riconciliazione. Se sei stato il Male®™ sei marchiato in saecula saeculorum, i tuoi monumenti dovranno essere rovesciati e le targhe stradali sostituite con intitolazioni ad attivisti per i «diritti trans».
“Ma dai, ti pare?”
Ora naturalmente arriveranno quelli che “ma dai, ti pare che spicconeranno le strade a Pirandello?”. Ebbene, cari signori, mentre vi pascevate nell’illusione che “sono solo ragazzi”, “è una moda passeggera”, “tre mesi e non si parlerà più di cancel culture” negli Stati Uniti sono passati dal togliere solo la bandiera confederata (2015) alle statue di Lee (2017), poi a quelle di ogni esponente dei sudisti, quindi a Teddy Roosevelt (prima solo “risignificato”, poi direttamente sbullonato e schiaffato in magazzino, 2020), Washington e Jackson e infine perfino a Lincoln (sì, esatto, Lincoln, il presidente dell’abolizione della schiavitù. Avete letto bene). Il tutto in SOLI SETTE ANNI. A chi pensa che Pirandello o Marconi siano intoccabili, ricordo che viviamo nel 2023, anno in cui se vuoi leggere Roald Dahl in lingua originale devi cercarlo sulle bancarelle dell’usato.
Così, la via lastricata di buone intenzioni intrapresa da Villanova porterà a un piazza pulita generalizzato del Novecento italiano. Entro pochi anni quella che è stata la più grande vittoria delle comunità esuli giuliano-dalmate – la Medaglia d’Oro al Merito Civile a Norma Cossetto – verrà cancellata, perché la Cossetto era figlia di un funzionario del PNF, fascista e iscritta ai GUF anch’ella. Come lei, saranno sottoposti a cancel culture la gran parte degli esponenti culturali, politici, militari della comunità giuliano-dalmata del XX secolo, poiché di riffa o di raffa compromessi col Deprecato Regime: tanto per fare due nomi, Riccardo Gigante, recentemente riesumato e tumulato con tutti gli onori al Vittoriale degli Italiani e Ottavio Missoni, che prima d’essere stilista fu apprezzato atleta iscritto ai GUF zaratini.
La cancel culture è un’arma batteriologica, un’epidemia: una volta scatenata, sai da dove l’hai fatta partire ma non dove si fermerà e soprattutto se si fermerà.
È di gran lunga preferibile vivere fra i contrasti e le contraddizioni di un presente imperfetto in cui Tito e Norma Cossetto devono convivere sulle pagine dello stesso TuttoCittà piuttosto che sbracciarsi per creare un futuro perfetto in cui il dittatore jugoslavo e la martire istriana siano accomunati dalla damnatio memoriae, mentre dall’alto dell’empireo guardano con compatimento la miseria di una civiltà che sta segando il ramo su cui è seduta.