Sarà che forse siamo alla frutta, ma mi pare che ormai non sia più tollerabile vivere in una società costituita da persone che per un nonnulla ti coprono di insulti e se, per varie motivazioni non sono a giusta «distanza di voce», si rifanno con i gesti. Gesti la cui tipologia è peraltro ristretta a una striminzita gamma, ormai ascritta ai luoghi comuni che, prima o poi, in ragione di tale ascrizione, saranno sdoganati e quasi benevolmente accolti nella vulgata.
Lontani i tempi dell’invito, anzi spesso un ordine, che più o meno suonava così: «… e non fare i gestacci!»…
Qualcuno ricorderà di esserselo sentito dire quando ancora si andava alle elementari.
Gestacci, è un termine molto esplicativo per indicare un atteggiamento che è stato sempre demonizzato dalle regole dell’educazione, ma che, comunque, è un po’ difficile da sradicare, perché connaturato alla nostra cultura.
Il linguaggio delle mani ha la sua radice nella ritualità, ma poi ha trovato affermazione anche in altri ambiti della nostra cultura, acquisendo una importanza notevole, fino a diventare parte integrante della comunicazione umana.
In fondo è abbastanza chiaro a tutti quale peso abbiano le mani all’interno del dialogo degli italiani: come fare a indicare la stranezza di qualche affermazione che ascoltiamo, senza chiudere le dita a mucchio verso l’alto, facendo vibrare il polso?
E senza quell’indice che cerca di trapanare la guancia roteando su se stesso, al fine di sottolineare la bontà di un piatto o di un’idea?
E ancora: come fare a vivere senza le vecchie e immancabili corna?
E poi, le corna, lo sappiamo molto bene, non sono solo un «gestaccio», ma anche un modo scaramantico per cercare di abbattere la sfortuna, per allontanare le influenze negative.
«Tutte superstizioni», diranno i più razionali: e hanno ragione, perché spesso i linguaggi simbolici finiscono per sconfinare nell’irrazionale. Comunque, di fatto, è di simboli che si parla: perché i gesti questo sono, e basta.
Per fortuna che Totò ha già lasciato questo mondo, perché, vista l’attuale situazione, c’è il rischio che il geniale comico partenopeo si vedesse affibbiare multe e condanne per quei segni, non proprio convenienti, che con altri più innocenti facevano parte della sua logorrea gestuale.
Cos’è che li rende brutti o belli? Probabilmente il contesto: perché il classico gesto costituito dal braccio destro piegato a novanta gradi, che accoglie la mano sinistra violentemente lanciata verso incavo del gomito, diventa una gag se fatto da Alberto Sordi, magari con l’accompagnamento sonoro di una grassa pernacchia. Però, la stessa gestualità diventa offensiva se fatta dal finestrino dell’auto da un qualsiasi signori Rossi.
Sta di fatto che a noi italiani i gesti piace farli, anche molto, ma non amiamo riceverli. Tutto qui.
Va anche osservato che in fondo una vita senza gesti è francamente troppo vuota: perché l’apporto delle mani e della mimica facciale costituisce un arricchimento al nostro dialogo e poi francamente facilita la socializzazione.
Condensa i concetti, belli e brutti.
Certo alcuni gesti vanno un po’ sopra le righe: quel medio della mano sollevato come un menhir, di importazione americana, è volgare. Non riusciamo proprio a digerirlo: sarà la sua aura pulp, o chissà che altro a rendercelo antipatico.
Per non parlare di quelli che, se hai il torto di sorpassarli perché viaggiano a venti all’ora in autostrada, modellano la mano in forma di pistola e… puntano.
Qui siamo all’aberrazione del gesto, alla riduzione ai più bassi livelli del suo sfruttamento.
La cosa bella del gesto è la sua modularità: infatti sulla base di una tipologia abbastanza stereotipata, la creatività dei singoli consente tutta una serie di varianti che «ne variano lo spazio semantico», affermano i semiologi. Paroloni, per la maggioranza di noi che con i gesti sappiamo scamparcela anche nelle situazioni più complesse.
Basti ricordare cosa sappiamo fare con le mani quando dobbiamo comunicare con qualcuno che parla una lingua a noi sconosciuta.
Ma il meglio lo diamo quando, di quella lingua, conosciamo solo qualche parola: allora il gesto diventa uno strumento di collegamento fondamentale, che raggiunge livelli di creatività inimmaginabili.
Ci sono gesti meno fortunati di altri che, invece, hanno praticamente vita eterna. Sono quei gesti che con il passare del tempo vano in pensione: come la carta carbone o il gettone telefonico. Sono quelli legati a oggetti che non si usano più: ad esempio il saluto toccandosi la falda del cappello. Pratica estinta con il ridursi della presenza del cappello sulla testa degli uomini; e che dire del saluto con il fazzoletto? Oggi con quelli di carta non sarebbe possibile.
Poi ci sono quei gesti che identificano una persona, possono farne un personaggio: pensiamo all’irrefrenabile passaggio della mano tra i capelli, che ha caratterizzato il personaggio Vittorio Sgarbi. Ma anche la mano ripiegata sul petto di Napoleone, ha un’identica valenza.
Ci sono gesti dell’ideologia e i gesti che diventano ideologia: e così il saluto romano su un campo di calcio diventa occasione di rissa, tira in ballo tante, troppe questioni, che in genere dovrebbero restare fuori dallo sport. Ma la storia ha radici lontane: già negli anni Sessanta, sul podio delle Olimpiadi, ci fu chi sollevò il braccio con il pugno chiuso.
E così il gesto diventa strumento di collegamento trasversale tra mondi diversi e lontani.
Comunque la si voglia vedere, la questione non cambia: senza gesti non si può stare. Ne vedremo ancora; di certo non mancheranno i «gestacci» che, anche se eguagliati alla minaccia, continueranno a essere il patrimonio culturale di questa nostra condizione di essere evoluti che sanno trasformare il concetto in linguaggio. Un linguaggio fatto non solo di parole. Belle e brutte. Ma come per le parole, che prima di dirle è sempre meglio pensare, forse per molti sarebbe il caso di fare la stessa cosa prima di gesticolare, soprattutto quando quei gesti virano verso l’insulto che, a ben guardare, è un chiaro segno di sconfitta.