Sull’orrida storia del rogo del camper dei rom è stato scritto tanto. Giustamente. Però ieri, tra i tanti commenti pubblicati su stampa e siti nazionali, ce n’era uno meritevole di replica.
di Francesco Maria Del Vigo dal del 12 maggio 2017
Sì, perché da subito si è pensato che dietro il rogo ci fosse la mano di qualche pazzo esaltato, di un cittadino insofferente agli stranieri e magari pure un po’ fascista. Qualcuno, prima ancora che si raffreddassero le ceneri, lo ha anche detto, con il macabro cinismo di chi trasforma le vittime in contabilità politica ed elettorale. Poche ore dopo la sciagura, però, è stato detto apertamente che gli inquirenti non seguivano la pista razzista, ma più probabilmente quella della vendetta tra clan. Un concetto semplice, ma solo per chi non ha ossidato in testa un preconcetto.
Così su Repubblica di ieri quel gentiluomo pacato e sobrio di Corrado Augias, sempre pronto a richiamare tutti al galateo del politicamente corretto, racconta una storia che non c’è. «Devo fare uno sforzo per immaginare un individuo – di chiunque si tratti – che per vendetta elabora e mette in pratica un gesto di tale ferocia», scrive il senatore del giornalismo militante per poi ripiegare sulla memoria dei campi di sterminio e planare subito nella severa critica degli abitanti della zona (che hanno osato lamentarsi dei furti), lasciando aleggiare tra le righe il sospetto che la colpa della strage sia loro.
Ecco, allora, Augias non si sforzi con la memoria, ci permettiamo noi di ricordargli che non c’è bisogno di andare così indietro nel tempo per trovare una storia simile e speculare a questa. In tutto: nei giudizi e nei pregiudizi. Stessa città, stessi corpi bruciati. 16 aprile 1973, quartiere popolare di Primavalle, nella notte un gruppo di militanti di Potere Operaio fa scivolare cinque litri di benzina sotto la porta di casa di Mario Mattei, netturbino e segretario locale del Msi. Muoiono nell’incendio due suoi figli: Virgilio e Stefano, di 22 e 8 anni. C’è anche una foto del ragazzo semicarbonizzato alla finestra, foto che non riesce proprio a trovare spazio nei libri di storia. E anche allora, come oggi, c’era chi negava l’evidenza e voleva declassare tutto a una faida tra camerati. Ieri, in nome di un’ideologia comunista e antifascista, oggi in nome del politicamente corretto. Prima non si poteva dire che erano stati i compagni, oggi c’è molta riluttanza nell’ammettere che gli investigatori credono si tratti di una resa di conti tra clan rom. E, al contrario, c’è grande disinvoltura nel far scivolare la colpa sulla testa dei cittadini insofferenti e di una certa area politica.
Certo, nel 2017 nessuno si sogna più di dire che «uccidere un fascista non è un reato». Ma il vizio di giocare con i morti è rimasto, e fa sempre schifo.