HomeStampa italiana 1Via Rasella divide ancora. Il nuovo libro di Dino Messina spiega perché

Via Rasella divide ancora. Il nuovo libro di Dino Messina spiega perché

di Eugenio Di Rienzo per La nostra storia del 17 marzo 2024

L’attentato di via Rasella fu un’azione della Resistenza romana eseguita il 23 marzo 1944 dai Gruppi di Azione Patriottica, unità partigiane operanti nelle città italiane sotto occupazione tedesca, costituite dal Comando generale delle Brigate Garibaldi, su direttiva del Partito Comunista Italiano, contro un reparto delle forze d’occupazione tedesche, l’11ª Compagnia del Terzo Battaglione del Polizeiregiment Bozen, inquadrato, nella Ordnungspolizei, che raggruppava tutte le forze di polizia della Germania nazista e che era composto, tranne gli ufficiali superiori, da reclute altoatesine. A via Rasella, non si intese, dunque, colpire né un’«innocua banda di musicanti», come è stato recentemente affermato da Ignazio La Russa (ah!, i politici italiani che pretendono di governare il loro Paese senza conoscerne la storia!) ma neppure agguerrite e feroci SS combattenti (Waffen SS), come di rimando, per contraddire l’imperdonabile uscita del Presidente del Senato, si è scritto in tutte le fonti di stampa vicine o simpatizzanti con la formazione politica di via del Nazareno, rammendando una toppa peggiore del buco.

Gli uomini del Battaglione Bozen erano in realtà contadini e artigiani sudtirolesi, in gran parte diciottenni o ultraquarantenni, assolutamente non politicizzati, costretti ad arruolarsi, pena l’arresto o ritorsioni verso i famigliari. Come dimostrò il loro rifiuto di partecipare alla rappresaglia, che seguì l’azione terroristica, consumata, il 24 marzo, alle Fosse Ardeatine in cui furono uccisi 335 italiani reclusi nelle carceri di via Tasso e di Regina Coeli, per vendicare i loro 33 commilitoni vittime dello scoppio di un rudimentale ordigno esplosivo. 

In quella giornata furono sottoposti a esecuzione sommaria nella cava di tufo dell’antica arteria viaria romana prigionieri politici, militari del Regio Esercito attivi nella Resistenza, o che più semplicemente si erano sottratti al bando di reclutamento nell’Esercito Nazionale Repubblicano di Salò, sospetti di antifascismo, detenuti in attesa di giudizio per «oltraggio alle truppe tedesche», per possesso di «armi da fuoco o esplosivi» o perché presunti capi di «movimenti clandestini», carabinieri, agenti di polizia e della Guardia di Finanza, 75 ebrei catturati dopo la razzia del 16 ottobre 1943, sacerdoti, funzionari, cittadini comuni che avevano operato per evitare la loro deportazione nei campi di sterminio della Germania e della Polonia. Tutti completamente estranei all’azione gappista, come i dieci civili rastrellati nelle vicinanze di via Rasella subito dopo il blitz messo in atto dal gruppo di fuoco al quale, tra gli altri, parteciparono Carlo Salinari, Franco Calamandrei, Rosario Bentivegna, Carla Capponi.  

I fatti del 23 marzo 1944 diedero luogo, nel dopoguerra, a una lunga vicenda processuale sulla loro opportunità militare e soprattutto sulla legittimità giuridica dell’attentato che fu oggetto di valutazione diversa e contrastante. Se sul piano del diritto bellico internazionale l’attentato venne giudicato, nel corso del procedimento al quale furono sottoposti i responsabili della strage delle Fosse Ardeatine, da tutti i tribunali militari alleati e italiani un atto illegittimo in quanto compiuto da combattenti irregolari, «privi di divisa», come sancito dalle Convenzioni dell’Aia del 1899 e del 1907, la magistratura italiana lo definì, invece, un episodio militare del tutto legittimo, essendo il Regno del Sud entrato in stato di belligeranza contro il Terzo Reich fin dal 13 ottobre 1943.

All’analisi questa materia ancora oggi incandescente, che ha provocato un lungo e acceso dibattito storiografico in Italia e fuori d’Italia, Dino Messina ha dedicato un saggio esemplare, Controversie per un massacroVia Rasella e le Fosse ardeatineUna tragedia italiana, edito da Solferino Editore (pp. 240, € 17,00), che si raccomanda per la compiutezza dell’informazione, per la capacità di distinguere la verità storica dalla verità giudiziaria, per l’onestà intellettuale che dovrebbe essere, come spesso disgraziatamente non accade, la prima virtù dell’analista del passato.    

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Come scrive Messina, se nelle settimane successive allo sbarco di Anzio del 22 gennaio 1944, furono gli Alleati a incoraggiare un intensificarsi delle azioni dei resistenti, senza per altro dare indicazioni sulla loro modalità, i comunicati diramati del Fronte militare clandestino di Roma, di cui aveva assunto la direzione il colonello Giuseppe Cordero Lanza di Montezemolo (anche lui poi trucidato il 24 marzo), vicino alla parte moderata del Comitato di Liberazione Nazionale, definita sprezzantemente come «attendista» dalle formazioni della guerriglia comunista, diedero precise disposizioni che ci si limitasse ad operazioni di intelligence o al massimo di sabotaggio e di supporto alla marcia verso Roma delle truppe guidate dal Generale statunitense John Porter Lucas. 

Del tutto da escludere, infatti, erano atti di violenza su larga scala, per dare il via a un’insurrezione generale come risposta all’immancabile reazione dell’esercito occupante. A quell’insurrezione vagheggiata, senza cognizione di causa, la popolazione della capitale non era moralmente preparata perché stremata dai bombardamenti indiscriminati della Royal Air Force e della United States Air Force, che fino al giugno 1944 provocarono circa 7000 vittime civili, sfinita dalla penuria alimentare, scoraggiata dalla mancata fulminea avanzata del corpo di spedizione anglo-americano bloccato dall’intervento di forti contingenti, spostati, per ordine del comandante in capo dello scacchiere Sud, Albert Konrad Kesselring, dalla Linea Gustav a ridosso della costa laziale. 

Dai romani non ci si poteva ragionevolmente attendere, dunque, lo stesso comportamento dei napoletani che armi alla mano riuscirono a liberare la loro città, quando gli Alleati, però, erano prossimi a penetrarvi, esattamente come accadde poi ai cittadini di Firenze, Genova, Torino, Milano, Venezia che attesero l’arrivo del 15th Army Group per attaccare le formazioni della Wehrmacht in ritirata o già sul punto di ritirarsi. E confermò questa previsione il fatto che nell’Urbe l’insurrezione non ci fu nemmeno, nell’imminenza dell’arrivo delle Divisioni del Generale Mark Clark, che varcarono la cinta delle Mura aureliane il 4 giugno 1944, se si esclude qualche sporadico attacco contro le colonne tedesche che abbandonavano la città, come avrebbe ricordato Pietro Ingrao nella sua autobiografia: “Non so spiegare (e non ne parlai allora) perché lo schieramento antifascista non seppe costruire un atto di insorgenza dalla città, quando già i tedeschi erano in ritirata, e forse si sarebbe potuta salvare la vita di tanti: di quel sindacalista sfortunato, Bruno Buozzi, e di altri. Sull’antifascismo romano pesò un freno del Vaticano o fu piuttosto l’indifferenza della popolazione poco o nulla disposta a battersi contro i tedeschi? La notte in cui le truppe alleate erano alle porte della città un gruppo di noi più giovani si raccolse in quella casa di via Ruffini, ad attendere l’alba di quel giorno di liberazione. C’era un grande silenzio fra di noi, come se dubitassimo di quella rinuncia a una rivolta, né ce ne demmo ragione”

Alla vigilia del 23 marzo 1944, tuttavia, né i dirigenti politici comunisti né i militanti gappisti erano disposti a rimanere fermi, con le armi al piede, in attesa che gli Alleati sbrigassero il grosso del lavoro, prima di scendere sul campo. Ma con quella scelta temeraria scrissero una delle pagine più controverse della Resistenza italiana ed europea, dando vita a una operazione che fu deliberata dal solo Partito di Togliatti, tenendo all’oscuro di quella decisione il Fronte militare clandestino e le altre formazioni antifasciste anche se già a fine marzo un comunicato unitario del Comitato di Liberazione Nazionale avrebbe dato una copertura politica all’attentato, che comunque fu tempestivamente condannata dalla maggioranza della cittadinanza romana. 

Nel dopoguerra e fino al 2011, Bentivegna, autoproclamatosi portavoce ufficiale degli esecutori del colpo di mano di via Rasella, messo di fronte all’insensatezza di un’azione del tutto inutile sul piano militare ma tale da provocare necessariamente il più sanguinoso eccidio di una comunità civile registrato in Europa occidentale durante il secondo conflitto mondiale, cercò di trovarne una ratio che fosse almeno minimamente convincente. Ma per farlo utilizzò argomenti che a me paiono pretestuosi: produrre le condizioni per attuare una leva di massa di tutta la popolazione contro l’occupazione nazi-fascista, far rispettare alle autorità militari tedesche lo status di «Roma città aperta», e cioè di zona demilitarizzata, riducendo al minimo il passaggio e la presenza di truppe, e facendo cessare di conseguenza i bombardamenti aerei angloamericani, creare un evento di alto significato simbolico e propagandistico che umiliava la presunta onnipotenza delle forze armate del Reich in una città da loro fortemente presidiata che era stata e che sarebbe nuovamente divenuta la capitale dello Stato italiano.

La realtà era tuttavia molto differente da queste affermazioni di comodo. Il vero obiettivo da raggiungere a via Rasella fu quello di trarre tutti i vantaggi possibili dal capitale accumulato dal «partito dei fucilati», che godeva ormai di un incontestabile prestigio morale. Il sacrificio dei militanti, dei simpatizzanti, dell’uomo della strada, delle vittime dell’Olocausto era strettamente funzionale a questo programma. Dando il semaforo verde all’iniziativa dei gappisti romani, la direzione comunista era del tutto consapevole delle sue funeste conseguenze, ma pensava che tanto più alto fosse stato l’effetto dei danni collaterali sui civili, tanto più considerevole sarebbe stato il debito che le altre forze politiche avrebbero dovuto pagargli nella futura competizione per la conquista del potere che avrebbe segnato il nostro Paese dopo il 25 aprile del 1945. La creazione pianificata del martire, infatti, è stata spesso considerata l’arma più forte di ogni conflitto intestino, quando naturalmente chi decide di utilizzarla e chi muore non sono la stessa persona.

Questo in estrema sintesi il contenuto del volume di Dino Messina che ci spinge ancora una volta non a certo a “processare la Resistenza”, fonte battesimale dell’ordinamento costituzionale della Repubblica italiana, ma a evitare di considerarla un inviolabile totem e a restituire integralmente la sua complessa, contradditoria e a volte scomoda e persino inconfessabile natura alla verità storica. Per raggiungere questo obiettivo, però, come sosteneva Renzo De Felice nel libro-intervista, Rosso e Nero, edito nel 1995, era «necessario liberarsi di quel vizio connaturato al movimento partigiano di voler rappresentare sé stesso nella sua totale purezza e trasparenza, perché si sa, invece, quanto orrore possa portare con sé una guerra civile, quanto di tragico e di indicibile, quanto di doppiezza, di simulazione, e ovviamente di non detto». 

E per riuscire in questa impresa è indispensabile ispirarsi, ancora oggi, come fece proprio De Felice, a quanto aveva scritto Leo Valiani nel suo diario partigiano, Tutte le strade conducono a Roma edito per la prima volta nella seconda metà del 1947, dove si utilizzava il termine «terrorismo» per qualificare quanto compiuto tra il 1943 e il 1945 dai Gruppi di Azione Patriottica. Peccato, però, che quel diario, boicottato alla sua uscita come scrisse De Felice nella bella recensione ospitata da «il Giornale» di Montanelli «quando certi discorsi non erano certo di moda e sotto un’altra penna avrebbero suscitato chissà quali reazioni indignate», non ebbe praticamente diffusione, fino alla sua ristampa pubblicata presso il Mulino nel 1983. Forse, come sempre De Felice annotava nel suo resoconto, perché «Tutte le strade conducono a Roma risulta più efficace e veritiero, ma soprattutto più storicamente valido non solo di molti scritti memorialistici di altri protagonisti e persino di tante opere che a quelle stesse vicende sono state ancora dedicate con la pretesa di farne la storia e con il risultato invece, di sfigurare quella che è stata una pagina cruciale della nostra vicenda nazionale, di darne una versione contraffatta e mistificatoria». 

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