La guerra per smantellare il regime di Saddam fu un disastro da tanti punti di vista. I vent’anni da quel drammatico inizio di primavera sono l’occasione per ripercorrere le premesse e le conseguenze odierne di quelle scelte
di Martino Mazzonis da Rivista Il Mulino del 22 marzo 2023
Il 20 marzo del 2003 il presidente americano George W. Bush annunciava l’avvio delle operazioni militari tese a deporre Saddam Hussein e a individuare e distruggere le armi di distruzione di massa che, stando alle prove presentate all’Onu dall’allora capo del Pentagono Collin Powell, il regime iracheno aveva accumulato. Venti giorni dopo le truppe americane entravano a Baghdad e abbattevano la statua del dittatore. Il 1° maggio il presidente Bush pronunciava il famigerato discorso sulla “missione compiuta” dalla portaerei Lincoln. Il 23 maggio il plenipotenziario americano in Iraq, Paul Bremer III, commetteva l’immane errore di smantellare l’esercito, mandando a casa decine di migliaia di persone armate e in grado di combattere. Cominciava la guerra vera.
Nei mesi e negli anni successivi Saddam e i figli verranno catturati e uccisi, l’esercito Usa e i suoi alleati (anche italiani) combatteranno contro le milizie sunnite fedeli al dittatore, i gruppi terroristici e le milizie sciite, la più importante guidata dall’allora giovane imam Moqtada al Sadr, vicino all’Iran e figura tutt’oggi centrale nel panorama irachena.
Nel giro di pochi mesi, una commissione presidenziale concludeva che “nemmeno un grammo” dell’intelligence prebellica sulle armi di distruzione di massa irachene si era rivelato valido, mentre le foto delle torture nel carcere di Abu Ghraib devastavano l’immagine già incrinata di Stati Uniti impegnati a implementare la dottrina messianica/neoconservatrice di esportazione della democrazia sulla punta del fucile. Nel frattempo, infatti, la civilizzazione del pianeta era divenuta la giustificazione di un’occupazione che aveva perso la propria ragione originaria. Negli anni successivi avremo la terribile battaglia di Falluja, il moltiplicarsi di azioni terroristiche, la promessa di Obama di porre fine alla guerra, il rafforzarsi delle reti terroristiche.
Il 18 dicembre 2011 le ultime truppe americane lasceranno l’Iraq. La guerra si è rivelata un disastro gravido di conseguenze per la regione e per gli Stati Uniti. Un disastro costato almeno 300 mila morti, per parlare solo dell’Iraq e non delle guerre successive in parte legate a quel conflitto, e 8 mila miliardi di dollari al Tesoro Usa. Un elenco del disastro generato dalla missione irachena può includere il riacutizzarsi delle tensioni tra sciiti e sunniti, il rafforzamento dell’Iran come potenza regionale, la creazione dello spazio politico e geografico per la crescita dell’Isis, l’impraticabilità di una azione risoluta contro il siriano Bashar al Assad anche dopo la violazione della “linea rossa” sull’uso delle armi chimiche tracciata nella sabbia da Obama.
Il danno per l’immagine degli Stati Uniti e per alcune delle grandi idee relative all’esportazione dei valori della liberal democrazia nei Paesi considerati nemici è probabilmente il quello più gravido di conseguenze. Gli effetti, a cercarli, li vediamo anche nella drammatica crisi ucraina e nel terremoto geopolitico che sta generando o in quell’America first trumpiano che talvolta accenna al “chi se ne importa dell’Ucraina, abbiamo ben altri problemi”.
Se collochiamo l’avventura irachena nel suo tempo e nella vicenda internazionale dobbiamo ricordare che questa giunge dopo un decennio di incontrastata primazia americana e dopo l’attacco alle Torri gemelle e l’invasione dell’Afghanistan che, nel 2003, non si era ancora rivelata il disastro che è stata. Quel decennio e la facilità con cui gli Stati Uniti presero l’Afghanistan diedero a Washington un senso di invincibilità e confermarono alcune convinzioni sul ruolo dell’America nel mondo. Convinzioni rivelatesi sbagliate ma non scomparse dal modo di ragionare della classe dirigente statunitense. Basta guardare al discorso pronunciato dal presidente Biden in occasione dell’anniversario della invasione russa dell’Ucraina.
Prima di ricordarne qualche passaggio torniamo al discorso sullo Stato dell’Unione del 2002, in cui Bush jr. elaborò il concetto di “asse del male” ( axis of evil):
“Paesi come questi (Iraq, Iran, Corea del Nord) e i loro alleati terroristi costituiscono un asse del male […] La storia ha chiamato l’America e i suoi alleati all’azione ed è nostra responsabilità e privilegio combattere la battaglia della libertà”.
Parlando di asse del male Bush si riferiva all’ingresso degli Stati Uniti sulla scena internazionale come potenza destinata a divenire egemone e, dopo la vittoria nella Seconda guerra mondiale, stabiliva una volta di più il confine tra bene e male dove “noi e chi sta con noi” siamo il bene e gli altri – l’asse nazifascista, l’Urss, gli stati canaglia e i terroristi – sono il male. In questo noi e loro gli Stati Uniti hanno un destino, quello di essere guida e leader dei buoni.
Guardiamo ora al discorso di Biden in Polonia:
“L’Europa, L’America, la Nato venivano messe alla prova. Le democrazie venivano messe alla prova […] Avremmo risposto o ci saremmo girati dall’altra parte? […] Abbiamo risposto. […] Abbiamo anche affrontato domande sul nostro impegno nei confronti dei principi più elementari. Avremmo difeso la sovranità delle nazioni, il diritto dei popoli a vivere liberi da ogni aggressione? Saremmo stati in grado di difendere la democrazia?”.
La risposta è naturalmente affermativa e il risultato è che oggi “le democrazie del mondo sono diventate più forti […] e gli autocrati più deboli […]. Le democrazie del mondo saranno a guardia della libertà oggi, domani e per sempre. Perché è questa la posta in gioco: la libertà”.
Se notate delle assonanze nei toni non sbagliate. Gli Stati Uniti assegnano a loro stessi una primazia, un ruolo guida e una missione di difesa della libertà e della democrazia (e del libero scambio). Questa almeno è la teoria. Ma il mondo è un posto complicato ed essere fedeli ai propri principi non sempre è facile. Specie se si è una potenza con una proiezione militare e diplomatica senza paragoni, attiva in ciascuna casella dello scacchiere mondiale e se si hanno rivali e nemici diversi in regioni diverse del pianeta. Proprio l’Iraq è da questo punto di vista una cartina di tornasole perché si tratta della violazione della sovranità di un paese e della imposizione di un cambio di regime senza mandato Onu.
Vogliamo guardare alla violazione dei diritti umani e ad eventuali incriminazioni internazionali da parte di una corte (l’Icc) alla quale non aderiscono né Mosca né Washington? Nell’agosto 2022 gli Usa si dotarono di una legge, l’American Service-Members’ Protection Act che prevede di difendere con qualsiasi mezzo l’eventuale incriminazione di militari o funzionari Usa da “accuse di crimini di guerra, genocidio e crimini contro l’umanità da parte di una corte di cui gli Stati Uniti non sono parte”. Non è un caso che la legge sia diventata nota con il nickname di “Hague Invasion Act”, perché autorizza il presidente a occupare l’Aia. Se poi pensiamo alla difesa della democrazia, questa non è di casa in Egitto, dove un regime brutale reprime ogni forma di dissenso, non lo è in Arabia Saudita, lo sono sempre meno l’India o la Polonia, che con i Paesi baltici è divenuto un partner cruciale nella vicenda ucraina.
Il problema, dunque, è che non siamo più al tempo della Guerra mondiale né della Guerra fredda, due momenti molto diversi tra loro che hanno in comune l’esistenza di un nemico chiaramente identificabile (che ha anche contribuito a giustificare, dare un senso, a cose terribili come l’uso dell’atomica o il sostegno a dittature criminali). Oggi il mondo è più complicato ma gli Stati Uniti continuano a ragionare in bianco e nero pur di fronte a un mondo variegato e complicato nel quale le categorie assolute mal si adattano alla realtà. Per non lasciare spazio alla Cina, che predica la non interferenza ed è all’offensiva diplomatica – come abbiamo osservato nella ripresa delle relazioni tra Riad e Teheran – la democrazia e i diritti umani non possono essere un discrimine. Usarli come linea di demarcazione diviene quindi poco credibile.
Il continuo richiamo a valori assoluti, nonostante il doppio standard, e il richiamo frequente al regime change non sono un buon biglietto da visita per regimi come quello russo e consentono a Pechino di proporsi al mondo come valida alternativa per un mondo di pace, dove le potenze non interferiscono negli affari altrui e il modo in cui ciascun Paese si governa è affar suo e non dei sergenti del mondo. Una versione quella cinese ipocrita come l’americana: chiedere ai birmani, ai rohingya, ai coreani del Nord, alla gente di Hong Kong.
I ragionamenti fin qui fatti non hanno nulla di particolarmente originale e sono, specie in occasione dell’anniversario dell’invasione dell’Iraq, moneta corrente negli Stati Uniti. “Foreign Affairs”, innegabilmente un luogo di riflessione sulla politica estera statunitense con pochi paragoni, in queste settimane pubblica una serie di articoli autorevoli critici nei confronti di questa idea del primato americano di cui varrà la pena riportare qualche passaggio proprio per dare conto di quelle riflessioni e sul loro effetto sullo stato presente delle cose.
Partiamo da Stephen Wertheim, che ha scritto Tomorrow, the World: The Birth of U.S. Global Supremacy .
“Se gli Stati Uniti e la Cina vogliono seriamente evitare una guerra fredda o un conflitto di portata mondiale, dovranno lavorare per stabilire dei termini di coesistenza. Ma questi termini diventano ogni giorno più sfuggenti. Il fiume di critiche alle pratiche cinesi, sembra tradursi in un’opposizione tout court all’ascesa della Cina. Dopo che l’amministrazione Trump ha identificato la Cina come una minaccia, Biden ha adottato misure potenzialmente fatali [Taiwan, semiconduttori, N.d.R.] […] Non si sa come reagirà la Cina, ma la sua capacità di danneggiare gli Stati Uniti è notevole. Nel difendere la propria posizione di potere preminente – che dovrebbe essere un mezzo per raggiungere un fine – gli Stati Uniti stanno assumendo rischi enormi senza valutare come l’intensificarsi della rivalità potrebbe rendere gli americani più poveri e meno sicuri. […] Washington è ancora in preda all’idea di supremazia e intrappolata in un circolo vizioso, passa da problemi autoinflitti a problemi autoinflitti più grandi, mentre dimentica quelli appena trascorsi. In questo senso, la guerra in Iraq rimane una questione incompiuta”.
Il neocon pentito Max Boot riflette sull’Iraq e sulla promozione della democrazia:
“Le dittature si stanno dimostrando più resistenti di molte democrazie. Persino negli Stati Uniti e in India, le due maggiori democrazie del mondo, la libertà è stata posta sotto assedio. […] Anche in Europa orientale, dove la diffusione della libertà negli anni Novanta ha ispirato me e tanti altri in tutto il mondo, la democrazia in Ungheria e Polonia è regredita. Da tempo sono guarito dal trionfalismo democratico nato dalla caduta del Muro di Berlino”.
La sua idea non è quella di cercare l’isolazionismo ma di ridimensionare la proiezione internazionale centrata su una “missione”.
Se guardiamo alle riflessioni sulla necessità di ripensare il ruolo americano nel mondo, immaginare una nuova “funzione” e le confrontiamo con le notizie di queste settimane, non c’è da essere ottimisti
Più critico tra tutti è Andrew Bacevich, docente di Relazioni Internazionali a Boston:
“La guerra afghana, la più lunga nella storia degli Stati Uniti, è quasi sparita dalla memoria così come l’Iraq. […] Il Paese sembra pronto a continuare a commettere gli stessi errori che hanno portato a quelle debacle, tutti giustificati dagli obblighi di leadership globale. […] il Presidente Biden e la sua squadra parlano abitualmente della guerra in forme che suggeriscono una visione obsoleta, moralistica e sconsideratamente grandiosa del potere americano. Allineare la posizione retorica della sua amministrazione con una valutazione sobria della vera posta in gioco in Ucraina potrebbe consentire a Biden di distogliere l’establishment dall’ossessione dell’egemonia”.
Torniamo infine all’Iraq, citando il commento di Richard Haas, presidente del Council on Foreign Relations, già membro dell’amministrazione Bush (contrario a quell’avventura):
“Bush e molti dei suoi principali consiglieri sembravano essere motivati da ulteriori calcoli, come il perseguimento di quella che vedevano come una nuova e grande opportunità di politica estera. Dopo l’11 settembre, era diffuso il desiderio di diffondere il messaggio che gli Stati Uniti non erano sulla difensiva. Piuttosto, sarebbero stati una forza proattiva nel mondo, prendendo l’iniziativa con grande efficacia”.
Se guardiamo alle riflessioni sulla necessità di ripensare il ruolo americano nel mondo, immaginare una nuova “funzione” e le confrontiamo con le notizie, non c’è da stare allegri. Haas parla dell’11 settembre 2001 vissuto da alcuni come opportunità. C’è il rischio che in alcuni ambienti di Washington, oggi, anche il sacrosanto sostegno all’Ucraina divenga una “opportunità” per tornare a commettere errori già commessi e perseguire un primato – che proprio l’Ucraina suggerisce essere ancora tale – ma che declinato come hanno fatto gli Stati Uniti negli ultimi trent’anni non sembra essere in sintonia con il mondo che sta prendendo forma (che questo ci piaccia o meno).