HomeStampa italiana 2Una vita al servizio del KGB, tra Fascismo e anni di piombo

Una vita al servizio del KGB, tra Fascismo e anni di piombo

La monografia curata da Francesco Grignetti, giornalista de La Stampa, inquadra la vita di Giorgio Conforto, personaggio oscuro dell’Italia del Novecento

di Andrea Scarano da Barbadillo del 20 novembre 2021

Un mondo sommerso e parallelo, imprevedibile e beffardo come quello delle spie, fonte inesauribile d’ispirazione per romanzi e film, è il contesto ideale per confutare rigidità e semplificazioni proprie delle contrapposizioni ideologiche. S’iscrive a pieno titolo al genere la vicenda di Giorgio Conforto, curata da Francesco Grignetti (illustre giornalista de La Stampa) nella monografia “Professione spia – Dal fascismo agli anni di piombo: cinquant’anni al servizio del KGB”, pubblicata da Marsilio nel 2002.   

Legato alle origini anticlericali e massoniche (suoi avi furono tra i protagonisti di una cospirazione garibaldina repressa nel sangue dalle milizie papaline), poliglotta, esperto di diritto, economia e cultura sovietica tanto da infatuarsene, Conforto fu uno dei migliori agenti segreti in Italia al servizio dell’URSS fin dal 1932, come rivelato solo in epoca recente dal dossier Mitrokhin. 

Iscritto al Partito Nazionale Fascista anche per facilitarsi la ricerca di un lavoro, si mimetizzò presso una delegazione commerciale incaricata dall’ambasciata sovietica di incrementare i rapporti d’affari tra Roma e Mosca, distinguendosi per l’innata propensione al doppio gioco e aderendo poi alla rete organizzata dall’addetto culturale di quella delegazione, Leonid Bondarenko.

Le connivenze con l’antifascismo e l’attività di propaganda gli costarono il carcere, dal quale non esitò a scrivere – replicando il comportamento della madre – lettere di supplica a Mussolini in cui millantava percorsi di allontanamento dal comunismo, che avrebbe accuratamente celato nei decenni successivi. Una volta libero grazie alla raccomandazione di un parente al capo della polizia Bocchini, scelse di collaborare impersonando la figura del fascista “convinto”, eterodiretto dal Kgb e all’insaputa dei familiari.

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L’autore ricostruisce il percorso dell’impiegato al Ministero dell’Agricoltura e poi degli Esteri, sedi nelle quali arruolò alcune segretarie che lo aiutarono a trasmettere informazioni a Mosca; all’interno del Centro studi anticomunista, una finta associazione privata in realtà organo semi-clandestino del regime che riuniva un gruppo di litigiosi intellettuali fascisti; nella rete di corrispondenti degli esuli anti-sovietici che definiva suoi “informatori politici”, in mezzo ai quali l’OVRA – sospettosa che il proprio interlocutore mantenesse contatti con l’antifascismo – lo infiltrava periodicamente, consapevole del fatto che le spie di Stalin si annidavano in quegli ambienti.

Una volta che la rete fu smantellata dal SIM, Conforto venne deportato in Germania. Tra i suoi compagni di prigionia c’era Ruggero Zangrandi, che ebbe sotto molti aspetti un percorso simile al suo: intellettuale organico al fascismo, amico personale di Vittorio Mussolini e poi comunista scomodo nel dopoguerra. Osteggiato dalla maggioranza del partito e stimato da Togliatti, scrisse un memoriale sullo spionaggio sovietico a Roma durante la guerra, rimasto secretato a lungo dagli imbarazzati vertici di Botteghe Oscure.

Nei ricordi affidati a diari non destinati alla pubblicazione, Giorgio descrisse da parte sua l’esperienza finale del periodo della prigionia con l’entusiasmo dell’ammiratore che si ritrovò in un campo di raccolta allestito dai sovietici. Per converso la sua attività politico-sindacale nel dopoguerra fu a lungo ostacolata dai sospetti alimentati sia dai comunisti che dai socialisti, i quali lo accusarono del passato fascista e – per quanto riguarda i secondi – del presente eccessivamente sbilanciato a favore dell’URSS. La sua attività clandestina, ripresa con l’arruolamento di segretarie e dattilografe attive durante il ventennio, finì sotto stretta osservazione della CIA, del Ministero dell’Interno e dell’astro nascente dell’Ufficio Affari Riservati, Federico Umberto D’Amato.

Anticlericalismo militante, apertura verso ambienti massonici di sinistra e di area laica furono le principali linee di indirizzo impresse ad una vecchia associazione di liberi pensatori – denominata “Giordano Bruno” – che Conforto rivitalizzò ponendosi l’ambizioso obiettivo (fallito) di contrapporsi ai Comitati civici di Luigi Gedda in vista delle elezioni politiche del 1948. Il sodalizio con l’ex leader della rivolta indipendentista della Sicilia Andrea Finocchiaro Aprile – concretizzatosi nell’adesione al movimento dei “Partigiani della pace” – venne progressivamente silenziato da prese di posizione più moderate, che si sostanziarono nel sostegno alle istanze del centrosinistra e al dialogo tra cattolici e socialisti.

Nello scacchiere della competizione internazionale tra spie ai tempi della guerra fredda l’Italia non fu depositaria di grandi segreti tecnici o scientifici; ciò non impedì che il Kgb organizzasse al Viminale una rete dedita alla trasmissione sia di informazioni sensibili riguardanti la NATO sia dei risultati dei controlli effettuati da quel Ministero sulle attività del PCI.

Se la doppia veste di Conforto – “agente d’influenza” e al tempo stesso informatore per conto dell’URSS – ha sempre destato sospetti configurandosi a detta dei più come un’evidente anomalia, vero è che i governi via via succedutisi fino all’inizio degli anni settanta, costantemente informati dei suoi frequenti viaggi nei paesi dell’est, chiusero a tal punto gli occhi che partecipò alla missione di una delegazione ministeriale incaricata di stipulare accordi di cooperazione intergovernativa nel settore agricolo, quando già percepiva in segreto una pensione dai servizi segreti sovietici.  

La sua vera identità sfuggì a forze dell’ordine, magistratura e partiti politici persino in occasione di un clamoroso avvenimento di cronaca: l’arresto dei brigatisti rossi Valerio Morucci e Adriana Faranda avvenuto il 29 maggio 1979 nell’appartamento romano della figlia Giuliana, poi assolta al processo per insufficienza di prove dal reato di concorso in detenzione d’armi.

I precedenti contatti della donna con gli esponenti di Potere Operaio – un dossier mai reso pubblico sostiene che Giuliana funse da collegamento (verosimilmente per conto del padre) tra la disciolta formazione e sostenitori/finanziatori esterni – s’intrecciarono sia con alcuni interrogativi (come arrivarono la polizia e i servizi a quell’appartamento; la proprietaria era informata, come sostennero Franco Piperno e Lanfranco Pace, oppure no su chi fossero realmente i suoi ospiti) sia con riscontri oggettivi: il ritrovamento della pistola mitragliatrice Skorpion utilizzata per uccidere Moro, il sequestro di un vero e proprio arsenale e di documenti, tra i quali l’organigramma delle Brigate Rosse.  

Strane coincidenze evidenziate nel libro di Grignetti – Luciana Bozzi, ricercatrice in fisica collega di Giuliana, era proprietaria dell’appartamento di Via Gradoli affittato prima a Morucci e Faranda, poi all’ingegner Borghi (nome di copertura dietro il quale gli inquirenti identificarono Moretti); Anna Maria, zia di Giuliana, possedeva allo stesso piano di un locale in cui era già stato scoperto nel 1977 un covo eversivo una mansarda, presso la quale la polizia ritrovò armi, cartucce, opuscoli e targhe di auto utilizzate da Luigi Rosati, terrorista ed ex marito della Faranda – hanno costituito interessanti spunti per gli addetti ai lavori che hanno in qualche caso accreditato, in anni più recenti, l’ipotesi che Conforto abbia svolto un ruolo nel caso Moro.

Se da un lato la vicenda della figlia pose definitivamente termine ai suoi rapporti con il Kgb, dall’altro non è inverosimile che un uomo dalla personalità controversa e sfuggente, inserito da sempre negli ambienti ministeriali, diplomatici e soprattutto dei servizi fosse a conoscenza di elementi interessanti se non decisivi su una delle vicende più enigmatiche della storia repubblicana.

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