In piena Guerra Fredda un pianista americano viene premiato a Mosca, perché la cultura era “zona franca” anche in tempo di conflitti. Una lezione per la nostra epoca.
di Francesco Pisanu da Belfablog del Centro Studi Machiavelli del 29 luglio 2024
Il giovane Van Cliburn (al secolo Harvey Lavan Cliburn Jr. 1934-2013) partecipa in URSS al concorso pianistico Čajkovskij e lo vince. Siamo nel 1958, a Mosca, e l’artista è americano. Prima della proclamazione il presidente della giuria si sente in dovere di interpellare Chruščëv sul da farsi: il compagno Nikita avrebbe acconsentito di assegnare il primo premio a un cittadino della nazione nemica per eccellenza? Al che il boss taglia corto: se è il migliore, che vinca. Nell’esibizione finale, al termine della performance del terzo concerto di Rachmaninoff, il pubblico in sala tributa 8 minuti di applausi al ragazzino yankee, dopodiché lui piazza il colpo da maestro. Propone come bis un suo arrangiamento classicheggiante di “Mezzanotte a Mosca”, una canzone che da quelle parti, in quell’epoca, costituiva un secondo inno nazionale.
Il pubblico e gli stessi concorrenti pianisti che si notano sullo sfondo del video girato dalla tv sovietica vanno in visibilio. Ma non finisce qui. Quando Van Cliburn ritorna in patria i newyorkesi gli dedicano la Ticker-tape Parade, una storica kermesse concepita per celebrare le gesta di eroi nazionali. Qualcosa di simile ai cortei trionfali dell’antica Roma. Questo stralcio sintetico di cronaca del medio Novecento ci suggerisce spunti che riverberano due riflessioni comparative di alcuni aspetti culturali tra un mondo che fu e il nostro, diciamo, ostico presente.
In pienissima Guerra Fredda la partecipazione a eventi artistici o sportivi, come accadeva con le Olimpiadi nell’antica Grecia, non era condizionata dai conflitti geopolitici: i sovietici premiano un musicista americano, gli americani festeggiano lo stesso musicista perché è stato premiato dai sovietici… Nessuno ha mai pensato di degradarlo “à la manière de notre époque“: se vai a suonare là allora sei un traditore, uno stalinista, un nemico della democrazia. Tra i due blocchi che si guardavano reciprocamente in cagnesco puntandosi l’uno contro l’altro tutto il loro arsenale, esisteva una zona franca in cui si esercitava un mutuo rispetto per le attività feconde e creative prodotte dai popoli dell’una e dell’altra sponda. Oggi quella zona è stata obliterata, specialmente su iniziativa di una parte. Non serve scendere in desolanti dettagli fin troppo noti. Gli esempi di intolleranza da parte occidentale, a ogni livello, su qualsiasi aspetto dell’attività espressiva russa (presente e passata), non si contano.
Tutta questa vicenda, intrecciata di relazioni ed eventi simbolici, ci fa capire quanto fosse chiaro allora, alla gente comune fino ai capi di Stato, che la musica (ma noi aggiungiamo qualsiasi creativa attività umana) dal momento in cui viene espressa si stacca dal soggetto che la ha posta in essere per farsi cosa in sé, assumendo un suo proprio valore assoluto. Dalla sinfonia, al romanzo, al record di salto in alto… ogni espressione straordinaria si eleva a patrimonio universale, rendendo irrilevante la sua provenienza e il personale significato che ciascuno di noi vorrebbe magari attribuirle. Questa concezione “profonda” era resa possibile da quella coscienza di prospettiva storica, radicata nelle società che ci hanno preceduto, che identificava nel percorso creativo dell’umanità la condizione di esistenza del presente. Da cui ne derivava un rispetto quasi sacrale per le opere realizzate nel passato.
La visione bidimensionale dei fatti a cui ci stiamo sempre più abbandonando, ci abitua oggi a considerare ogni conseguimento umano appiattito sull’attimo che stiamo vivendo, deprivato della sua storia e del suo valore intrinseco. La cultura così non illumina proprio un bel niente ma vive di luce riflessa. Quella luce anodina generata dalla contingenza dei mutevoli interessi politici ed economici che dominano a turno il fluire della più elementare esistenza.