La giornata, quel 9 ottobre 1963, era stata piena di sole. Una di quelle giornate che ogni tanto, d’autunno, mentre già si fanno le prove generali dell’inverno, si affacciano all’improvviso fra le montagne, a ricordare com’era stata l’estate. Era un mercoledì. Un mercoledì di Coppa. La sera,in tv, davano Real Madrid-Glasgow. Dunque l’appuntamento, per gli uomini, era lì, al bar; perché la tv in casa, allora, chi ce l’aveva? La partita cominciò alle 21.30. Alle 22.39 venne giù il sipario. Saltò la luce. E saltarono le vite di 1910 persone.
di Luciano Gulli su “Il Giornale” del 30 settembre 2013
Chi non se la ricorda – anche solo per averne sentito parlare – la frana del Vajont, il monte Toc che molla un bel «toc» di metri cubi (270 milioni, all’incirca) nell’invaso sottostante, e quel muro d’acqua e fango che cancellò il paese di Longarone? Oggi, cinquant’anni dopo quella tragedia, arriva la denuncia choc – precisa, circostanziata – che resuscita sospetti, mormorazioni vecchi di cinquant’anni. Quella frana era stata pilotata. Così studiata a tavolino che si sapeva perfino il giorno e l’ora in cui sarebbe avvenuta. La denuncia viene da Francesca Chiarelli, figlia del notaio Isidoro Chiarelli, nel cui studio di Longarone, nei giorni precedenti la tragedia, si incontrarono alcuni dirigenti della Sade, la società proprietaria della diga del Vajont. Si doveva definire la compravendita di un terreno, quando a un tratto il discorso virò. «Facciamolo il 9 ottobre, verso le 9-10 di sera», propose uno di quei dirigenti. «A quell’ora saranno tutti davanti alla tv, e non ci disturberanno, non se ne accorgeranno nemmeno. Avvisare la popolazione? Per carità. Non creiamo allarmismi. Abbiamo fatto le prove. Le onde saranno alte al massimo 30 metri (arrivarono a 300, ndr) non accadrà niente, e comunque per quei quattro montanari in giro per i boschi non è il caso di preoccuparsi troppo». Questa la conversazione, ha raccontato Francesca Chiarelli al Gazzettino di Venezia , che si svolse davanti alla scrivania di suo padre. Poi, come se la scena si svolgesse a Brooklyn, ecco le minacce al notaio, morto nel 2004. «Lei ha un segreto professionale da rispettare, caro notaio, altrimenti se ne pentirà…». Isidoro Chiarelli tuttavia non si fece intimidire, racconta ora Silvia, sorella di Francesca e docente all’università di Padova. Ma la sua verità scomoda, nella torpida e benpensante provincia bellunese non piacque. Turbava gli animi, destava scandalo, era insopportabile da digerire. Chiarelli finì ai margini. Un appestato. «Anche se per quasi due anni nostro padre non lavorò, schivato da tutti, non smise mai di farsi testimone di quelle parole – continua la figlia Silvia -. Per questo ebbe molti problemi, pressioni e minacce. Ma il suo grande cruccio fu quello di non essere mai creduto, nemmeno nella sua veste certificante di notaio». Serve altro, per asseverare i ricordi delle sorelle Chiarelli? Ecco quest’altro terribile brandello di memoria. E chissà che ora, nell’imminenza del cinquantesimo di quella tragedia, quei poveri morti non abbiano la giustizia che finora gli è stata negata. «La sera del disastro programmato- giura la professoressa Chiarelli, mio padre ci fece stare pronti. Eravamo vestiti di tutto punto, pronti a scappare». Una«disgrazia»?Andiamo. Il notaio, dicono le figlie, usava un termine più appropriato: eccidio. Proprio quel che pensano Mauro Corona, lo scrittore, e il presidente del Consiglio nazionale dei geologi, Gian Vito Graziano, che il 5 ottobre, sui luoghi della tragedia, presenterà un documento che riscrive la storia di una catastrofe «figlia della troppa sicurezza di chi pensava di essere in grado di dominare gli eventi; della superficialità di coloro che magari intuirono lo sviluppo e la progressione della frana e fecero poco o nulla per arrestare i lavori; e del fatalismo di coloro che, pur avendo la consapevolezza della tragedia imminente, poco o nulla fecero per allertare le popolazioni».
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