Estratto dell’articolo di Michela Nicolussi Moro dal “Corriere della Sera” del 18 settembre 2023
Piero Ruzzante, lei è uno storico con una lunga carriera di politico, parlamentare e consigliere regionale alle spalle. Di libri, approfondimenti, trasmissioni e spettacoli teatrali sulla tragedia del Vajont, di cui il 9 ottobre 2023 si celebrerà il sessantesimo anniversario, ne sono stati prodotti tanti.
Cos’ha di diverso «L’acqua non ha memoria» (Utet editore), che esce il 19 settembre e che lei ha scritto con Antonio Martini e presentato in anteprima a Pordenonelegge?
«Il libro rivela notizie finora rimaste segrete, perché costruito su 61 scatoloni di carte processuali, interrogatori dei carabinieri e della magistratura da me raccolti e studiati per quattro anni».
Dove ha trovato questi documenti inediti?
«Per caso, durante una visita all’Ateneo Veneto di Venezia, al quale li aveva regalati l’avvocato Alessandro Brass, padre del regista Tinto e all’epoca legale della Sade, l’ente gestore della diga poi crollata. Si tratta della documentazione esibita dalla difesa al processo che seguì il disastro (l’inchiesta fu aperta tre giorni dopo il crollo, ndr), responsabile di 1910 vittime. […]».
E cosa è emerso?
«Sono venute fuori notizie clamorose sul prima e sul dopo disastro, che dimostrano come i rapporti di dipendenza tra gli scienziati e il potere siano rimasti inalterati, nonostante tutto. Tutti sapevano, gli operai del cantiere fecero perfino sciopero, ma vennero messi a tacere con un’indennità di 500 lire.
La gente di Longarone, di Casso ed Erto continuavano a dire che sarebbe venuto giù tutto, i movimenti della roccia erano aumentati nell’ultima settimana. E il 4 settembre, quando il territorio fu scosso da un forte terremoto, un operaio smise di andare al lavoro, dicendo: la vita è più importante delle quattro lire che prendo».
Eppure Sade ha tirato dritto.
«Sì, al punto che il 9 ottobre 1963, giorno della tragedia, i tecnici di Sade furono convocati sulla diga, per gli ultimi controlli. E in nottata un carabiniere, Rinaldo Aste, venne buttato giù dal letto e costretto a organizzare un posto di blocco sulla strada verso Erto. Gli dissero: devi andare là perché la Sade teme che ci sia un’ondatina d’acqua.
Sapevano che la frana del monte Toc stava per crollare. Aste obbedì, mentre scappava è rimasto colpito alla schiena da una cascata d’acqua e fango ma si è salvato aggrappandosi alla roccia. In quel momento, girandosi, vide la grande ondata travolgere tutto, anche Longarone, dove la moglie e i figli moriranno».
Uno degli episodi più clamorosi che lei racconta riguarda Lorenzo Rizzato, negli anni Sessanta tecnico di Ingegneria idraulica all’Università di Padova.
«Sì, lavorava con il professor Augusto Ghetti, che nel 1961 aveva condotto un esperimento a Nove, sopra il lago Morto, per valutare con un modellino gli effetti di un’eventuale frana sulla diga del Vajont.
Si rende conto che l’invaso non avrebbe retto e che Longarone era in pericolo. Ma nessuno disse niente e allora Rizzato consegnò copia dei documenti relativi alla simulazione a Franco Busetto, deputato del Pci, che presentò un’interrogazione parlamentare, denunciando il grave pericolo.
Il giorno dopo, il 14 ottobre 1963, il tecnico allora 32enne venne arrestato e tenuto in carcere una settimana, prima di essere assolto per insussistenza di prove. Ma poiché la Sade finanziava Ingegneria Idraulica con 2,2 milioni di lire, Rizzato fu prima sospeso e trasferito dall’Ateneo, che per quattro anni gli ridusse lo stipendio di un terzo, e poi licenziato». […]