Il governo Draghi ha promosso e annunciato alla vigilia della festa del 2 giugno le iniziative per ricordare i 100 anni della tumulazione all’Altare della Patria del Milite Ignoto. Una storia che merita di essere ricordata. Tre anni dopo la fine della guerra, l’Italia celebra la sua vittoria con una solennità forse mai più eguagliata. L’occasione è data dalla tumulazione del Milite Ignoto all’Altare della Patria: una cerimonia che ha avuto un lungo e toccante prologo e che ha visto una enorme partecipazione popolare. Le spoglie di quel soldato caduto e senza nome rappresentavano gli oltre 600 mila morti italiani nella Grande Guerra, i milioni di feriti, le sofferenze e l’orgoglio di un popolo che si era fatto da poco anche Nazione.
di Emanuele Mastrangelo dallo speciale di Storia in Rete “1918 – La Vittoria”
Tutto ha avuto inizio con un grido. Il grido di una madre che ha perso suo figlio in guerra. Mentre la sua eco rimbomba fra le massicce colonne romaniche della cattedrale di Aquileia, la donna in gramaglie si accascia su una bara. Si chiama Maria Bergamas, nella cassa di quercia c’è un soldato senza nome. D’ora in avanti sarà suo figlio: Antonio, irredentista che disertò l’esercito austroungarico per combattere – e morire – con quello italiano. D’ora in avanti sarà anche il figlio di tutte la madri d’Italia. È il Milite Ignoto.
Nel 1920 il colonnello Giulio Douhet aveva avanzato la proposta di onorare i caduti italiani nella Grande Guerra con la creazione di un monumento al soldato ignoto a Roma. Altre nazioni combattenti s’erano già avviate su quella strada. «Tutto sopportò e vinse il Soldato. – scrisse Douhet – Dall’ingiuria gratuita dei politicanti e dei giornalastri che […] cominciarono a meravigliarsi del suo valore […], alla calunnia feroce diramata per il mondo a scarico di una terribile responsabilità. Tutto sopportò e tutto vinse, da solo, nonostante. Perciò al Soldato bisogna conferire il sommo onore, quello cui nessuno dei suoi condottieri può aspirare neppure nei suoi più folli sogni di ambizione. Nel Pantheon deve trovare la sua degna tomba alla stessa altezza dei Re e del Genio […]». L’idea venne accolta dalle istituzioni. L’Italia era lacerata dal dolore per le immani perdite umane del conflitto, esacerbata dalla delusione di Versailles e le discordie politiche sempre più violente minacciavano di farla precipitare in una guerra civile. La politica – Giovanni Giolitti in testa – capì che quella poteva essere un’occasione irripetibile per riportare la concordia nel paese. La legge sulla «Sepoltura della salma di un soldato ignoto» fu approvata dal Parlamento all’unanimità e senza dibattito il 4 agosto 1921. Come luogo di sepoltura venne scelto l’Altare della Patria, e non il Pantheon, come proposto da Douhet, perché fosse in un luogo aperto, «sotto il sole d’Italia».
La scelta della salma che avrebbe rappresentato il sacrificio di quasi settecentomila italiani fu affidata a un complesso cerimoniale: una commissione composta da medaglie d’oro d’ogni grado (compreso un soldato semplice) individuò i resti diundici soldati italiani non identificati cercando negli undici punti del fronte dove si combatterono le più aspre battaglie: Rovereto, le Dolomiti, gli Altipiani, il monte Grappa, il Montello, il Basso Piave, il Cadore, Gorizia, il Basso Isonzo, il monte San Michele e Castagnevizza del Carso. Furono scelte quelle salme che non avevano il minimo indizio per poterle identificare. Ancor prima della cerimonia affidata a Maria Bergamas, già la commozione popolare aveva iniziato a circondare il soldato ignoto: al passaggio dei convogli che portavano le casse verso Aquileia le strade si riempivano di gente e le finestre delle abitazioni si ricoprivano di tricolori, mentre le campane delle chiese suonavano a morto. A volte si formavano cortei di civili che seguivano i passò in rassegna accasciandosi al suolo davanti al decimo feretro, mentre tutti piangevano. Le altre dieci salme vennero tumulate nel cimitero degli Eroi di Aquileia. La cassa di quercia contenente i resti del soldato prescelto per rappresentare tutti i caduti d’Italia fu quindi collocata sull’affusto di un cannone e, scortata da decorati di medaglia d’oro, issata su un carro funebre ferroviario. Sul carro furono incisi i versi del canto quarto dell’Inferno di Dante: «[…] L’ombra sua torna, ch’era dipartita […]». Il 1º novembre, su iniziativa del deputato fascista Giovanni Giuriati, fu conferita al Soldato Ignoto la medaglia d’oro al valor militare: «Degno figlio di una stirpe prode e di una millenaria civiltà, resistette inflessibile nelle trincee più contese, prodigò il suo coraggio nelle più cruente battaglie e cadde combattendo senz’altro premio sperare che la vittoria e la grandezza della patria». Alcune nazioni amiche vollero onorare il Milite Ignoto italiano: gli Stati Uniti concessero la Medal of Honor, massima decorazione militare americana, l’Estonia la Croce della Libertà di I Classe, e i francesi la Croix de guerre.
Il viaggio del Milite Ignoto verso Roma durò dal 29 ottobre al 2 novembre 1921 passando per Udine, Treviso, Venezia, Padova, Rovigo, Ferrara, Bologna, Pistoia,camion militari, come in un solenne funerale. Il 28 ottobre 1921 nella basilica di Aquileia gremita di bandiere, reduci, autorità, gente del popolo stretti nella commozione, Maria Bergamas fu condotta di fronte alle undici bare allineate. LePrato, Firenze, Arezzo, Chiusi, Orvieto. Il convoglio transitava a passo di marcia, per consentire alla popolazione di porgere omaggio al Soldato lungo il tragitto. La partecipazione popolare fu infatti immensa e commovente. Le persone si affollavano alle stazioni e sulle massicciate ferroviarie, attendendo anche per ore in ginocchio e col cappello in mano il solenne transito. Le autorità avevano prescritto la consegna del silenzio, che poteva essere rotto solo dal pianto delle madri e delle vedove. Al passaggio del convoglio la folla salutava in silenzio agitando fazzoletti, cappelli, bandiere, gagliardetti e gettando fiori sui binari. Pressoché ogni famiglia aveva avuto un caro ucciso o ferito in guerra: quel solenne momento rappresentò per tutti un rito di espiazione e di consolazione che unì nel dolore tutto il paese.
Il 2 novembre 1921, davanti alle bandiere di tutti i reggimenti e al re Vittorio Emanuele III, la salma giunse alla stazione romana di Portonaccio. L’affusto con la cassa del Soldato Ignoto venne quindi portata in corteo verso la basilica di Santa Maria degli Angeli e dei Martiri per le esequie solenni. Poi, la basilica fu allestita a camera ardente, per consentire al popolo di visitare il Milite Ignoto prima della cerimonia di tumulazione, restando aperta giorno e notte al flusso ininterrotto di visitatori. La mattina del 4 novembre, infine la bara fu caricata da dodici medaglie d’oro sull’affusto di cannone e, trainata da sei cavalli, giunse all’Altare della Patria per la sepoltura. La precedeva la banda dell’Arma dei Carabinieri, una rappresentanza di ogni Arma e dieci vedove e dieci madri di caduti. Seguivano invece la salma i ministri, i deputati e i senatori, i generali, le rappresentanze delle città decorate con la medaglia d’oro, i reduci e i mutilati di guerra. Ad attendere il corteo all’Altare della Patria c’era il sovrano e la famiglia reale, il presidente del Consiglio dei ministri Ivanoe Bonomi e le rappresentanze diplomatiche straniere. Piazza Venezia, davanti al Vittoriano, venne riempita da diecimila bandiere. La bara del Milite Ignoto arrivò alle nove e mezza. La testa del corteo fece ala lungo della scalinata del Vittoriano. Le campane di tutte le chiese diRoma iniziarono a suonare a distesa e il cannone del Gianicolo sparò a salve. Quando la bara venne condotta dai decorati verso l’Altare venne fatto risuonare il rullo dei tamburi: un onore tradizionalmente riservato alle esequie dei principi sabaudi e che fu rispolverata per ordine di Vittorio Emanuele III. Sulla bara vennero deposte la medaglia d’oro e un elmetto. Poi il sacello venne murato dietro una lastra di marmo. L’epitaffio venne dettato da Vittorio Emanuele III in persona: «Ignoto il nome – folgora il suo spirito – dovunque è l’Italia – con voce di pianto e d’orgoglio – dicono – innumeri madri: – è mio figlio».