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La Locanda di Granito

Tenersi il 25 aprile per lasciarsi alle spalle il 25 aprile

Pensieri in libertà per un superamento del 25 aprile come festa del rancore reciproco. Solo storicizzando il passato si può uscire dalla ruota dell’astio e della sfibrante fatica di Sisifo di cercare nell’odio contro un nemico il mezzo per coprire sotto una mano di vernice bianca le infinite incongruenze ideologiche della propria fazione.

Mai come quest’anno il 25 aprile è stato la fiera della stucchevolezza, delle falsificazioni storiche, dei carpiati ideologici, della schizofrenia e della dissonanza cognitiva. Da destra a sinistra, dall’alto in basso, nessuno escluso.

La guerra in Ucraina ha fatto esplodere le contraddizioni interne a ciascuno schieramento: avere nel fronte “democratico” od “occidentale” un paese che dichiaratamente si rifà ad atti e fatti del Nazionalsocialismo e ad esponenti del nazionalismo più intransigente, e contemporaneamente avere dall’altra parte un paese che dichiaratamente non rinnega il passato comunista e anzi ne alza le bandiere e contemporaneamente fa di nazionalismo, patriottismo e conservatorismo la sua bandiera dovrebbe essere sufficiente a far saltare tutti gli schemi. Davanti a questo scontro TUTTO STRATEGICO E PER NULLA IDEOLOGICO continuare a cercare patetiche divisioni ideologiche del mondo fra “noi” (i buoni) e “loro” (i cattivi) è patetico. Nella migliore delle ipotesi un rifiuto d’uscire dall’adolescenza, nella peggiore malafede.

Ma d’altronde le contraddizioni erano il pane quotidiano di una festa, il 25 aprile: celebrare come vittoria una sconfitta. Celebrare la fine dell’occupazione tedesca mentre ci occupavano gli Alleati (e fra essi anche francesi e iugoslavi, ansiosi di strappare lembi di carne viva dal territorio nazionale, e gli inglesi di avventarsi sulle nostre colonie). Celebrare la fine di una dittatura mentre si alzavano le bandiere rosse di un’altra dittatura che ovunque ha preso piede è stata infinitamente più sanguinaria e opprimente del Fascismo. Celebrare la fine di una guerra mentre le “rese dei conti” su nemici inermi sarebbero durate ancora mesi. Celebrare la partecipazione a una vittoria militare altrui quando il proprio contributo militare è stato poco più che simbolico e politico, contemporaneamente oscurando quelli che il contributo l’hanno dato più solido, ma che hanno avuto il torto di portare le stellette e d’aver giurato al Re. Celebrare i “liberatori” quando per arrivare al risultato finale hanno fatto più morti degli occupanti, seminato più distruzioni degli occupanti e saccheggiato il paese più degli occupanti.

Va però dato a Cesare quel che è di Cesare. La repubblica nata dalla sconfitta (più che dalla Resistenza) è stata in grado di gestire gli scampoli di libertà lasciati graziosamente dai vincitori (per interesse, non certo per bontà, tant’è che se li son ripresi con gli interessi a guerra fredda finita). La repubblica nata dalla sconfitta ha tenuto la stragrande parte dell’impianto statale fascista e perfino dei suo quadri intermedi (con gli alti lai di chi lamentava la “resistenza tradita” perché non si era fatta strage a sufficienza), consentendo così alla crescita economica e sociale della nazione di proseguire nel solco tracciato dal Regime (che del resto aveva fatto lo stesso con l’Italia giolittiana). La repubblica nata dalla sconfitta aveva escluso per soli cinque anni gli esponenti del passato regime sopravvissuti ai repulisti del primo dopoguerra e aveva perfino consentito loro di formare un partito ed entrare in parlamento. Si può ben dire che la repubblica si sia accanita più contro Casa Savoia (che pure dopo il 25 luglio 1943 è stata magna pars della Guerra di Liberazione, disconoscendone dunque ogni merito con suprema irriconoscenza) che non contro gli ex fascisti.

In ogni caso, la repubblica nata dalla sconfitta non è stata una repubblica antifascista. Lo sarebbe diventata col tempo, e molto tardi, nella sua senescenza, quando il lento ma infaticabile lavorio della propaganda comunista (poi radical chic) riuscì finalmente a distruggere ogni forma di patriottismo italiano che non fosse quello calcistico. A quella Patria che nel ciclo di Don Camillo e Peppone riuniva piazza rossa e campanile bianco finalmente le teste d’uovo del decostruzionismo all’italiana sono riuscite a sostituire quello stucchevole “patriottismo della costituzione” (arrivato giusto in tempo per vedere chi più ne faceva professione pubblica pulirsi le terga con tutti e 139 gli articoli e le 18 disposizioni transitorie e finali) e quell'”antifascismo” diventato una nuova religione di Stato, in parallelo alla crescita dei “valori” del politicamente corretto che oggi chiamiamo wokeismo.

L’antifascismo, per sua stessa natura, per stessa etimologia della parola NON può essere un’ideologia unificante. Essendo “anti-” qualcosa è un’ideologia automaticamente escludente. E non solo verso i suoi nemici dichiarati, ma anche verso chiunque non abbia messo il cervello all’ammasso e abbia ancora la lucidità di pensare che con l’avversario si può sempre cercare di trovare una base di ragionamento comune prima di dover arrivare a spararsi addosso l’un con l’altro, con buona pace di Popper. Invece, se non sei con loro se contro di loro. Il totalitarismo dei sedicenti “buoni”.

Dall’altra parte c’è una destra che è spaventosamente involuta dai tempi del “non rinnegare non restaurare”. Involuta perché sa benissimo qual è il sentimento della sua base, ma Palazzo Chigi val bene una professione d’antifascismo. Involuta perché nonostante il consenso di cui gode nella parte sana e produttiva e maggioritaria del paese stufa di muri-contro-muri e di denigrazione del passato nazionale, ha paura dell’ombra della minoranza radical chic assetata di guerra civile senza fine e di cancel culture.

A questa situazione non sembra esserci altra soluzione che la storicizzazione del passato e del 25 aprile. Su un unica cosa gli italiani possono essere d’accordo: che non sono d’accordo su niente. La festa deve dunque diventare una ricorrenza di separati in casa: di gaudio per chi si sente antifascista, di raccoglimento per chi invece 80 anni fa sarebbe stato dall’altra parte. Cosa si dovrebbe dunque celebrare? Un passaggio epocale. Finito il Ventennio, finita la guerra, iniziava una nuova stagione. Era bella? Era brutta? Ciascuno è legittimato ad averne il giudizio che meglio crede. Ma nessuno può negare che il passaggio epocale c’è stato. Storicizzarlo e dunque considerarlo per quello che è, dopo averne staccato le incrostazioni ideologiche. Storicizzarlo e liberarlo dal fardello delle contraddizioni, riconoscendo che la storia è fatta di contraddizioni, e che si può benissimo essere stati “dalla parte giusta” (qual che sia il concetto di giusto che il lettore ha in testa) e contemporaneamente aver compiuto gesti esecrabili o viceversa, e che mentre si stava dalla “parte giusta” contemporaneamente si divideva la trincea con uno che – a rigor di ideologia – avrebbe dovuto essere dalla “parte sbagliata”. Che si è lottato per un valore ottenendo il risultato opposto (eterogenesi dei fini) o si sono utilizzati mezzi incompatibili coi valori che si pretendeva di portare avanti. E così via.

Tutto ciò vale per tutte le fazioni protagoniste del 25 aprile: il variegato fronte antifascista, il travagliato fronte fascista (tutt’altro che monolitico), gli Alleati (parenti-serpenti fra loro, peraltro)…

Riconoscere dunque al 25 aprile la funzione di “data storica” più che di “festività” è l’unico passo avanti per uscire da questa nuova sindrome di Peter Pan che l’Italia sta attraversando, fatta di tifoserie adolescenziali, bullismo e traumi infantili mai superati. Se per 8 decenni abbiamo sognato la pacificazione nazionale come obbiettivo per placare gli animi, oggi dobbiamo invertire i termini: placare gli animi, guardare al passato con distacco (forse pure con cinismo) per avere una pacificazione. Uscire dalla ruota del rancore e del desiderio di rivalsa. Quando si riconoscerà che la contraddizione e l’incoerenza ideologica sono l’unica vera costante nella storia, allora si potrà considerare come del tutto normale e per nulla incoerente andare a mettere una corona di fiori sul monumento al nemico morto.

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