Quella del muro di Berlino è una delle storie più straordinarie del secolo scorso, ed è ancora attuale in questo nuovo clima di guerra fredda. Prima parte del racconto di Pierluigi Mennitti.
di Pierluigi Mennitti da StartMag del 12 agosto 2023
Quando nella notte fra il 12 e il 13 agosto 1961 la settantasettenne Olga Segler sentì uno scalpiccìo di scarponi militari salire dal marciapiede sotto la finestra della sua casa, al numero 34 della Bernauer Strasse a Berlino Est, non pensò neppure per un secondo di alzarsi dal letto e affacciarsi incuriosita. Affondò la testa nel cuscino, in modo da attutire il fastidioso rumore, e provò a riprender sonno.
Un mesetto dopo, Frau Segler pendeva dalla finestra del suo appartamento al secondo piano, drammaticamente aggrappata al cornicione, ancora incerta se lanciarsi nel vuoto sperando di atterrare sul telone di sicurezza che i vigili del fuoco di Berlino Ovest le avevano teso di sotto o rinunciare a tutto e tentare, con il peso dei suoi settantasette anni, di riguadagnare il solido pavimento dell’appartamento.
Il vecchio stabile nel quale abitava, sopravvissuto miracolosamente ai bombardamenti della seconda guerra mondiale, correva proprio lungo la linea di confine tra Est e Ovest. Gli appartamenti si trovavano ad Est, la strada sottostante ad Ovest. Ma il nuovo confine murario, che da trenta giorni divideva la città, si era intrufolato anche nelle sue stanze, facendo di questo palazzo una vera e propria prigione. Il portone era stato sigillato e poliziotti e operai avevano iniziato a murare le finestre del piano inferiore. Presto gli inquilini rimasti sarebbero stati evacuati. E dunque non c’era più tempo da perdere. Fu l’irruzione nel suo salotto dei Vopos, i poliziotti della Ddr, accompagnata dal plateale lancio di un lacrimogeno, a mettere fine a quell’indugio che da una decina di minuti teneva con il fiato sospeso la piccola folla di berlinesi occidentali radunatasi nel frattempo nella Bernauer Strasse. Frau Segler chiuse gli occhi, mollò il cornicione e svenne.
Non si risvegliò più. Il telone non resse il peso dei suoi chili e dell’angoscia accumulata in un mese e più di tensioni. Lo schianto fu tremendo, le ferite mortali. Oggi una lapide ricorda quella che fu una delle prime vittime di una lunga serie. Si trova proprio sul marciapiede della Bernauer Strasse, laddove c’era il civico 34. Le case non ci sono più. Furono abbattute nel corso degli anni Settanta dal regime, che non voleva ostacoli lungo la linea di confine. E anche il Muro oggi non c’è più, distrutto nei mesi successivi al 9 novembre 1989 dalla gioia dei berlinesi e dai cacciatori di souvenir. Non c’è più nulla in quel punto, solo la lapide nel mezzo del marciapiede. I passanti ogni tanto la calpestano, qualcuno non sa neppure cosa sia e cosa sia accaduto lì, sessantadue anni fa.
La decisione delle autorità sovietiche di bloccare tutti gli accessi tra le due Berlino, e addirittura di cingere i settori occidentali con un muro che fisicamente impedisse qualsiasi contatto (e qualsiasi fuga), non giunse del tutto inaspettata. Furono i tempi e le modalità a cogliere di sorpresa i comandi occidentali. Se fin dal 1958 i servizi segreti americani avevano intercettato istruzioni per la costruzione di un muro tra le due metà dell’ex capitale del Reich, denominata in codice “Muraglia cinese”, ancora venerdì 11 agosto 1961 (qualche ora prima del via all’operazione “Muraglia cinese”) l’Ufficio statale per la protezione della Costituzione di Berlino Ovest assicurava che “secondo informazioni disponibili nessun evento inusuale” era atteso per il successivo week-end.
In realtà la situazione nella Ddr, la Repubblica democratica tedesca, si era andata aggravando di anno in anno e, nell’ultimo lustro, le fughe di cittadini, spaventati dalle riforme economiche centraliste imposte dalla dirigenza comunista e dalle continue restrizioni alle libertà e ai diritti civili, si andavano moltiplicando mettendo in forse la legittimità e l’esistenza stessa del fragile Stato nato all’ombra di Mosca. Si trattava di un esodo massiccio, qualitativamente devastante, che coinvolgeva soprattutto giovani, medici, laureati, quadri dirigenti, tecnici, commercianti, professori universitari: insomma, ad un tempo l’élite e il futuro del paese.
Berlino, grazie al suo particolare status giuridico, era rimasta l’unica via di fuga da quando, nel 1952, le autorità orientali decisero la progressiva chiusura delle vie di transito tra i due Stati tedeschi e l’interruzione delle linee telefoniche tra le due Berlino, in seguito alla firma a Bonn da parte di Stati Uniti, Gran Bretagna e Francia del Deutschlandvertrag, il trattato che restituiva alla Repubblica federale tedesca una sovranità quasi piena.
E lungi dall’arrestarsi, la marea dei profughi aveva preso ad aumentare alla media di 250 mila persone all’anno. Anzi, dopo le riforme collettivistiche dell’economia varate nel 1959, i Flüchtlinge (come venivano chiamati i fuggitivi) avevano ripreso a crescere, costringendo la Ddr a varare nuove misure restrittive nella concessione dei visti e dei permessi temporanei. Nulla però sembrava riuscire a fermare questa marea inarrestabile e, ad ogni nuovo segnale di crisi o di inasprimento dei controlli nella Germania orientale, il flusso cresceva.
Nei primi mesi del 1961 l’esodo raggiunse livelli impressionanti: 16.697 a gennaio, 13.576 a febbraio, 16.094 a marzo, 19.803 ad aprile, 17.791 a maggio, 19.198 a giugno, 30.415 a luglio. Centotrentamila persone in soli sei mesi e il ritmo era destinato a crescere ancora. Di questi, la metà era costituita da giovani sotto i venticinque anni. Quasi tutti, ormai, fuggivano attraverso i valichi di passaggio dell’ex capitale.
(1.continua)