Centovent’anni fa fece la sua comparsa il terzo romanzo di Arthur Conan Doyle: Il mastino dei Baskerville, con Sherlock Holmes “resuscitato” dopo la sua morte avvenuta nel racconto L’ultima avventura, un evento che non era stato accettato dai lettori, furiosi per la fine del loro beniamino. Fu così che lo scrittore scozzese si trovò costretto a riportare in vita il noto investigatore, cedendo alle pressanti richieste dei tanti fans. Un fatto memorabile, che oggi è impensabile, ma vissuto anche da Carlo Collodi, quando fece morire Pinocchio impiccato dal gatto e la volpe e quindi lo riportò in vita poiché era subissato dalle richieste dei piccoli lettori.
Ritornando a Sherlock Holmes, dopo tanti anni dalla sua nascita, quando venne snobbato dai cultori della “letteratura alta”, dobbiamo constatare che si tratta di una figura immortale, così come i romanzi e i racconti che lo vedono protagonista. Artefice di tale successo Arthur Conan Doyle (1859-1930), che, dopo la laurea in medicina nel 1885 ad Edimburgo, città in cui era nato, ebbe un’esperienza come medico a bordo su una baleniera; in seguito aprì uno studio a Southsea dove, pare, non ebbe molto successo. E così, nel tempo libero scriveva racconti: i primi erano un misto di avventura e fanta-natura, tra i tanti ricordiamo The Americans tale, una storia in cui il tema principale è costituto da una pianta mostruosa, giunta dal Madagascar, che si nutre di uomini. Questa idea della natura che si rivolta, o che comunque invoca la sua autonomia, è rinvenibile anche nel noto Il mondo perduto da cui saranno tratti numerosi film.
Nel 1887 sullo “Strand Mgazine” apparve il primo racconto che aveva come protagonista Sherlock Holmes e il suo assistente dottor Watson, si intitolava Uno studio in rosso, assumendo le peculiarità dell’archetipo del poliziesco. Sulla stessa rivista continuarono a uscire periodicamente le avventure dell’investigatore inglese e nel 1891 apparve la prima raccolta delle avventure di Holmes. Durante la guerra anglo-boera fu corrispondente dal Sudafrica. Incarico che svolse anche in occasione della Prima Guerra Mondiale.
Doyle creò anche altri personaggi, come il professor Challenger, il colonnello Gerard ambientato nell’età di Napoleone e il cavaliere medievale Sir Nigel Loring, nessuno eguagliò il grande Sherlock. Nel 1902 ottenne il titolo di baronetto; sette anni prima era stato nominato dal re “Cavalieri d’Italia”. Nell’ultima parte della sua vita Doyle divenne un attivista dello spiritismo, tenendo conferenze in giro per il mondo. Alcune delle sue esperienze sono raccolte nel libro The new revelation.
Doyle ha saputo creare un personaggio veramente nuovo e che, oggi, al di là degli emulatori, delle apocrife clonazioni e dei successori in linea con tempi e costumi, continua a essere amato e per niente anacronistico. Sherlock Holmes continua a essere vivo e vegeto, trova la forza di cultori che si polverizzano in tutte le fasce di età e di condizione sociale. Ci sono quelli che si accontentano delle edizioni economiche, e quelli che rincorrono prime edizioni e cimeli di un personaggio che, di fatto, ha una posizione borderline tra fantasia e realtà.
Anche gli scienziati hanno guardato a quello strano personaggio – allampanato, un po’ nevrotico, che suona il violino, ossessivamente interessato agli aspetti più oscuri della vita umana e che fa uso di droghe a fini terapeutici e sperimentali – come all’emblema di un periodo storico certo della ragione e pronta a misurare, pesare, ingabbiare ogni espressione della natura, uomo compreso. Un periodo storico in cui le teorie di Cesare Lombroso sul delinquente nato andavano per la maggiore.
Doyle ha fatto del paradigma indiziario l’ossatura del metodo di indagine che costituisce la struttura della tecnica investigativa di Holmes. Un metodo che aveva mutuato dalla sua esperienza di medico, o meglio di studente in medicina. Infatti Doyle fu particolarmente colpito da un suo docente, John Bell, che aveva una straordinaria capacità nell’individuare le patologie che affliggevano i suoi pazienti limitandosi a una sommaria osservazione generale. Fu Bell l’ispirazione per Holmes: sembrerebbe un avvenimento fortuito, un’intuizione più unica che rara. In realtà il passaggio dalla semeiotica alle scienze umane non era, allora, così difficile.
La capacità straordinaria di risolvere i “casi”, basata sull’occhio clinico di chi si incarica di riconoscere i fenomeni direttamente sul campo, ricomponendone gli elementi, è frutto del giusto equilibrio di quattro forze: cultura, esperienza, flessibilità ragionata e fantasia. Sono necessari tutti i componenti per coniugare la conoscenza scientifica a quella umanistica, all’intero di una traiettoria logica dotata di un suo sapere, che sul piano teorico non si contraddice mai. La contraddizione è in qualche caso evidente sul piano pratico, quando Holmes di fatto opera sul campo con metodi e atteggiamenti che potrebbero sembrare in opposizione con le tesi enunciate. Però, per dirla con Einstein, è il solito discorso che per comprendere i ricercatori “non si deve ascoltare le loro parole, a fissare l’attenzione sui fatti”… In ogni caso il metodo scientifico di Holmes entrò in crisi solo con l’affermazione della “ragione debole” dei detective degli anni Trenta: più umani, vittime delle loro incertezze e consapevoli che con la logica ci si accosta solo parzialmente alla verità.