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Sesso, bugie e dagherrotipi: la storia fotografica del porno

La lunga battaglia tra amplessi e censori: fotomontaggi con il Papa e Garibaldi, modelle ingenue e prostitute esperte, scrittori col vizio del voyeurismo e scienziati che amano schedare le perversioni umane, coniugi porcelloni e torture sadomaso. Questo libro, che segue la Storia sociale della fotografia, è stato scritto da Gilardi per “riparare a una vergogna della storia della fotografia: il silenzio totale sulle foto pornografiche”. Fare la storia della fotografia pornografica significa affrontare una “vicenda infame” e allo stesso tempo “eroica”: persone perseguitate e, spesso, incarcerate per avere reso “disponibili al grande pubblico i segreti dei corpi tenuti celati per secoli”. Ma anche un grande affare economico che rende remunerativa, sin dagli inizi, la fotografia.
di Bruno Ventavoli da “La Stampa” del 2 ottobre 2002 
Gilardi presenta centinaia di foto, molte mai pubblicate, ricostruendo i colori e accostando le immagini a disegni, stampe, dipinti d’epoca. Un libro scandaloso, suggestivo, documentatissimo.
Graffiti, stampe, dipinti. La nascita dell’erotismo coincide con quella del mondo. Fin da quando uomo e donna si inseguono, si seducono, s’ingannano nella fantasia. Ma nella storia della pornografia la svolta avviene con la fotografia. D’un tratto, secoli di alchimie pseudoartistiche cedono il passo all’invenzione di Da guerre. Le modelle “ignude” sono quelle di sempre. A Roma, per esempio, continuano a chiacchierare in attesa d’ingaggio sulla scalinata di Trinità dei Monti. Si svelano come facevano prima, davanti alle tele di pittori barbuti, per pochi baiocchi. Con i mariti un po’ complici – il Belli li mette alla berlina in un sonetto – che spiano la “spuzzonaccia” dal lucernario. Non cambiano i corpi, né i modi, muta però la sostanza delle immagini. Perché con le prime lastre fotografiche, tutto più veloce, più realistico, più redditizio. Courbet aveva trascorso giorni a spalmare colori sulla tela per compiacere le fantasie d’un ricco committente. La sua “Origine del mondo” passò alla storia dell’arte. Le fanciulle anonime, ritratte da altrettanto anonimi fotografi in pose scandalose, no. Sono rimaste una semplice galleria infinta d’oscenità, fustigata in pubblico dai benpensanti, adorata in segreto dagli scopofili. Il fotografo, scrittore, collezionista Ando Gilardi prova a fare giustizia. Con una sorprendente e magmatica Storia della fotografia pornografica, appena uscita da Bruno Mondatori, che s’autodefinisce “infame”, in omaggio al lavoro di Borges, e al carattere dell’impresa ardua e folle. Perché la materia oscilla tra lecito e illecito, libertà e repressione, clandestinità e moda.
La fotografia pornografica nasce con i primi apparecchi d’inizio Ottocento. Non appena i fotoamatori prendono a girare il mondo con i cavalletti in spalla per riprodurre la magnificenza del creato, scaltri professionisti si rintanano nei laboratori pulciosi a spogliare fanciulle e ragazzetti, costruendo pornozootropi o pornostroboscopi. Si rischia forte. Multe salate, severe prigionie. Alle modelle, se colte in flagrante, va anche peggio. Ma nessuno si ferma. Perché il mercato è fiorente. La domanda d’immagini audaci non conosce crisi, né in tempi di ristrettezze economiche, né sotto il pugno d’uro dell’autorità. Più la censura si scatena, e più il porno diventa prezioso e appetibile. Nella Roma papalina, per esempio, ci si scatena con i fotomontaggi hard di personaggi ecclesiastici o eroi del Risorgimento: uno ieratico Garibaldi si concede a mille fellatio, il papa di Porta Pia studia il sedere all’aria di una suorina.
icende di miseria e nobiltà si mescolano nel commercio d’immagini oscene. Tra schiere infinite di morti di fame, s’alza, ogni tanto, uno Hugh Heffner che si fa prestare 600 dollari dalle banche e inventa l’impero di Playboy. La mania coinvolge tutti. Dalle ninfette di Carroll (che scriveva Alice nel paese delle maraviglie) alla cameriera di Salten (che inventava Bambi, accanto a romanzi molto porcelloni). Il delicato Altenberg, cronista della Vienna al crepuscolo e delle dolci ragazzine, aveva la spoglia stanzetta tappezzata di “nudi formosi racchiusi in cornici di quercia”. Il re del Siam, si divertiva a mettere davanti all’obiettivo le sue concubine nude. Kafka, insieme all’amico Max Brod, va a trovare un collezionista di cose erotiche e annota, poi, stupito, nel Diario , che il tizio aveva cinture di castità secolari e foto di tutte le donne possedute. Ma la Storia del Gilardi pullula più che d’artisti, di sconosciuti mestieranti che lavorano in trincea. I coniugi Diotallevi nella Roma ottocentesca, prostitute come Marta la spagnola o Maria l’ebrea che fotografavano come maniache per arrotondare i compensi e sollecitare meglio la fantasia dei clienti. Nell’Ottocento delle dilaganti epidemie veneree, alcuni teorizzavano che le fotografie pornografiche erano benedette. Perché riducevano la sessualità a fantasie solitarie inibendo il contagio. Ma Zola, sull’Aurore, tuonò affermando il contrario: il rimedio era peggio del male, perché venivano vendute nei luoghi del vizio, attirando dunque nuovi clienti. Modelle e prostitute occasionali tenevano le cartoline oscene sotto le gonne e le alzavano per adescare i viandanti con la duplice mercanzia. La violenza va di pari passo con il desiderio. Senza confini né limiti. In un’escalation di sopraffazioni, umiliazioni, torture. Dalle fanciulle africane, spogliate davanti ai fotografi per eccitare e convincere i soldati italiani a combattere nelle colonie ai tempi dell’impero fascista, alle moderne bizzarrie estreme reperibili su internet.
Nel 1880, vicino alla Heidelberg dei filosofi, fu decapitato un ex studente di medicina, pornofotografo dilettante. I giudici lo ritennero responsabile della morte di un’italiana, sarta e prostituta, che frequentava uno dei tanti circoli clandestini di amanti delle torture erotiche. Nella Germania d’allora si chiamavano “flagellatori” (un pittofotomontaggio di Grosz li celebrerà qualche decennio dopo) oggi sui dizionari sono i “sadomaso”. La ragazza spirò nel corso di una seduta di “punizioni” inflitte davanti alla macchina fotografica. Una delle tante vittime senza nome dell’immenso mercato, che macina corpi ancora oggi. La cronaca del porno è anche girotondo di espedienti per beffare la censura e allargare il confine del pudore. Con un’eterogenesi dei fini che può far sorridere. L’antropometrista Alphonse Bertillon prendeva il materiale clandestino e le schede della polizia criminale per capire i gusti sessuali francesi. Austeri professori tedeschi raccoglievano e pubblicavano immagini sconce per capire l’animo umano.
Non sapevano, però, che i magniloquenti saggi venivano acquistati e spediti in buste rigorosamente anonime e sigillata a guardoni molti distratti rispetto alla scienza. Nella Germania della svolta di secolo le associazioni di cultura fisica stampano riviste come Der Lichtfreund o Freikörperkultur und lebensform per criticare gli stili di vita borghesi e propugnare un ritorno adamitico alla natura. Così pure i periodici di difesa della razza ariana con bellissime valchirie bionde e uomini muscolosi. Ma i bollettini dei nudisti e dei nazisti, oltre alla propaganda, servivano a soddisfare schiere di pallini onanisti, degenerati, rachitici, voyeur. Stessa cosa accadde negli Stati Uniti puritani degli anni Cinquanta: astuti editori smerciavano foto di nudo sotto asettiche testate di cultori del nudismo scientifico. I testi parlavano dell’eden naturale da riconquistare, ma gli occhi del pubblico scivolavano dai laghi e dalle montagne sullo sfondo verso i peli pubici. E i crociati del buon costume ebbero spesso la meglio in tribunale, dimostrando che gli stampatori erano malandrini perché le donne non erano nudiste doc, bensì spogliarelliste di professione. In questi fraintendimenti c’è il nocciolo dell’intera pornografia. Il suo “peccato” non è mai oggettivo. Dipende dalla “lettura”. Se la donna svelata è seguace di Siddharta, viene tollerata; se è una pin up che sfila il reggiseno per una manciata di dollari, fa scandalo. Stessa cosa vale per l’eccitamento. Perché nulla è più monotono della pornografia. L’occhio complice accende l’eros. Quello distaccato, stuzzica il sorriso. Perché nulla è più buffo dell’uomo che s’accoppia cercando originalità in un gesto eternamente uguale a se stesso. Nel ricco catalogo ripescato dal Gilardi ci sono duecento anni di corpi riprodotti con tecnologie sempre più sofisticate. Eppure i dagherrotipi con prosperose popolane e dragoni in divisa, le audacie del web moderno, gli autoscatti di mogli e mariti, le sculture del kamasutra e le curve di Eva Henger, sono tutti terribilmente uguali. Come se la galleria di smorfie, biancheria intima, orgasmi simulati, fossero una disperata offensiva del difensivo contro lo sconfortante limitatezza delle nostre possibilità anatomiche.
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