Giuliano Ferrara, sul Foglio ha scritto giorni fa un bell’articolo dal titolo assai netto e spiazzante: «Ridare a Volgograd il nome di Stalingrado è un gesto di restaurazione della verità, della tragedia e della storia»
di Paolo Franchi dal Corriere della Sera del 19 agosto 2021
Ai tempi di Boris Eltsin si pensava di restituire alla città il suo antico nome di Tsaritsyn. Da allora, però, le cose sono cambiate assai. Secondo un sondaggio organizzato dai socialdemocratici di Russia giusta, più del sessanta per cento dei suoi abitanti vorrebbe che Volgograd tornasse a chiamarsi Stalingrado. Vladimir Putin ha lasciato più volte intendere di essere d’accordo, e così la pensa sicuramente quel cinquantadue per cento di russi non più giovanissimi che considerano Stalin, se non proprio il padre dei popoli, un leader e uno statista degno di ammirazione e di rispetto. Ma questo è, in fondo, scontato. Molto meno scontato è invece che possa essere della medesima opinione, seppure con motivazioni del tutto diverse, anche gente che non coltiva lo spirito grande russo e non è sospettabile di essere afflitta da rigurgiti stalinisti. È il caso di Giuliano Ferrara, che sul Foglio ha scritto giorni fa un bell’articolo dal titolo assai netto e spiazzante: «Ridare a Volgograd il nome di Stalingrado è un gesto di restaurazione della verità, della tragedia e della storia contro la cancel culture».
Una provocazione intellettuale? Può darsi. Ma una provocazione che, anche se quasi nessuno sin qui la ha raccolta, coglie nel segno. Perché non c’è dubbio, Stalin fu un feroce tiranno, e costruì un sistema spaventoso. Non c’è dubbio, però, nemmeno sul fatto che in poco più di sei mesi, tra il luglio del 1941 e il febbraio del 1942, a Stalingrado cambiò la storia d’Europa e del mondo, grazie al colpo decisivo inferto dall’Armata Rossa alla potentissima macchina da guerra del Terzo Reich, e che da Stalingrado vittoriosa partì un moto (non solo militare, ma pure politico e ideale) di riscossa destinato a non fermarsi sino alla conquista di Berlino e anche assai oltre. Non fu certo grazie solo all’abilità della propaganda sovietica, se qui nacque un mito destinato a durare nel tempo. E, se di mito – di un mito diffuso ben oltre il mondo comunista – si trattò, è un po’ difficile sostenere che lo Stalin della «grande guerra patriottica», con tutte le sue nequizie, non ne sia stato il fondatore, ma solo l’astuto beneficiario. Non cadde in questo errore Alcide De Gasperi, che nel suo primo discorso pubblico a Roma appena liberata, in gran parte dedicato a una confutazione rispettosamente severa del sistema sovietico, rese omaggio al «merito immenso, storico, secolare delle armate organizzate dal genio di Giuseppe Stalin».
Può sembrare un paradosso. Ma ad anticipare proprio a proposito di Stalingrado quella che oggi chiamiamo un po’ sbrigativamente cancel culture non fu un oltranzista atlantico o un anticomunista tutto di un pezzo, ma, come è noto, il successore di Stalin alla guida del Pcus, Nikita Kruscev, che alla battaglia di Stalingrado aveva partecipato in veste di commissario politico. Fu lui, nel 1961, dalla tribuna del ventiduesimo congresso, a rilanciare in grande stile quella campagna di destalinizzazione che aveva aperto, cinque anni prima, con il suo rapporto segreto ai delegati del ventesimo. E volle testimoniare la radicalità delle sue intenzioni con due decisioni clamorose anche sul piano simbolico. Al compagno Ivan Spiridonov affidò il compito di richiedere, a nome dei comunisti di Leningrado, lo sfratto urgente di Stalin dal Mausoleo sulla Piazza Rossa: la richiesta, sostenuta una vecchia bolscevica, l’ottantatreenne Dora Lazurkina, che riferì dei suoi colloqui in proposito con la salma di Lenin, stufa di coabitare con quella del dittatore georgiano, fu esaudita nel giro di pochi giorni.
A se stesso, invece, Kruscev riservò quello di lasciar presagire che Stalingrado sarebbe presto diventata una Volgograd qualsiasi, come in effetti di lì a pochissimo fu. Molti comunisti restarono allibiti. Compreso, eccome, Palmiro Togliatti, che in un drammatico comitato centrale del Pci non mancò di rendere noto en passant a chi (soprattutto Giorgio Amendola, ma pure Giancarlo Pajetta, Giorgio Napolitano, Pietro Ingrao e molti altri) contestava la sua reticenza sullo stalinismo di sentirsi molto vicino a tanti bravi compagni per i quali Stalingrado doveva restare per sempre Stalingrado. Ma più significativa del travaglio dei comunisti — per i quali ovviamente era alquanto difficile convincersi e convincere che il nome di Stalin, osannato fino a pochi anni prima, andasse cancellato —, fu forse la reazione, tra il perplesso e il contrario, di molti europei che comunisti proprio non erano. Riferì il 17 novembre 1961 il Corriere che i cittadini di Coventry, la città martire della resistenza britannica ai tedeschi, di nuove denominazioni non volevano proprio sentir parlare: «Quel nome (Stalingrado, ndr) ha ormai acquistato un significato ben preciso, carico di ricordi, per gli abitanti della città inglese. Volgograd invece non significa un bel nulla». Per capire il loro disagio, continuava il corrispondente, bisognava ricordare «che la furia iconoclastica, che muta la denominazione di strade o località geografiche, risulta del tutto incomprensibile al popolo britannico … Gli inglesi non possono essere tacciati di stalinismo, “ma negli annali del valore umano, scrive stasera l’Evening Standard, Stalingrado si chiamerà sempre Stalingrado”».
Ecco. Sarebbe ottima cosa se potessimo fare nostro, nel 2021, il modo di ragionare degli abitanti di Coventry di sessant’anni fa, e lo applicassimo in chiave universalistica. Da questo punto di vista, la questione di Stalingrado è un banco di prova. Forse più per noi che per Putin.