I rapporti tra il filosofo e il Regime sono profondi e complessi. Le immagini stereotipate sono errate
Di Francesco Perfetti da Il Giornale del 10 Luglio 2021
Giovanni Gentile entrò a far parte del governo Mussolini come ministro della Pubblica Istruzione da indipendente. E lo fece soprattutto per portare avanti la riforma della scuola cui rimarrà legato il suo nome. A quell’epoca egli non aveva ancora aderito al fascismo né aveva mostrato particolare interesse per la politica. Durante il periodo dell’interventismo e durante la guerra si era peraltro impegnato per sostenere lo sforzo bellico. Legato alla tradizione della Destra storica, Gentile aveva portato avanti l’idea di un liberalismo maturato attraverso la rilettura del Risorgimento e lo sviluppo di quella riflessione, avviata dagli hegeliani di Napoli Francesco De Sanctis e Bertrando Spaventa, primi fra tutti che auspicavano l’unificazione ideale e culturale del paese dopo la sua unificazione politica. Egli aveva del Risorgimento una visione per molti aspetti collimante con quella che anni dopo, su un versante più propriamente storiografico, avrebbe sviluppato lo storico Gioacchino Volpe che vedeva l’Italia moderna come punto di arrivo di un processo che trasforma il «popolo minuto» in «nazione» e a tale «nazione» fa acquisire consapevolezza e sostanza nella realizzazione dello Stato unitario.
Gentile aderì formalmente al fascismo il 31 maggio 1923 scrivendo a Mussolini di essersi persuaso, lui «liberale per profonda convinzione», che il liberalismo com’egli lo intendeva e come «lo intendevano gli uomini della gloriosa Destra» che aveva guidato l’Italia del Risorgimento, cioè «il liberalismo della libertà nella legge e perciò nello Stato forte e nello Stato concepito come realtà etica», fosse ormai rappresentato dal fascismo. Per lui, in un certo senso, il fascismo era un movimento nato per il ristabilimento dell’ordine e della legalità e destinato a rappresentare la continuazione del Risorgimento.
Il senso dell’adesione del liberale Gentile come pure di quella di tanti altri esponenti del vecchio liberalismo risorgimentale al fascismo è comprensibile solo tenendo ben presenti sia le coordinate del suo pensiero filosofico, il rapporto cioè con l’idealismo, sia il suo rifarsi alla Destra storica, ai suoi valori e ai suoi istituti, a cominciare dalla monarchia. Non è un caso, per esempio, che, chiamato a presiedere la Commissione dei Solini per le riforme costituzionali, egli avesse fissato, contro i sostenitori del concetto di «rivoluzione fascista» dei paletti precisi ricordando che il passato risorgimentale si perpetuava «nella persona sacra del Re» ed era «nostra storia intangibile».
Nella scelta di Gentile di aderire al fascismo rivendicando, al tempo stesso, la tradizione liberale della Destra storica quale si era sviluppata lungo la direttrice speculativa propria dell’idealismo napoletano della linea De Sanctis-Spaventa non vi furono motivazioni di interesse personale o di calcolo politico come sembra invece suggerire l’ultimo volume di Mimmo Franzinelli dal titolo “Il filosofo in camicia nera”. Giovanni Gentile e gli intellettuali di Mussolini (Mondadori, pp. 374, euro 24): un volume che, viziato da evidenti pregiudizi politici nei confronti del filosofo, non soltanto non presenta elementi rilevanti sulla figura di Gentile e sulla sua attività politico-culturale, ma riporta la ricerca storica indietro di molti decenni, all’epoca cioè di una letteratura storiografica tutta militante e politica più che storica. Leggendo il volume di Franzinelli si ha, infatti, l’impressione che siano stati del tutto inutili gli studi sul fascismo inaugurati da Renzo De Felice e portati avanti dalla sua scuola per sostenere la necessità di un approccio storiografico di tipo scientifico e non ideologico..
La tesi di fondo del volume è che Gentile, ambizioso uomo di potere, strinse con Mussolini un sodalizio umano e politico che ne fece un fidato consigliere e un ghostwriter del duce, il quale lo ricompensò con incarichi prestigiosi e laute prebende. Grande organizzatore culturale, egli avrebbe fornito al fascismo una legittimazione filosofica, avrebbe contribuito ad attivare i meccanismi di creazione e controllo del consenso e a stimolare il culto della personalità del dittatore. In questo quadro l’elaborazione del Manifesto degli intellettuali fascisti del 1925 e l’imposizione del giuramento di fedeltà al regime del 1931 per i professori universitari sarebbero stati momenti assai significativi e qualificanti. E le grandi iniziative culturali legate alla sua persona, dall’Enciclopedia Italiana all’Istituto per il Medio ed Estremo Oriente, sarebbero state soltanto o prevalentemente operazioni di tipo propagandistico. All’epoca della creazione dell’Accademia d’Italia come avrebbe ricordato Mussolini a un suo interlocutore molti avversari del filosofo lo accusavano di aver fatto della sua scuola l’«occupante unico del potere culturale» e di aver creato una «mafia della cultura», ma Gentile rifiutò per questo la nomina ad accademico e la presidenza dell’istituzione.
Che Gentile abbia avuto grande peso e posizioni di rilievo nella politica culturale del regime è fuor di dubbio, ma da qui a trasformarlo in un interessato piazzista dei propositi liberticidi e delle scelte dittatoriali del fascismo ce ne corre. I rapporti di Gentile con il regime non furono sempre rosei: soprattutto negli anni Trenta egli visse una sorta di isolamento pur compensato dalla stima personale di Mussolini e dai risultati delle iniziative culturali, nell’insegnamento universitario e nell’attività editoriale.
La fortuna di Gentile nel fascismo aveva iniziato la parabola discendente dal 1929. Secondo Ugo Spirito il Concordato aveva «negato in forma perentoria» l’attualismo e trasformato l’Italia «da Stato laico in Stato confessionale»: era stato, insomma, per Gentile una «battaglia perduta». Ma c’era di più. La tesi gentiliana della continuità fra Risorgimento e fascismo si era indebolita, come dimostravano le intemperanze dei giovani affascinati dal «fascismo internazionale», dai discorsi sullo «Stato nuovo» e dalla mitizzazione del concetto di rivoluzione. Così Gentile fu al centro di polemiche e accuse, che lo amareggiarono non poco, provenienti da ambienti filosofici e culturali avversi all’idealismo ovvero da intellettuali esclusi dal circuito del potere o, ancora, da settori del fascismo che lo accusavano di essere un liberale mascherato. Soprattutto nell’ultimo scorcio degli anni Trenta, finì per sentirsi sempre più estraneo a certe scelte del regime, a cominciare dalla politica razziale che confliggeva con l’antinaturalismo del suo pensiero: Gentile cercò di contrastarla offrendo sostegno e protezione a non pochi intellettuali ebrei. Di tutto ciò, della «sfortuna» cioè di Gentile il libro di Franzinelli non dà grande conto come pure minimizza o ridimensiona l’aiuto da lui offerto a studiosi in odore di antifascismo chiamati come collaboratori dell’Enciclopedia Italiana anche a costo di finire nel mirino degli intransigenti e gli interventi in soccorso di intellettuali antifascisti ai tempi della Repubblica sociale italiana.
Il senso della partecipazione del filosofo alle vicende della Rsi in un periodo durante il quale scrisse, «per adempiere un dovere civile» con il pensiero rivolto all’«Italia futura», l’ultima sua opera Genesi e struttura della società, ristampata ora a cura di Gennaro Sangiuliano (Oaks editrice, pp. XXXII-200, Euro 20) sta tutto in quel Discorso agli italiani pronunciato il 24 giugno 1943 in Campidoglio a Roma: un discorso dal quale emergeva che, per lui, il problema di fondo non era tanto l’esito della guerra quanto piuttosto la continuità storica della nazione italiana anche all’indomani di una pur prevedibile sconfitta. Un discorso, ancora, non tanto di un «moderato sui generis» (per usare una espressione di Franzinelli), quanto piuttosto di un intellettuale pensoso delle sorti del paese e della pacificazione degli animi. Il che rende ancor più odioso umanamente e politicamente ingiustificabile l’agguato dei gappisti che gli costò la vita.