Mirella Serri per “la Stampa” del 14 maggio 2021
La discussione su quanti furono i combattenti che si schierarono a fianco di Benito Mussolini a Salò continua ancora oggi a dividere gli storici, mentre cova sotto la cenere ed è pronto a riaccendersi il dibattito sulla guerra civile e sulle ragioni di chi scelse di stare dalla parte della Resistenza e di chi da quella della Rsi. Questo si verifica anche perché sull’ esperienza repubblichina mancano ancora dati certi: così ci avverte Gianni Oliva nel libro La bella morte. Gli uomini e le donne che scelsero la Repubblica sociale italiana (Mondadori, pp. 312, 22).
Lo storico torinese ripercorre i tragici mesi della guerra di Liberazione in cui molti si arruolarono per «cercar la bella morte», come recita il titolo del racconto di Carlo Mazzantini che si unì alle camicie nere. Oliva ci restituisce la gran varietà delle cifre che riguardano i militi saloini e che vanno da quelle ipotizzate nel 1944 da Mussolini, il quale parlava di 780 mila uomini a lui fedelissimi, a quelle della pubblicistica nostalgica di Giorgio Pisanò, che indicherà in 850 mila il contingente degli adepti del Duce.
Ma alcuni ricercatori affermano che le forze repubblichine erano invece composte da 573 mila unità, anche se Alessandro Pavolini sosteneva che nelle sole Brigate nere c’ erano 110 mila individui. Bisogna inoltre conteggiare anche le novelle amazzoni, ovvero le ausiliarie che, secondo la fondatrice Piera Gatteschi Fondelli, furono circa seimila, a cui si aggiunsero i 13 mila militari che entrarono nelle SS italiane.
Lo storico precisa che «al di là delle quantificazioni, emerge tuttavia un elemento incontrovertibile: i volontari di Salò non possono essere liquidati come un fenomeno residuale e almeno sino alla tarda primavera-inizio estate del 1944 rappresentano una scelta di campo più diffusa rispetto a quella antifascista».
Continuare a sottovalutare il numero dei repubblichini, come fanno molti studiosi, non giova a placare risentimenti e rancori che ancora sono presenti tra noi, che vengono usati strumentalmente nel dibattito politico e che riappaiono come rigurgiti di antiche divisioni. Per far chiarezza sulla lotta che dilaniò l’ Italia dal 1943 al 1945, Oliva fa apparire, con dovizia di testimonianze e di ricerche, gli stati d’ animo, la psicologia, le motivazioni intellettuali e sentimentali delle varie categorie di coloro (militari, fascisti di vecchia data e di nuovo conio, funzionari, intellettuali, donne le quali decisero di partecipare alla guerra in prima persona) che si orientarono verso il fascismo repubblicano.
Chi furono i primi a aderire alla Rsi quando era ancora in gestazione? Furono i paracadutisti, i cosiddetti «arditi dell’ aria» che incarnavano le élite e combinavano slancio eroico e modernità tecnologica. «L’ onore perduto l’ 8 settembre non può essere recuperato che con militari che combattono contro il nemico» sostenne il maggiore Mario Rizzatti il quale, in Sardegna, decise addirittura di unire i propri uomini a quelli della Wehrmacht. Provò a ostacolarlo l’ eroico tenente colonnello Alberto Bechi, capo di stato maggiore della «Nembo», che venne ucciso (insieme a uno dei carabinieri della sua scorta) da altri commilitoni che si erano schierati dalla parte dei nazisti. Questo fu un episodio emblematico della tragica disgregazione che dopo l’ armistizio con gli Alleati segnò tutta l’ Italia.
Ma vent’ anni di educazione alla guerra fascista non si azzeravano tutto d’ un tratto. Entusiasti della Rsi furono gli aderenti della prima ora al fascio che erano animati dalla volontà di vendicarsi degli opportunisti della dittatura. «Nei vent’ anni di regime fascista si è verificata, in uno spaventoso crescendo, la valorizzazione di ladri, farabutti, traditori di ogni risma e di ogni colore», scriveva un seniore della milizia.
Consistente fu poi la presenza di ragazzi e di fanciulle: nella federazione del partito fascista risultarono iscritte 3.948 donne, di cui 3.133 tra i 17 e i 25 anni, tutte spinte all’ azione da accese passioni. Giorgio Almirante, futuro segretario del Movimento sociale italiano, partì senza salutare il padre, «dominato da una poderosa forza interiore, desideroso di trovarmi in prima linea, carico di un entusiasmo tanto più singolare quanto più privo di speranza nel successo».
E testimoniò anche quanto nella Rsi fosse importante lo «slancio razzista»: segretario di redazione della rivista La difesa della razza, illustrò la necessità di «fare del razzismo cibo di tutti e per tutti, se veramente vogliamo che in Italia sia viva in tutti la coscienza della razza».
Il libro di Oliva ci fa attraversare in maniera esaustiva tutto il territorio del fascismo repubblichino e al contempo ci fa capire come mai, ancora oggi, sopravvivano le motivazioni degli schieramenti l’ un contro l’ altro armati. Ben lo chiarisce la splendida risposta che l’ antifascista Vittorio Foa diede all’ ex repubblichino Pisanò il quale gli aveva chiesto di imboccare un percorso di riconciliazione: «Ci siamo combattuti da fronti contrapposti, ognuno con onore, possiamo darci la mano». «Certo”, disse Foa, «rispettiamo i morti di entrambe le parti. Ma solo questo, dal momento che avendo vinto noi tu sei potuto diventare senatore ma se avessi vinto tu io sarei ancora in carcere».