Uno studio di Ilaria Lasagni ricostruisce la rete diplomatica creata dall’Italia in estremo oriente durante il Ventennio
di Francesco Perfetti da Il Giornale del 5 ottobre 2022
Uno dei diplomatici italiani più importanti, Daniele Varè (1880-1956), autore del fortunato libro di ricordi autobiografici Il diplomatico sorridente, fu, in certo senso, all’inizio di una nuova fase nelle relazioni fra Italia fascista e Cina. Fu designato nel 1927 a reggere la Legazione italiana a Pechino perché profondo conoscitore dell’Estremo Oriente dal momento che vi aveva trascorso ben otto anni a partire dal 1912 inviatovi come segretario di legazione. Trovò una situazione politica diversa da quella del primo soggiorno perché scrisse nelle memorie mancava «un governo cinese, o piuttosto ce n’erano tanti che non si sapeva a quale presentare le credenziali».
Il più diretto collaboratore di Varè fu Galeazzo Ciano, all’epoca ventiquattrenne, considerato, data l’età e l’entusiasmo, un modello della nuova generazione di diplomatici. Ai rapporti italo-cinesi in questo periodo è dedicato l’ottimo studio di Ilaria Lasagni, La nuova Italia di Mussolini in Cina 1927-1934 (Studium edizioni), che si basa su una ricchissima documentazione archivistica, a cominciare da quella diplomatica, e su una puntuale conoscenza critica della letteratura storiografica in argomento. Si tratta di un lavoro che colma una lacuna perché la grande maggioranza degli storici lo aveva già sottolineato Renzo De Felice aveva dedicato scarsa attenzione al tema del fascismo italiano in Cina.
Che Mussolini si fosse interessato da sempre dell’Estremo Oriente è noto. Era convinto che, a fronte del «decadimento economico e spirituale» della vecchia Europa, ci sarebbe stato uno spostamento dell’«asse della civiltà» che avrebbe attribuito al Pacifico un ruolo trainante. Per quanto riguarda la Cina, il Duce redigendo nel 1928 una lunga prefazione, per il libro di Riccardo Korherr Regresso delle nascite: morte dei popoli si chiedeva retoricamente con una punta di pessimismo «Che cosa può significare nella storia futura dell’Occidente una Cina di 400 milioni di uomini, accentrati in uno Stato unitario?». E aggiungeva: «Le campane d’allarme squillano. Coloro che vedono un po’ più in là della quotidiana contingenza sono preoccupati».
La battuta di Mussolini non era episodica. In quel momento stava maturando una «svolta», quella del ’29, che avrebbe segnato con Dino Grandi al ministero degli Esteri l’avvio di una vera politica estera del fascismo che si proponeva di rafforzare a livello internazionale l’immagine della «nuova Italia». In questa ottica è comprensibile l’attenzione per la Cina: qui non c’era una comunità italiana numerosa ma, dopo la rivolta xenofoba dei Boxer del 1900 e le turbolenze successive provocate dei «signori della guerra», la situazione era confusa, da una parte, col territorio riunificato in mano ai nazionalisti di Chiang-kai-Scek e, dall’altra, col dinamismo del giovane Mao Tse-tung convinto dell’importanza delle campagne ai fini di un progetto rivoluzionario. Rispondevano, così, a una logica precisa sia la scelta di un autorevole diplomatico come Varè, ancorato ai valori del mondo tradizionale e conservatore, sia quella, complementare, dell’esuberante Ciano, esponente di una generazione di diplomatici legata al nuovo regime e genero del Duce: circostanza, questa, che può essere letta, evidentemente, come preciso segnale dell’interesse di Mussolini per quel territorio.
Si trattava di avere un quadro esatto per capire quale sarebbe stato il futuro di una Cina uscita da un lungo periodo di turbolenze politiche e non ancora stabilizzata malgrado il ruolo predominante di Chian-kai-Scek, ma anche, al tempo stesso, di curare gli interessi della piccola comunità italiana, sviluppare gli scambi commerciali italo-cinesi e creare le condizioni per inserire l’industria italiana nel mercato cinese. La collaborazione fra i due diplomatici italiani si rivelò fruttuosa e, dopo la partenza di Varè, si aprirono per Ciano, console generale a Shanghai, maggiori spazi di manovra che, contrariamente a quanto hanno sostenuto alcune biografie, ne mostrarono una buona abilità diplomatica anche in momenti delicatissimi come, per esempio, in occasione della crisi sino-giapponese per la Manciuria ovvero in occasione della recrudescenza di attacchi polemici e violenze nei confronti delle missioni cattoliche e protestanti, accusate, secondo un opuscolo propagandistico, di allevare «agenti al comando degli imperialisti, che con il pretesto di impartire l’istruzione religiosa e il culto» preparavano «il popolo cinese ad accettare le dominazioni straniere».
L’impegno di Ciano, coadiuvato dalla moglie Edda, divenuta punto di riferimento dell’élite locale, fu intenso. Egli dovette muoversi sullo scivoloso terreno politico-diplomatico dove portò avanti un’equilibrata linea mediana sulla questione mancese e sulla creazione del Manciukuò, lo Stato fantoccio voluto dall’impero giapponese. Non minore attenzione dedicò alla ricerca di maggiori opportunità per la finanza, l’industria, il commercio italiani in settori come quello della seta. La sua «passione» per la Cina non venne meno neppure quando, rientrato a Roma, passò ad altri incarichi: continuò a seguire le iniziative politico-economiche avviate in Cina e si adoperò per rafforzare la rappresentanza diplomatica italiana.
Lo studio della Lasagni non soltanto ricostruisce le vicende italo-cinesi dal punto di vista dei rapporti economico-diplomatici ma affronta pure il più generale tema della diffusione del fascismo nel mondo. All’inizio degli anni trenta si guardava con attenzione a Mussolini Churchill non esitò a dichiarare la propria ammirazione e al regime. In Italia si discuteva di «fascismo universale» riponendo in solaio la tesi che sosteneva non essere il fascismo «merce d’esportazione». In questo clima nacquero le Blue Shirts, Camicie blu, movimento filo-fascista caratterizzato da nazionalismo e culto del capo, fu creato a Pechino un circolo culturale sino-italiano, nelle università vennero istituiti corsi di lingua italiana e persino di diritto corporativo. Un fervore di iniziative, insomma, molte con l’impronta personale di Mussolini. Il saggio di Ilaria Lasagni le analizza attentamente, e contribuisce, così, a far luce su un aspetto poco conosciuto della storia della politica estera italiana durante il periodo fascista.