Da Togliatti a Longo, Secchia, Barontini, Vidali, i leader comunisti erano tutti legati al GRU (il servizio di informazioni militare sovietico) ed alle purghe contro anarchici e trotzkijsti nella Spagna del 1937. Su quest’argomento abbiamo scritto altrove: ma è importante sottolineare il legame di totale subordinazione del Pci e della sua classe dirigente al Pcus ed al governo sovietico prima, durante e soprattutto dopo il conflitto mondiale. Ciò riguardava tutto l’associazionismo di Botteghe Oscure, dall’Unione Donne Italiane, al Fronte della Gioventù (poi Federazione Giovanile Comunista, niente a che vedere con l’omonimo e più tardo FdG missino) ma soprattutto l’Associazione nazionale partigiani d’Italia, nella quale era confluita la massima parte dei partigiani comunisti, ovvero quelli che durante la guerra civile erano stati i più combattivi ed efficienti tra i guerriglieri sul fronte italiano, e che spesso non avevano deposto le armi, convinti della necessità di continuare il processo rivoluzionario (si pensi alla milanese Volante rossa) oltre ad elementi politicamente esaltati e estremisti, pronti a costituire una quinta colonna in appoggio ai sovietici in caso di guerra e di invasione dell’Italia. Il 9 aprile 1948 a Reggio Emilia, il capo partigiano Didimo Ferrari, nome di battaglia “Eros”, leader locale dell’Anpi annota nel suo diario, a proposito delle imminenti elezioni (18 aprile 1948) che vedranno la sconfitta del Fronte popolare togliattiano:
“La campagna elettorale si è infuocata parecchio (…) in questi ultimi giorni è stato istituito un comitato politico – militare che ha il compito di prevenire la reazione degli avversari e dirigere un’eventuale azione insurrezionale. Questo comitato del quale faccio parte, lavora ora intensamente e in tutte le direzioni perché possa essere all’altezza del suo delicato compito”.
E il 12 dello stesso mese
“Miro(Riccardo Cocconi, capo partigiano e dirigente dell’Anpi, ndA) è passato di qui, diretto a Bologna per trattare con Cucchi e Nerozzi sul come preparare le prime difese in Emilia se dovesse scoppiare una guerra. L’ho avvertito che a Vetto vi è Pasq., il quale sa che potrebbe prendere contatto con lui per coordinare la prima azione difensiva sulla cresta reggiana e parmense. Anche a est della 63 vi è un altro compagno, nella zona di Villaminozzo, per collegarsi con i modenesi qualora vi fosse bisogno…”
Ferrari, uno dei più fanatici (e feroci) capi partigiani del triangolo della Morte, fu il primo segretario dell’Anpi a Reggio Emilia. Colpito da mandato di cattura nel 1950 per l’omicidio dell’ing.Vischi, fu costretto alla latitanza e potè rientrare a Reggio 5 anni dopo.
Sempre nel 1948, il 14 aprile, il colonnello Ettore Musco, capo del servizio I del SIM, ricevette da un confidente il codice utilizzato dall’apparato di radio clandestine in uso all’ Anpi, oramai struttura paramilitare del Pci e ne informò il generale Raffaele Cadorna, capo di Stato Maggiore dell’Esercito e, su suo mandato, il presidente del Consiglio Alcide De Gasperi. Il 25 aprile successive, a Milano, dopo le manifestazioni ufficiali (in cui come detto nella prima parte Parri venne fischiato dai comunisti), nonostante il divieto del ministro dell’Interno di tenere manifestazioni pubbliche, gli iscritti all’Anpi e al Pci sfilarono in corteo diretti a Piazzale Loreto. Un folto gruppo di comunisti con il fazzoletto rosso dell’Anpi al collo si radunò attorno ai marciapiedi verso via Camperio, quando venne aperto il fuoco contro i Carabinieri. Un proiettile sparato da un ex partigiano comunista con una Beretta calibro 7,65 raggiunse al torace il carabiniere di 19 anni Angelo Mariani, marchigiano, orfano di padre e di madre, da poche settimane in servizio, che si accasciò al suolo. Dopo pochi istanti ci fu un’altra sequenza di colpi, uno dei quali trapassò la manica destra della giubba del maggiore dei carabinieri Antonio Di Dato. Mariani, portato a Niguarda, morì poco dopo.
I carabinieri spararono colpi di moschetto in aria riuscendo a disperdere la folla, ma alcune centinaia di manifestanti con il fazzoletto rosso riuscirono a seguire il neosenatore Giuseppe Alberganti verso piazzale Loreto. Qui un forte scroscio di pioggia sembrava aver disperso i manifestanti, che invece si radunarono di nuovo lanciando sassi contro le forze dell’ordine. Verso le 19.30 la situazione tornò alla normalità. Altro esempio, sempre del 1948: a giugno vi furono scontri tra Carabinieri e iscritti all’Anpi ad Arco di Trento; la sede Anpi venne perquisita e furono sequestrate armi da guerra tenute in perfetta efficienza.
Quelli dell’Anpi erano quindi diventati spesso elementi scomodi, anche per il radicalizzarsi della reazione governativa: dopo l’attentato a Togliatti (14 luglio 1948) e l’assassinio brutale di un maresciallo dei Carabinieri e di un poliziotto ad Abbadia San Salvatore l’ultimatum delle Forze dell’Ordine era stato brutalmente chiaro: I tedeschi hanno fatto dieci per ognuno dei loro: noi faremo cento per ognuno dei nostri. Argomento dimenticato, ma che merita di esser ricordato, perché la violenza legata agli ambienti dell’Anpi esplose in maniera furibonda dopo l’attentato a Togliatti nel luglio del 1948. In tutta Italia scoppiarono ovunque violentissimi scontri a fuoco con 14 morti e 204 feriti, molti dei quali tra gli stessi poliziotti e carabinieri. A Genova, il 15 luglio, i manifestanti ebbero la meglio sulla Polizia che venne addirittura disarmata. Il 14 luglio, nel corso dei primi violentissimi scontri di piazza, a Livorno fu uccisa a pugnalate la guardia di P.S. Giorgio Lanzi, paradossalmente un ex partigiano; lo stesso giorno a La Spezia la guardia di PS Alessandro Saletti, 29 anni, a guardia di una sede di partito, fu assalito dai rivoltosi che cercarono di sottrargli l’arma d’ordinanza, ricevendo violentissime percosse che ne causarono il decesso dopo una breve agonia. Vennero devastate dai comunisti le sedi della DC, dell’Uomo Qualunque, del PSLI e del MSI; bruciata una camionetta della Polizia e il commissario Mangano gettato a terra a mattonate.
Il 16 luglio ad Abbadia San Salvatore furono trucidati dai comunisti il maresciallo Virgilio Raniero e la guardia di PS Giovambattista Carloni, della Questura di Siena: insieme ad altri undici guardie, i due poliziotti si recavano a portare rinforzi ad una ventina tra agenti e carabinieri assediati dai comunisti all’interno della centrale telefonica del Monte Amiata, ma, prima di arrivare sul posto, il camion sul quale gli agenti viaggiavano venne bloccato da grossi tronchi posti di traverso sulla strada. Il maresciallo Raniero ed altri agenti scesero per rimuoverli ma furono circondati da un numeroso gruppo di manifestanti armati. A bordo del camion alcuni agenti tentarono una reazione, ma i manifestanti risposero facendo fuoco contro i poliziotti; Carloni venne gravemente ferito da un colpo di pistola che gli trapassò la gola mentre l’autista del camion venne ferito al volto dalle schegge di una granata lanciata contro la cabina di guida. Costretti ad arrendersi, viste le gravi condizioni dei feriti, gli agenti furono rilasciati e lasciati entrare ad Abbadia San Salvatore. Qui il maresciallo Raniero lasciò i feriti all’ospedale e decise di telefonare per chiamare i soccorsi.
Uscito in strada, venne circondato da un gruppo di rossi, uno dei quali, poi risultato iscritto all’Anpi, gli sferrò due coltellate, uccidendolo. Carloni morì durante il trasporto in ambulanza verso l’ospedale di Siena. Gli assassini del maresciallo Raniero e della guardia Carloni furono arrestati e condannati. Erano tutti iscritti all’Anpi ed al Pci. Durante i funerali di Stato di Carloni e Raniero a Siena, dalla sede della Cgil vennero esplosi colpi di arma da fuoco contro il corteo.
Nello stesso 1948 venne costituito un Centro di solidarietà democratica, allo scopo di assistere tutti i processati senza alcuna distinzione circa l’entità e la gravità dei reati commessi, e di coordinare ogni mezzo utile alla loro difesa, fornendo assistenza legale non soltanto a partigiani responsabili di aver ucciso dopo la Liberazione fascisti, ma anche agli assassini di preti, di democristiani, di altri partigiani non comunisti. Secondo gli avvocati difensori comunisti, anche le violenze commesse a danno di sacerdoti e di democristiani a guerra finita erano da considerare azioni di guerra e pertanto dovevano rientrare nei benefici dell’amnistia Togliatti. Il Centro di solidarietà democratica, che dipendeva completamente dal Pci da un punto di vista economico e finanziario, cominciò ad operare nel 1948 per sostenere i partigiani coinvolti nei processi, e fu riesumato fra il 1969 ed il 1980 per assistere gli ultimi partigiani che ancora avevano carichi pendenti, ottenere grazie e riabilitazioni, aiutare il rientro degli espatriati, fare in modo che fossero riconosciuti gli anni di lavoro all’estero. Tale Comitato, che si avvaleva di un gruppo di avvocati coordinati da Leonida Casali, fornì difesa legale a tutti i partigiani comunisti processati, salvo tre casi particolarmente gravi relativi all’uccisione del sindacalista cattolico Fanin (novembre 1948), all’eccidio di Gaggio Montano (cinque morti, nel novembre 1945) e alla soppressione del partigiano Renato Seghedoni di Castelfranco Emilia (marzo 1946). La difesa degli imputati per questi delitti, tutti iscritti all’Anpi, fu comunque assunta dallo stesso avvocato Casali, seppure formalmente a titolo personale. Da qualche tempo l’archivio Casali e quello del Centro di Solidarietà democratica di Bologna sono parzialmente disponibili per la consultazione presso l’Istituto storico della resistenza regionale. Di un certo interesse è la raccolta degli atti giudiziari relativi a numerosi procedimenti penali per i crimini rossi del dopoguerra.
La copertura e la solidarietà politica non furono però gli unici legami tra la violenza politica ed il Pci, con l’Anpi come punto di collegamento. Nel tentativo di mettere al riparo Togliatti dai sospetti di connivenza con tali delitti, da parte comunista sono stati riesumati i discorsi che il Migliore pronunciò nel 1946 davanti ai quadri del partito di Modena e Reggio, nei quali tra l’altro si sottolineava la insufficiente vigilanza del partito nel prevenire i gravi fatti accaduti e si ammetteva che essi facevano ricadere sul partito una parte di responsabilità. Queste ammissioni, seppure velate ed ambigue, stanno comunque a testimoniare come da parte di Togliatti vi fosse la consapevolezza della compromissione dei dirigenti emiliano-romagnoli nell’organizzazione dei delitti. Da ricordare come oggi l’Anpi neghi che i gravi fatti cui parlava Togliatti siano mai avvenuti e li derubrica a propaganda revisionista.
Oggi si dimentica come il ministro degli interni Scelba nella legge che porta il suo nome avesse parificato l’apologia di fascismo con il comunismo, proponendo di fatto di mettere fuorilegge il Pci, anche se De Gasperi stralciò la parte relativa per timore di una guerra civile. Fatto sta che per il Pci- e perciò per l’Anpi- la presenza di personale addestrato e combattivo, spesso macchiatosi di crimini che neppure l’amnistia Togliatti aveva cancellato, essendo stati commessi a guerra finita, era divenuta scomoda in Italia, ma poteva essere utile all’estero anche in vista di uno scontro armato tra l’Unione Sovietica e paesi vassalli e Stati Uniti e nazioni aderenti al Patto Atlantico. Così iniziò il fuoriuscitismo prima verso la Jugoslavia, e, dopo la rottura di Tito con Stalin, dovuta anche al timore di avvento al potere del Pci in Italia, che avrebbe isolata la Jugoslavia tra i paesi della Cortina di Ferro e un’Italia stalinista (gli arresti degli espatriati comunisti di Monfalcone, poi inviati nel lager di Goli Otok, in quanto cominformisti e agenti staliniani e spiesono una chiara dimostrazione di questo timore da parte di Tito) verso la Cecoslovacchia, dove le capacità militari e l’affidabilità politica degli ex partigiani vennero sfruttate sul piano dell’intelligence, della propaganda radiofonica e dell’addestramento militare, esattamente come avvenuto tra le due guerre con la questione spagnola. Si trattava, ovviamente, di qualcosa di assolutamente ostile alle istituzioni della repubblica italiana nata dalla resistenza, come oggi l’Anpi non manca mai di sottolineare. Tra di loro vi era Francesco Moranino detto Gemisto, comandante partigiano condannato all’ergastolo non per il massacro di prigionieri della RSI schiacciati sotto i camion, ma per le sevizie e le uccisioni di mogli di partigiani non comunisti e quindi nemici del popolo.
Sul finire degli anni Quaranta, per sfuggire alla legge, 466 partigiani comunisti italiani (i più del Triangolo della morte emiliano, alcuni della Volante rossa milanese tra i quali il capo dei terroristi della Volante stessa, Giulio Paggi, il comandante Alvaro) trovarono rifugio in Cecoslovacchia. Sull’argomento esiste il libro apologetico di Giuseppe Fiori, Uomini ex, ovvero Lo strano destino di un gruppo di comunisti italiani pubblicato da Einaudi nel 1993. La storia amara, disperata, di un sogno – noi diremmo incubo! – esportato, insieme alle esistenze compromesse di chi non aveva consegnato le armi ed avevo continuato ad ammazzare a guerra finita. Un progetto uscito clandestino dall’Italia e trasferito a Praga, terra del socialismo reale. In Cecoslovacchia si arrivava solo attraverso i canali del partito. Il partito comunista, tramite le sezioni dell’Anpi, forniva i documenti falsi, l’organizzazione d’appoggio e il collocamento in Cecoslovacchia procurando un alloggio e un lavoro adatto alle capacità individuali. Gli intellettuali erano in forza a Oggi in Italia, programmazione del Pci che s’appoggiava a Radio Praga, bollettino in italiano dalla terra del socialismo, ovvero propaganda e disinformazione curata dai servizi dell’Est, cui collaborò il futuro direttore del Tg3 in quota Pci Sandro Curzi. Gli illetterati – i gorilla più adatti a usare il mitra che il cervello- venivano mandati a lavorare in campagna o nelle fabbriche ceche. Tutti gli esuli erano comunque più che tutelati dal Pci, ma allo stesso tempo erano strettamente controllati: il Pci aveva una vera e propria succursale in Cecoslovacchia, con i suoi commissari politici e tutto il resto, ed i cechi offrivano sì ospitalità, ma a loro volta sorvegliavano la comunità degli esuli, percepita comunque come un corpo se non proprio estraneo, quanto meno straniero, quindi non sottoposto all’autorità del partito comunista cecoslovacco ma direttamente sottoposto ai servizi sovietici.
Non mancarono i suicidi, e non furono casi isolati. La lontananza dalle famiglie, per chi già le aveva, la disillusione sul socialismo reale, il senso di isolamento. Ma furono davvero tutti suicidi? Per qualche caso si potrebbe pensare all’intervento della Státní Bezpečnost, la polizia segreta cecoslovacca, cosa non particolarmente improbabile nel regime comunista cecoslovacco.
Diversi membri della comunità italiana furono reclutati dalla SB come informatori: comunisti italiani che spiavano comunisti italiani, in nome degli ideali marxisti- leninisti. Dalla Cecoslovacchia i fuoriusciti rientrarono in varie riprese e alcuni non sono mai tornati. La prima amnistia per i fatti di sangue del dopoguerra fu del 1959; per ripagare l’appoggio del Pci alla propria elezione Saragat graziò il pluriomicida Moranino. Ma per le situazioni più gravi- il capo della Volante rossa Giulio Paggio, Natale Burato, Paolo Finardi- ci volle l’elezione di un presidente della repubblica ex-partigiano, Sandro Pertini, e l’intercessione presso di lui di Arrigo Boldrini Bülow, presidente nazionale dell’Anpi, per ottenerne la grazia nel 1978. Un vero schiaffo alla giustizia.
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