Mimmo Di Marzio da “il Giornale” del 28 dicembre 2022
«Noi compiangiamo la perdita di un artista raccomandabile, colui che fece uscire la Roma antica dalle sue rovine; Giovan Battista ha vissuto ancora nella persona di suo figlio Francesco».
L’elogio funebre datato 24 gennaio 1810 era di Antoine Denis Chaudet, scultore attivo a Roma fino alla caduta di Napoleone. L’artista compianto, invece, era Francesco Piranesi, personaggio geniale ancorché controverso, la cui vicenda nasce nella bottega del più celebre incisore della storia, quel cavalier Giovan Battista che seppe soddisfare il gusto dei viaggiatori del Grand Tour.
La bottega era quella di palazzo Tomati, a Trinità dei Monti, che oltre a stampare le celeberrime vedute vendeva, collezionava e restaurava pezzi scavati e antichità. Proprio in questa casa-museo, tra bulini, vasi, candelabri, tra disegni e stampe, il giovane Francesco apprese il mestiere: «L’unico- come scrisse l’architetto veneziano Giannantonio Selva – ad avere del talento e capace di calcare l’orme del padre».
Ma se è vero che la prima generazione crea e la seconda mantiene e in qualche caso distrugge, le gesta di Piranesi jr vengono oggi ricordate nel brillante saggio di Pierluigi Panza Nel nome del padre. Le molte vite di Francesco Piranesi (Istituto Veneto di Scienze, pagg. 208, euro 45), un’epopea sulle molte vite vissute da Francesco spesso pericolosamente a tu per tu con i protagonisti del mercato dell’arte, principi, emissari di case reali straniere e conquistatori imperiali.
Il libro di Panza, a metà tra biografia, saggio e romanzo storico, ne tratteggia doviziosamente la parabola, contrassegnata da un’indole iperattiva quanto incostante, nell’alternanza di scelte sempre però dettate da autentica versatilità, spirito colto e passioni sincere.
Difficile, scrive Panza, enumerare tutte le attività di Francesco: assistente di bottega, disegnatore, incisore, archeologo, antiquario, titolare di una bottega di calcografia e restauro, stampatore; e ancora, «agente per le antichità» e ministro estero, agente commerciale, mediatore, spia, politico, capo della Guardia nazionale, economo di Stato, professore e industriale… fallito.
Ambizione e arrivismo, che furono pari alla sua passione di giovane antiquario, lo spinsero a sfruttare il brand Piranesi per relazioni internazionali come la corte di Svezia, dove si accreditò, tra luci e ombre, come agente e mercante ufficiale. Emblematica, fra trattative e carteggi, fu l’epopea per l’acquisizione dell’Endemione, statua del periodo ellenistico rinvenuta a Villa Adriana nel 1783, nella prestigiosa collezione del Re Gustavo III.
Le relazioni pericolose con lo Stato straniero furono anche quelle che ne fecero, suo malgrado, una spia alla corte di Napoli e che lo costrinsero alla fuga, prima di sposare la causa giacobina durante la campagna italica di Napoleone e tornare sugli allori con la nomina a commissario della contabilità nella Repubblica Romana. Ma non fu quella l’ultima delle vite di un Piranesi che, esule a Parigi, si avventurò anche nell’imprenditoria con la fondazione di una manifattura di oggetti «in stile antico». Fu l’inizio della fine: l’indebitamento, la polverizzazione dell’immenso patrimonio di palazzo Tomati e un gusto ottocentesco che ormai preferiva l’arte romantica al neoclassicismo, lo condussero alla rovina.