Oslo – Uomini armati hanno rubato dal Munchmuseet di Oslo due dipinti di Edvard Munch, il grande maestro norvegese espressionista, fra le quali una delle quattro versioni di L’urlo. Il museo ne possiede tre versioni, altre due sono conservate in magazzino. La quarta versione dell’opera, esposta alla Galleria Nazionale di Oslo, era stata rubata il 12 febbraio 1994 mentre si svolgeva la cerimonia di apertura delle Olimpiadi invernali di Lillehammer. Era stata ritrovata intatta tre mesi più tardi. L’altro dipinto rubato è Madonna. I malviventi, armati ed incappucciati, come ha spiegato una responsabile della polizia di Oslo, Hilde Walssoe, hanno minacciato con un’arma un dipendente e hanno portato via le tele, poi sono fuggiti a bordo di un’automobile nera. Non c’era allarme. “E gli agenti -dice un testimone- “sono arrivati dopo quindici minuti. Sono rimasto stupefatto dal loro comportamento, erano quasi rilassati”.
Era “l’urlo che attraversava la natura”, come Much stesso scrisse, quello percepito nel corso di una passeggiata, durante un tramonto “rosso come il sangue” (era il 1892), che lo spinse a mettere su tela l’angoscia che nasceva dalla sua sofferenza. Un vissuto personale di particolare tragicità: “Le malattie, la pazzia e la morte – scrisse – furono gli angeli neri che vegliarono sopra la mia culla e mi accompagnarono fin dall’infanzia”. L’uomo del dipinto ha le sembianze stravolte dal terrore che lo squassa in profondità. Ed è icona del Novecento, degli orrori e della condizione esistenziale che marchieranno il secolo. L’urlo, dunque, è espressione di sofferenza non più individuale ma collettiva. E profonda, dove le forme prendono andamento indefinito, i colori sono irreali, i contorni dissolti. Modernissimo, ispirerà il movimento espressionista europeo. E’ anche la dimensione del sogno. Sono tutti gli uomini a perdersi nell’angoscia, quando capiscono che il nulla esiste, è verità partecipata.
Immagine celeberrima, spesso e a sproposito utilizzata dal mondo della comunicazione, L’urlo è senza dubbio l’opera più famosa del maestro norvegese. In essa c’è il senso tragico della vita, quello stesso che aveva animato tutta l’arte scandinava fra Ottocento e Novecento. Munch fu, in pittura, quel che Ibsen (al quale l’artista fu legato da solida amicizia) e Strindberg furono in letteratura e in teatro, legati dalla poetica dell’angoscia che contraddistinse la cultura di quel Paese in quel periodo.
Rielaborato in seguito in altri quadri e litografie, L’urlo apparteneva in origine a Il fregio della vita, ciclo pittorico per affresco che tuttavia non venne mai concluso e rimase un’opera aperta. Nelle intenzioni di Munch, voleva costituire “il poema dell’amore, della vita e della morte” attraverso la metamorfosi degli stati d’animo espressi dall’artista attraverso un uso violento del colore e delle linee. E’ la sua materializzazione delle angosce, la sua percezione della tensioni. E’ il passaggio dall’esperienza visiva dell’impressionismo al “sentire” inconscio, e lo strumento con cui l’artista dà voce alla disperazione del suo animo e del suo tempo.
Da «Repubblica.it» del 22 agosto 2004
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