di Francesco Sisto da Difesa Online del 11 marzo 21
L’attacco a Pearl Harbour del 7 dicembre 1941 può essere considerato, a tutti gli effetti, una delle più grandiose operazioni di intelligence che siano avvenute nel corso del Secondo Conflitto Mondiale. Questo attacco passò alla storia come Operazione Z.
A Pearl Harbour il bilancio fu durissimo per gli Stati Uniti: la flotta del Pacifico – soprattutto le corazzate – fu gravemente danneggiata e le forze aeree furono, di fatto, annientate.
Le corazzate Arizona e Oklahoma, il posamine Oglala e la nave-bersaglio Utah colarono a picco. Le altre corazzate come la California, la West Virginia e la Nevada furono gravemente danneggiate e poggiavano sul fondo. Le Maryland, Tennessee e Pennsylvania furono seriamente colpite, “al pari degli incrociatori Helena, Raleigh e Honolulu, dei cacciatorpediniere Cassini, Downes e Shaw e delle navi ausiliarie Vestal e Curtiss”1. Inoltre i nipponici distrussero e danneggiarono più di 300 aerei statunitensi.
Le perdite umane furono ingenti: quasi 2.500 vittime e circa 2.000 feriti. L’attacco a Pearl Harbour fu un duro “colpo” per la nazione americana.
L’8 dicembre 1941, a Washington, nell’aula del Congresso il presidente degli Stati Uniti Roosevelt disse: “Ieri, 7 dicembre 1941, una data che rimarrà scolpita nell’infamia, gli Stati Uniti d’America sono stati improvvisamente e deliberatamente attaccati da forze aeree e navali dell’Impero del Giappone”.
Così il 7 dicembre 1941, da quel momento in poi, ottenne la definizione storica di “Giorno dell’infamia”, e per tutta la Seconda Guerra Mondiale gli statunitensi avrebbero “trovato il coraggio necessario per battersi a fondo nel motto: Remember Dec. 7th! ”2.
Il piano d’attacco contro Pearl Harbour fu voluto dall’ammiraglio Yamamoto Isoroku, comandante in campo delle forze navali imperiali nipponiche.
Nel 1941 le probabilità di guerra tra il Giappone e gli Stati Uniti erano molto alte, e l’ammiraglio Yamamoto era convinto che l’unica possibilità di prevalere contro la potenza bellico-industriale americana fosse quello di colpire immediatamente e con tutta la forza possibile la flotta statunitense del Pacifico ancorata nel porto di Pearl Harbour. Secondo lo stratega giapponese, tutto questo, avrebbe avuto come conseguenza quello di costringere gli Stati Uniti a negoziare con l’Impero del Sol Levante per giungere ad un compromesso fra le due nazioni nel Pacifico.
I preparativi dell’Operazione Z e, infine, il suo straordinario successo furono – in gran parte – dovuti al servizio segreto giapponese, Kempei, e ai servizi di spionaggio della marina imperiale, il Joho Kyoku; oltre alle reti d’informazione e di appoggio presenti sul campo: le spie di Honolulu.
I compiti e gli obiettivi delle spie dell’isola erano numerosi: assicurare la solidità delle difese costiere e consigliare il punto migliore per l’attacco; decidere il giorno e l’ora per il bombardamento; “guidare con radio clandestine l’attacco stesso e identificare con esattezza tutte le perdite del nemico”3, in modo tale che lo stato maggiore imperiale giapponese potesse regolarsi e organizzarsi nelle successive mosse da guerra.
Da ricordare che a questi compiti, così delicati e rischiosi, non parteciparono solamente agenti giapponesi ma anche tedeschi; si creò, in questo modo, un vero e proprio team di spie. Tra queste vi fu una che rivestì un ruolo di primaria importanza ai fini della missione: il giovane ventottenne Takeo Yoshikawa.
Yoshikawa nacque nell’isola di Shikoku, frequentò l’accademia navale di Etajima uscendone, poi, nel 1936. In seguito si congedò dalla marina per motivi di salute, e passò al Ministero degli esteri.
Durante la sua carriera svolse missioni sotto copertura, ad Hong Kong e Shangai, dove ottenne ottimi risultati. A Honolulu dimostrò tutte le sue abilità di spia (non a caso era ritenuto uno dei migliori agenti del servizio di spionaggio della marina).
Il 20 marzo 1941 Yoshikawa (foto) partì da Yokohama diretto a Honolulu con l’incarico di ufficiale di viceconsole tirocinante (il nome di copertura fu Morimura Tadachi), e con il compito di studiare la situazione giuridica dei bambini nati nelle Hawaii da genitori nipponici. Una volta sbarcato il viceconsole Morimura raggiunse subito il consolato giapponese e si mise subito a lavoro. Da sottolineare che lo stesso console generale Kita Nagao era un agente segreto dello Joho Kyoku.
Durante il suo “soggiorno” sull’isola il giovane Yoshikawa fece numerose ricognizioni in modo tale da avere un quadro della situazione, e cercò di localizzare tutte le difese militari statunitensi. Inoltre la spia nipponica, per rendere la sua copertura ancor più solida, intrattenne una relazione con una ragazza del posto di origine giapponese, e nello stesso tempo iniziò a raccogliere tutte le cartoline turistiche disponibili e spedirle con saluti ad i suoi “amici” in Giappone. Queste cartoline si rilevarono molto utili dato che gli “consentirono di localizzare un numero considerevole di obiettivi militari”4 in estrema tranquillità.
Interessante notare che solo dopo la fine del conflitto gli statunitensi realizzarono, con incredulità (per usare un eufemismo), che una delle armi segrete dello spionaggio usate a Pearl Harbour furono proprio delle semplici cartoline turistiche. Infatti attraverso le immagini a colori i cartografi dell’Impero del Sol Levante furono in grado di ricostruire una accurata topografia delle isole, e così facendo diedero l’opportunità alle squadriglie dell’aviazione di studiare, in maniera dettagliata, i punti considerati i migliori per l’attacco.
Il porto di Pearl Harbour, con il passare del tempo, divenne l’obiettivo di controllo della spia Yoshikawa (che per investigare assunse diverse coperture: pescatore, pittore, semplice turista).
Intanto i giapponesi avevano deciso: sarebbe stato a Pearl Harbour il principale attacco contro la flotta statunitense del Pacifico.
Come riportato in precedenza, i servizi di spionaggio nipponici potevano contare anche su altri agenti presenti alle Hawaii e tra questi vi era una insospettabile “famigliola” tedesca: i Kuehn. Il capofamiglia era Otto Kuehn, si trasferì con la famiglia pochi anni prima ad Honolulu. Convinti sostenitori del nazismo, erano sul libro paga del servizio di spionaggio giapponese in accordo con quelli tedeschi. Basti pensare che da quando si trasferirono alle Hawaii ricevettero più di cento mila dollari. Per le persone del posto, era una normale famiglia di europei; nel 1939 si trasferirono a Pearl Harbour, dove riuscirono ad affittare una villetta sopra la baia del porto.
Yoshikawa entrò in contatto con Otto Kuehn (foto) nell’ottobre del 1941: i due uomini si accordarono riguardo al mettere in funzione una radio trasmittente che sarebbe tornata – molto utile – per emettere i segnali che avrebbero, poi, guidato glia aerei nipponici al momento dell’operazione contro il porto di Pearl Harbour.
Nel frattempo, in Giappone, l’ammiraglio Yamamoto mise al lavoro i suoi più stretti e fidati collaboratori per studiare e preparare l’Operazione Z. Tra questi c’era Kanji Ogawa, responsabile della sezione americana del servizio di spionaggio della marina, il viceammiraglio Onishi Takejiro, capo di stato maggiore della seconda squadra navale, e il capitano di corvetta Genda Minoru, abile pilota dell’aviazione della marina imperiale giapponese. Genda, nel dopoguerra, fu invitato in varie accademie militari americane “a tenere conferenze sulla tecnica del riuscito agguato di Pearl Harbour”5.
Grazie al viceammiraglio Onishi e al capitano Genda fu possibile dare forma a un piano d’attacco, successivamente il piano ebbe l’approvazione dei vertici dello stato maggiore della marina.
Le richieste alle spie giapponesi alle Hawaii, quindi, si fecero sempre più pressanti e precise; era fondamentale avere il più possibile numero di informazioni. Per esempio il capitano Genda, grazie alle comunicazioni che gli furono fornite, notò che la via di entrata nel cielo di Pearl Harbour poteva essere il passo di Kolekole (uno stretto accesso situato tra le alte montagne vulcaniche). Era l’imbocco aereo verso il porto di Pearl Harbour meno controllato dalle difese costiere.
Nel mese di novembre due agenti dello Joho Kyoku, Maejima Toshihide e Suzuki Takao, imbarcati sulla nave di linea giapponese Taiyo-maru, arrivarono ad Honolulu. Per un lungo tragitto la nave giapponese seguì la rotta che sarebbe stata percorsa in silenzio radio dalla flotta del vice-ammiraglio Nagumo (che a bordo della portaerei Akagi avrebbe guidato la spedizione). Il compito della missione dei due agenti era quello di consegnare al Console Kita e Yoshikawa un questionario in 97 punti utile ai fini della preparazione finale dell’operazione. Tra le domande
del questionario vi era: “In quale giorno della settimana si trova a Pearl Harbour il maggior numero di unità navali?”. La risposta fu “domenica”, e così si decise che domenica 7 dicembre 1941 ci sarebbe stato l’attacco.
Quando la Taiyo-maru ripartì da Honolulu il 5 novembre, Maejima e Suzuki erano riusciti ad allestire un rapporto perfetto e dettagliato che avrebbe, poi, formato la piattaforma operativa di una delle più importanti operazioni di intelligence del secondo conflitto mondiale.
Il 25 novembre a bordo della portaerei Akagi, il capitano di corvetta Genda diede al capitano di vascello Fuchida Mitsuo e ai suoi aviatori tutte le possibili informazioni riguardo agli obiettivi da attaccare e sulla conformazione dell’isola di Oahu. L’Operazione Z era pronta.
Il 26 novembre la flotta del viceammiraglio Nagumo salpò dall’isola di Etorofu (oggi Iturup) con destinazione Pearl Harbour.
La sera del 5 dicembre Tokyo ricevette l’ultimo messaggio radio (in codice) da parte di Yoshikawa; il messaggio recitava: “Le corazzate Oklahoma e Texas sono entrate in rada dopo tre giorni di crociera. La Lexington e cinque incrociatori pesanti sono usciti stamane. Totale navi in porto: 8 corazzate, 3 incrociatori pesanti, 15 torpediniere, 4 incrociatori leggeri e 5 caccia. Le corazzate non hanno reti antisiluro. Niente osservazioni area intorno alle Hawaii. La Enterprise salperà stasera. Sono entrati in rada l’Utah e una nave salvataggio di idrovolanti. Le corazzate sono quindi nove. Atmosfera tranquilla. Tutte le luci accese. Sentinelle normali. Equipaggio a terra”. Al momento dell’attacco le portaerei sarebbero mancate all’appello.
La sera del 6 dicembre il viceammiraglio Nagumo, arrivato con le portaerei all’altezza dell’isola di Oahu, diede l’ordine di alzare sul pennone dell’Akagi la bandiera Z, esattamente la stessa che nel 1905 l’ammiraglio Togo Heihachiro fece usare nella battaglia di Tsushima contro la marina imperiale russa. Pearl Harbour, la mattina dopo, avrebbe avuto un brusco risveglio: iniziava l’Operazione Z.
All’alba del 7 dicembre 1941, gli apparecchi d’ascolto delle difese costiere statunitensi iniziarono a segnalare una squadriglia di aerei che stava provenendo dal mare. Quando i militari statunitensi intercettarono i segnali che arrivavano dalla gola di Kolehole, dove generalmente gli aerei non passavano, ritennero che gli apparecchi di ricezione non funzionassero al meglio. Infatti non diedero subito l’allarme ma si sbagliavano. Erano quasi le 8,00 del mattino quando iniziarono i bombardamenti sul porto di Pearl Harbour; l’attacco terminò quasi due ore dopo: intorno alle 9,45.
In quel frangente di tempo sia la famiglia Kuehn che Yoshikawa vennero scoperte dall’FBI.
Gli statunitensi furono, completamente, colti alla sprovvista. Dall’Impero del Sol Levante si levarono grida di gioia per l’operazione brillantemente compiuta. Secondo gli strateghi giapponesi gli Stati Uniti molto difficilmente avrebbero potuto riprendersi da una tale sconfitta militare.
La persona che si dimostrò più cauta dopo l’attacco di Pearl Harbor fu la stessa che ideò il piano: l’ammiraglio Yamamoto. L’ammiraglio nipponico, infatti, fece notare che le portaerei statunitensi non furono distrutte, e soprattutto sapeva benissimo della superiorità bellico-industriale che aveva a disposizione la nazione americana.
Resta, indiscusso, il successo dell’Operazione Z; poco dopo iniziò a venire alla luce la rete di spionaggio (di cui nessuno se ne era accorto) che determinò la catastrofe di Pearl Harbour.
1 B. Millot, La guerra del Pacifico 1941-1945. Il più grande conflitto aeronavale della storia, BUR, Milano, 2018, p. 62.
2 B. Palmiro Boschesi, Le grandi battaglie segrete della II guerra mondiale, Mondadori, Milano, 1973, p. 88.
3 G. Fattori, Operazione Tora, in Storia Illustrata, n. 144, 1969, p. 133.
4 B. Palmiro Boschesi, op. cit., p. 89.
5 G. Fattori, op. cit., p. 132.
Foto: United States National Archives / web / USNI / FBI / U.S. Navy