La sequenza finale de ll pianeta delle scimmie con il protagonista Charlton Heston che contempla le rovine della Statua della Libertà realizzando di trovarsi sulla terra del dopobomba è una delle sequenze cardine dell’immaginario postatomico e postapocalittico. Ma la seminale chiusa del film del 1968 aveva un’illustre progenitore di quasi un secolo prima: il neozelandese e le rovine di Londra di Gustav Doré.
Un incisione per il volume «London: A Pilgrimage», pubblicato a puntate anche sull’«Harper’s Weekly» e ispirata da uno scritto di Thomas Babington Macaulay. Incisione in cui Doré immaginava che a contemplare le rovine di Londra in un remoto futuro (ben riconoscibile la diruta cupola di San Paolo) fosse un viaggiatore neozelandese.
Una fantasticheria figlia del Grand Tour
Ovviamente a ispirare Macaulay e Doré non era l’incubo postatomico che si sarebbe scatenato nel secondo dopoguerra. Bensì le suggestioni figlie del Grand Tour in cui l’immaginario della meglio gioventù figlia dell’aristocrazia europea rimaneva marchiato a fuoco dalle rovine che ancora cantavano la grandezza di Roma.
Ma tra la suggestione romantica e la fantascienza postapocalittica c’è un preciso collegamento. La suggestione di Macaulay e Doré fu determinante nell’ispirare il dimenticato poeta e scrittore statunitense Stephen Vincent Benét che firmò nel 1937 il racconto «Sui fiumi di Babilonia» (pubblicato inizialmente come «Il Luogo degli Dei») in cui per primò combinò le suggestioni romantiche delle rovine future dell’età contemporanea con l’incubo della distruzione causata dalla guerra aerea.
Benét il profeta delle apocalissi
«Sui fiumi di Babilonia» assieme alla serie delle quattro poesie «Nightmare» basterebbero a definire Stephen Vincent Benét come l’assoluto precursore di quasi tutte le fini del mondo (mancando al suo personale appello solo meteoriti e zombie, avendo immaginato nelle sue poesie apocallisi causate da natura, macchine, denatalità e guerra) e consegnarlo per sempre nell’Olimpo della letteratura di anticipazione.
Ma Benét nella sua umiltà fa passare in secondo le sue intuizioni d’anticipazione. Se ha visto New York come ne «Sui fiumi di Babilonia» di un’apocalisse futura è perché anche lui è salito sulle spalle di un gigante, Gustav Dorè. Un’incisione oggi dimenticata, ma che rappresenta la prima fantasticheria di una rovina futura del mondo moderno.
Dal saggio di accompagnamento a Sui fiumi di Babilonia
Lo ammette in una lettera a Margaret Widdemer, poetessa, che aveva sfruttato una premessa simile a quella di Benét per la sua Ancient Lights[i]:
Scrive Benét:
«Molto interessante! Sono molto preso da “Ancient Lights” e, Dio solo sa, non avrei mai pensato che “Il luogo degli Dei” avesse qualche influenza su di esso, anche se non me l’avessi detto tu. Non vedo come questa particolare idea possa fare a meno di essere in fondo a molte delle nostre menti in questi giorni ci è venuto improvvisamente in mente che le opere possono saltare in aria. Suppongo che Wells sia stato il primo a dirlo nel nostro anche se deve risalire al neozelandese di Macaulay in contemplazione sulle rovine del London Bridge».[ii]
Il neozelandese di Macaulay
Ma chi è il neozelandese di Macaulay? Si tratta di Thomas Babington Macaulay (1800-1859), storico e politico britannico, ricordato per la dottrina del macaulayism, ovvero l’introduzione del sistema di educazione britannico nelle colonie, India in primis, nonché convinto assertore della superiorità culturale, morale e tecnologica dell’Occidente (spesso inteso come Inghilterra). Insomma un uomo pregno della missione civilizzatrice dell’Impero britannico. Ma allo stesso tempo (quasi un’assoluta stranezza per un politico whig dell’epoca, per di più evangelico) Macaulay era un ammiratore della Chiesa cattolica romana, a cui attribuiva l’origine di quella missione civilizzatrice che riconosceva nell’impero britannico. E così Macaulay, nel recensire la «Storia dei papi» del tedesco Leopold von Ranke (1795-1886), il padre della storiografia scientifica, si concede di attribuire alla grandezza della chiesa di Roma un’eternità che nemmeno l’impero britannico avrebbe potuto ambire.
L’impero britannico e la chiesa di Roma
E così, Macaulay, l’araldo della superiorità dell’Occidente sulle colonie della corona britannica si concede la seguente fantasticheria commentando la storia dei papi:
«[La chiesa di Roma] Era grande e rispettata prima che i Sassoni mettessero piede in Britannia, prima che i Franchi passassero il Reno, quando l’eloquenza greca fioriva ancora ad Antiochia, quando gli idoli erano ancora venerati nel tempio della Mecca. E potrebbe esistere ancora in un vigore intatto quando qualche viaggiatore neozelandese, in mezzo a una vasta solitudine, si posizionerà su un’arcata spezzata del London Bridge per disegnare le rovine della cattedrale di Saint Paul».[iii]
Ecco il neozelandese che fantastica sulle rovine di Londra. L’uomo delle colonie che viene a contemplare le rovine di quella capitale che un tempo le dominava, un po’ come Scipione in lacrime davanti alle rovine di Cartagine, pensando che la stessa sorte un giorno sarebbe potuta capitare a Roma. Un futuro remoto, dove la Chiesa rimane con «vigore intatto». Al di là del vedere un campione dell’imperialismo britannico fantasticare su quel tipo di rovine, il passaggio di Macaulay che diventerà determinante per la visione post-apocalittica di Benét guadagnerà fama oltreoceano proprio grazie al già citato Gustav Doré (1832-1883). Il grande incisore francese sfrutterà la suggestione di Macaulay per l’ultima tavola di «London: A Pilgrimage», volume edito dalla Grant & Co. nel 1872, con testi del giornalista britannico William Blanchard Jerrold. La fortuna del volume sarà tale che verrà serializzato sulle pagine del periodico newyorkese «Harper’s Weekly».
Un “meme” ante literram
L’ultima tavola, intitolata semplicemente «The New Zealander» è già un chiaro riferimento a Macaulay. Una figura in ombra contempla delle rovine fantastiche, non diverse da certe suggestioni dei dipinti dei Grand Tour italiani. Ma è ben riconoscibile dagli ordini di colonne la cupola diruta della cattedrale di Saint Paul. E il successo di «London: A Pilgrimage» assieme al suo apparire «Harper’s Weekly» renderanno la suggestione di Macaulay fissata nell’immagine di Doré il primo canone di una visione apocalittica del mondo presente.
Certo tra Macaulay e Doré passano trent’anni. Il «neozelandese» era diventato già traslato a sorta di proto-meme, tanto che ne dà notizia persino il periodico satirico «Punch», dove nel 1865 si ironizza su uno straniero che blocca il traffico sul London Bridge, invitandolo a tornare quando Londra sarà in rovina[iv].
Forse più che la suggestione delle parole di Macaulay, ammonitrici sulla grandezza dell’impero coloniale, a ispirare Doré poté il meme che era diventato l’idea di Macaulay.
Un’idea di Walpole, l’inventore del romanzo gotico
Certo già Macaulay aveva fantasticato visioni simili prima del 1840[v] e già all’epoca di Doré gli accademici si divertivano a «scoprire» l’origine del tropo del neozelandese[vi]. Un tropo che risaliva a quasi un secolo prima, con le fantasticherie dell’inventore del genere gotico, Horace Walpole, che nel 1744 in una lettera affermava: «qualche curioso viaggiatore di Lima, visiterà l’Inghilterra e darà una descrizione delle rovine di San Paolo, come le edizioni di Baalbec e Palmira».
Idea ripresa da altri autori, Shelley in primis, e sicuramente resa popolare dal fascino dell’antico Egitto reso popolare dalle spedizioni napoleoniche. Senza dimenticare che Mary Shelley nel 1826 diede alle stampe «L’ultimo uomo», primo romanzo post-apocalittico (sottogenere pandemico) in cui gli ultimi sopravvissuti vagano per l’Europa sempre più spopolata. E in cui il Grand Tour verso l’Italia e la Grecia diventa uno sconfortante viaggio verso la desolazione.
Ma se anche la suggestione del viaggiatore di regioni remote che in un remoto futuro contemplasse le rovine delle capitali d’Europa, fosse figlia più dello zeitgeist che del singolo autore, è la combinazione Macaulay – Doré che la rende popolare, come ricorda Benét.
Note
[i] «Ancient Lights» di Margaret Widdemer, è una poesia che condivide la stessa premessa post-apocalittica de «Il luogo degli Dei». Anche qui si assiste alla distruzione di una città (le antiche luci) del titolo, ed evidente come alla distruzione segua il ritorno a un mondo pre-scientifico dove la distruzione è imputabile alla magia di stregoni malvagi.
Margaret Widdemer, «The Dark Cavalier: The Collected Poems of Margaret Widdemer», Doubleday, Garden City, 1958, pp. 55 – 56.
[ii] Charles A. Fenton (Edited By), «Selected Letters of Stephen Vincent Benét», Yale University Press, New Haven, 1960 , p. 301.
«Dear Margaret:
How very interesting! I’m very much taken with “Ancient Lights” and, God knows, I wouldn’t have thought “The Place of the Gods” had any influence on it, even if you hadn’t told me. I don’t see how that particular idea can help being at the back of a lot of our minds these days it has suddenly come upon us that the works may blow up. I suppose Wells was the first to say it in our time though it must go back to Macaulay’s New Zealander brooding on the ruins of London Bridge.
Oddly enough, “The Place of the Gods” began as a poem it was going to be a fourth nightmare for “The New Yorker”. Then somehow I couldn’t finish it, dropped it, picked it up again and made a short story instead. I wish I could say I was writing it when you were writing “Ancient Lights”; then it would make a very nice case of mutual thought-transference, and we could both get a pack of cards from Dr. Rhine of Duke University. Or perhaps Mr. Wells’ latest Martian is using us both as Cassandra an unpleasant thought. When we get back to NY I shall have the cellar gas-proofed and practice up on my machine-gun.
We are having a pleasant time here in this nice house and the children are learning various things about the country, including how to get into poison-ivy.
With all the best from us both,
Steve».
[iii] Thomas Babington Macaulay, «Van Ranke», Edinburgh Review, Ottobre 1840.
[iv] Hunter Dukes, «When London is in Ruins: Gustave Doré’s The New Zealander (1872)», The Public Domain Review, 26 ottobre 2021
https://publicdomainreview.org/collection/dore-new-zealander
[v] Vedi nota precedente.
[vi] William Colenso, «A few remarks on the hackneyed quotation of “Macaulay’s New Zealander”. Read before the Hawke’s Bay Philosophical Institute, 12th June, 1882»