Doveva essere stata una grande emozione veder tornare in Italia i convogli pieni delle opere d’arte che Napoleone si era portato in Francia. Bonaparte tra il 1796 e il 1814, durante le campagne militari francesi, aveva fatto incetta delle opere più importanti delle collezioni italiane per arricchire il Museo del Louvre, allora Musée Central des Arts, aperto nel 1793. Un museo da riempire e rendere universale, cui non bastavano le collezioni della defunta aristocrazia in fuga.
di Maurizia Tazartes da Il Giornale del 4 gennaio 2017
Si trattava di un eccezionale bottino, che si camuffava di legittimità con clausole di trattati di pace e commissioni di esperti. Le opere d’arte, e i libri, in epoca illuministica, rappresentavano la civiltà di un popolo. L’Italia, erede della classicità, del rinascimento e medioevo, aveva in questo senso un primato, che Napoleone mirava a spodestare.
Per fortuna però con il Congresso di Vienna del 1815 lo Stato Pontificio e le varie amministrazioni locali della Penisola ottenevano, nella primavera del 1816, la restituzione di gran parte delle opere. Un recupero che avveniva in diverse città italiane tra il 1816 e il 1818. E, a vedere oggi esposte, dopo duecento anni, a Roma, alle Scuderie del Quirinale, nella mostra Il museo universale. Dal sogno di Napoleone a Canova (sino al 12 marzo, catalogo Skira), oltre cinquanta opere di quel malloppo, vengono i brividi. Il Laocoonte, la Venere Capitolina, capolavori di Guido Reni, Tiziano, Guercino, Barocci, Veronese, Hayez, Canova e tanti altri. Non tutte le opere sono tornate: delle 506 registrate, 248 sono rimaste in Francia, 9 disperse.
Lo scultore Antonio Canova aveva trattato e ottenuto la restituzione dei beni pontifici. Nominato da Pio VII commissario straordinario, era giunto a Parigi il 28 agosto 1815 per concludere la missione. Dopo un passaggio a Londra per ringraziare Giorgio IV, che l’aveva sostenuto, il 29 dicembre era a Bologna a presenziare all’apertura delle casse con i dipinti emiliani tornati da Parigi. Il convoglio era poi ripartito con le opere per Roma, che sarebbero giunte a destinazione il 4 gennaio 1816: cinquantadue casse di capolavori arrivati a Civitavecchia sul battello Abbondanza. Poi era stata la volta di altre restituzioni in Veneto, Piemonte, Toscana, Lombardia. Tutti esultavano. Cresceva la consapevolezza civica del nostro patrimonio, delle sue radici, della sua inalienabilità. Esultava anche Giacomo Leopardi nel 1818 per le opere «ritornate alla patria».
Una storia avventurosa e non facile che la mostra presenta per capitoli. All’inizio i capolavori tornati a Bologna e a Roma nel 1816, il Laocoonte, La strage degli Innocenti di Guido Reni, il gesso con Marte e Venere di Canova, l’altro con l’Apollo del Belvedere, una Testa di Giove della prima metà del I° secolo a. C.
Aveva attirato i francesi anche il Rinascimento. Raffaello fu scippato nella sua quasi totalità. Ma anche i suoi epigoni lontani, come il Cavalier d’Arpino e la sua copia (bellissima) del Trasporto di Cristo al sepolcro. Furono portati via predecessori e maestri come Perugino, grandi artisti del Cinquecento come Correggio col suo Compianto su Cristo morto, i toscani Andrea del Sarto e il Cigoli con l’Ecce Homo del 1607, conservato agli Uffizi.
Dall’Emilia erano partiti per Parigi dipinti dei Carracci, di Guercino, Domenichino, Guido Reni, che rappresentavano la scuola bolognese del primo Seicento contaminata con Roma e l’antico. La splendida Fortuna con una corona di Reni, che si libra nuda nell’azzurro, ne è un esempio. E quando queste opere tornarono a Bologna nel dicembre del 1815, tutti a correre a vederle esposte nella chiesa di Santo Spirito «dotti e imperiti, pittori ed artigiani, nobili e plebei, e donne e uomini tutti, e fino i fanciulli» raccontavano le cronache.
Allo stesso modo partirono e tornarono i veneti, i lombardi, i piemontesi. Tornarono anche i Primitivi che nel 1811 l’allora direttore del museo francese, Dominique-Vivant Denon, era venuto a prelevare in Italia. Servivano a colmare le lacune del museo parigino che intanto aveva cambiato nome in Musée Napoleon. Il direttore si era portato via preziosi pittori del ‘300 e ‘400 come Taddeo Gaddi, Lorenzo Monaco, Benozzo Gozzoli, Zanobi Machiavelli e altri, poi tornati a casa.